mercoledì 31 agosto 2011

ultimo - questa storia - a.b.


Perché sei sempre triste?, gli ho chiesto.

Non sono triste.

Sì che lo sei.

Non è quello, mi ha detto. Mi ha detto che secondo lui la gente vive per anni e anni, ma in realtà è solo in una piccola parte di quegli anni che vive davvero, e cioè negli anni in cui riesce a fare ciò per cui è nata. Allora, lì, è felice. Il resto del tempo è tempo che passa ad aspettare o a ricordare. Quando aspetti o ricordi, mi ha detto, non sei né triste né felice. Sembri triste, ma è solo che stai aspettando, o ricordando. Non è triste la gente che aspetta, e nemmeno quella che ricorda. Semplicemente è lontana.

martedì 30 agosto 2011

il conte - questa storia - a.b.


Non aveva figli, non ne voleva, e detestava quelli degli altri, ritenendoli comicamente inutili, privi di futuro com’erano. Gli piacevano le donne, e forse ne avrebbe sposata una, per non complicare le cose. Ma voleva bene ai suoi cani, e a nessun altro. Un giorno il caso l’aveva fatto cascare su un assurdo garage, perso nella campagna. Tutto quello che aveva trovato lì, poi, era stato come un viaggio nel rovescio del mondo, dove le cose avevano ancora una ragione e le parole indicavano ancora le cose: ogni giorno una forza sconosciuta vi separava il vero dal falso, come il grano dalla pula. Non ne aveva dedotto niente, né aveva pensato, neppure per un istante, di interpretarla come una lezione da imparare. Era tutta roba perduta, per lui, e nulla avrebbe rovesciato il corso delle cose. Però, riprendere di tanto in tanto quella strada nella campagna, era diventato il suo personale anestetico contro la pena dell’insensatezza generale. Così aveva scelto i gesti giusti con cui scivolare sempre più nelle abitudini di quel mondo, arrivando a farsi accettare come una sorta di clandestino un po’ bizzarro, e degno di pietà. Non aveva in mente di far loro del male, né era abbastanza onesto, con se stesso, da capire che far loro del male sarebbe stato inevitabile. Voleva solo stare lì. E per farlo, nulla sarebbe stato troppo insensato, o pazzo.

lunedì 29 agosto 2011

perticara


Ci sediamo al bar del paese, al riparo della tettoia, fronte alla strada.

Dietro di noi si trova la lunga parete gialla del locale, dipinta in vago stile cubano. A quanto pare è la meta preferita del proprietario, che vi si reca ogni tanto e si scorda puntualmente di riportare a casa il cuore.

A destra, di fronte all’ingresso, sono seduti alcuni degli uomini del paese. Raccolti intorno ad un tavolo sorseggiano dai loro bicchieri e parlano nel dialetto stretto di chi vive lontano dalle città. Parlano di quello di cui gli uomini, sempre e per sempre, parleranno. Ogni tanto qualche sguardo fugge verso i due stranieri, così assurdamente agghindati da sembrare un marocchino e un libanese, con quegli zaini enormi, stremati.

Sul nostro tavolo una Franziskaner fredda campeggia come una Coppa dei Campioni, circondata di patatine e salatini.

E davanti ai miei occhi, a stagliarsi tra il cielo e le case del paese, sta la montagna, nuda e tornita. Una presenza concreta, una massa docile padrona dello spazio.

domenica 28 agosto 2011

polene di terra


Usciamo ringraziando dalla casa di chi, sconosciuto, ci ha fatto entrare, dissetato e dato informazioni. Trasciniamo i nostri corpi verso il basso per poi risalire il dislivello fino alla chiesina di Uffogliano. Qui, un minuto promontorio verde si addentra nel lungo ventre della vallata. Come polene di terra ci sporgiamo ad osservare il greto del fiume, là in fondo, disegnare vene d’acqua e ghiaia. Dall’altra parte i due santi del luogo si fronteggiano dalle rispettive rocche.

Piantiamo la tenda prima che faccia buio e ci prepariamo per la notte. Mentre l’ultimo sole ci sorprende a lavarci alla fontana del cimitero, incontriamo i nostri nuovi vicini, tre famiglie che pernottano nella canonica. Ci invitano a mangiare con loro per terminare gli avanzi del barbecue e così il nostro pasto a base di pan carrè e salame si trasforma in una cena con piada e salsiccia, carne alla brace, verdura, vino, caffè e ammazzacaffè.

Ancora una volta ce ne andiamo ringraziando dell’ospitalità gratuita, con un moto di meraviglia inespressa. Ci dirigiamo verso la tenda e ci prepariamo a dormire. Domani dovremo camminare più del previsto.

sabato 13 agosto 2011

penso denso


Penso. Denso.

