Sono in mezzo a tante persone, una folla di giovani con bicchieri in mano e trifogli sul petto, Guinness in testa e occhi contenti. È una festa, una festa popolare per scacciare la monotonia degli ultimi giorni d’inverno. Dal palco scende danzando una melodia malinconica, di una voce calda che impasta le lacrime del violino con i colpi di coda della fisarmonica, ricuce la tromba e il banjo. È proprio lì, mentre scende con quel profumo d’origano bruciato e aspirato, mentre rievoca le solite parole politiche che danno vita al folk, è proprio lì in mezzo alla massa che la mia voglia di solitudine torna forte e prepotente. La voglia di abbandonarli, tutti, all’istante.
La voglia di andare a casa, riempire uno zaino con quaderni, macchina fotografica e una maglietta, andare in aeroporto e fiondarmi in Irlanda. Prendere i miei piedi e farli rotolare per i sentieri di campagna, sedermi sulle pietre umide, sfiorare i campi roridi al mattino, disegnare l’infinita solitudine.
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