A promesse non mantenute. Ad arpie mantenute. Al desiderio, all’ambizione, all’orgoglio, all’impossibilità di ottenere ciò che voglio. A crepuscolari solitudini di reietti autoesclusi dalla società spiaggiate su lidi comodi di una precisa necessità. Non tanto quella economica, animale o dell’essenza, quanto quella prosaica e concreta della mutua assistenza. Quella che nasce nell’essere adulto di poter contare sull’altrui aiuto. Perché le difficoltà, il lavoro, il futuro, tutto s’affronta. Ma quando il fisico ci abbandona siamo una nave che affonda. E quel che ci salva in quel momento non è l’affetto o l’affettato, ma il soccorso di chi ha scelto di stare al nostro lato.

Animali sociali, disse qualcuno guardando i suoi simili; e forse sognava già l’estati sensuali di Rimini. Perché tra animo, anima e animale, il passo è breve e spesso banale.

domenica 7 agosto 2011

trame-n


Ci sono milioni di fili. Intrecciati a creare una trama, una superficie, una base. Corrono regolari e immutabili gli uni sotto gli altri, onde sinuose di una geometria perfetta e rigida. E poi ci sono i fili d’oro, che viaggiano all’interno della trama con libertà e grazia, facendo del tappeto un’opera d’arte o un oggetto di consumo.

Ci sono milioni di case. Edifici, residenze, appartamenti, che si stendono indefinitamente sul territorio della città. Omogenee nella loro assoluta mancanza di qualità e prevedibilità, costituiscono il tessuto urbano. È solo all’interno di una città creata a questo modo che possono trovar posto le grandi opere delle piazze, dei mercati, delle cattedrali.

E poi ci sono milioni, miliardi di vite. Esistenze inutili e ripetitive, monotone, banali, assurdamente prevedibili, che tracciano la trama della storia umana. Ed è all’interno di questa quotidiana nullità, di questo frustrante “esistere” che nuotano, come pesci d’argento, i geni, gli uomini di talento, di intelletto, gli uomini capaci di distinguere la storia tra lo scorrere imperturbabile di una sequenza animale e le più alte vette dell’Umanità.

sabato 6 agosto 2011

oceano mare - a. baricco


Poi non è che la vita vada come tu te la immagini. Fa la sua strada. E tu la tua. E non sono la stessa strada. Così … Io non è che volevo essere felice, questo no. Volevo … salvarmi, ecco: salvarmi. Ma ho capito tardi da che parte bisognava andare: dalla parte dei desideri. Uno si aspetta che siano altre cose a salvare la gente: il dovere, l’onestà, essere buoni, essere giusti. No. Sono i desideri che salvano. Sono l’unica cosa vera. Tu stai con loro, e ti salverai. Però troppo tardi l’ho capito. Se le dai tempo, alla vita, lei si rigira in un modo strano, inesorabile; e tu ti accorgi che a quel punto non puoi desiderare qualcosa senza farti del male.

mercoledì 3 agosto 2011

testa-menti


Non c’è dubbio. È colpa della nostra testa, non del contesto.

Possiamo dare la colpa ai talenti, che ci impongono di utilizzarli al meglio. All’intelligenza, alla condizione economica, alla situazione affettiva. Possiamo rivoltare la frittata in mille modi, mordere la vita come nessuno, ma in fondo ciò che ci impedisce di viverla serenamente non sta al di fuori delle nostre mura.

lunedì 1 agosto 2011

passo e chiudo


È quasi la mezzanotte del primo di agosto. Le auto scorrono lungo il serpentone d’asfalto, attraversando uno dopo l’altro i piccoli paesini, pietre di una collana sgranata e antica. Scivolano nella notte, le luci silenziose, fino a raggiungere il Passo.

Ed è lì, nel cuore della notte e nel cuore dell’Appennino, a novecento metri di altitudine, che gli occhi assonnati faticano a realizzare quel che vedono. Mandano strani segnali al cervello che tarda a tradurli in un pensiero di senso compiuto. E così ogni cervello, lasciando dietro di sé quella visione onirica, riesce a concludere unicamente: cazzo ci fa un surfista quassù?


Seduti al tavolino del bar chiuso guardano le stelle, in quello squarcio di cielo tra il tetto dell’albergo e la chioma degli alberi. La notte è fresca e limpida, promessa di un grande nuovo inizio.

I due chiacchierano, sgranocchiando patatine messicane da quattro soldi, senza guardarsi in faccia, gli occhi fissi sul cielo stellato.

Parlano, ma quel che esce dalla loro bocca sembra non importare. Non hanno peso quelle parole. Perché non è la comunicazione il loro fine, non stasera. No, questa volta devono tracciare il tempo, isolare nella mente questo istante. Sono bolle di suono che si rompono nel silenzio della notte, imballaggio di memorie future. Come fossero il ticchettare di un orologio. Come se disegnassero una cornice sonora all’addio.

Poi i due si alzano, appoggiano la tavola da surf alla parete del bar e lasciano un messaggio di ringraziamento. Non ai gestori. Ma alla montagna.

Rimontano in auto e tornano verso valle, come pesci che risalgono la corrente per tornare là dove sono nati.