domenica 28 novembre 2010

la cura del silenzio


Mi rendo conto ora del grande cambiamento.

Me ne rendo conto quando guardo la gente ai concerti parlare e impedirti di seguire la musica. Quando guardo un branco di esseri umani radunati sotto un tetto, con una decina di piccoli che scorrazzano, e tutti fingere di ricoprire al meglio la loro parte sociale. Vedere la meschinità che avvolge come un pullover le anime nude dei nuovi genitori. Me ne accorgo guardandoti mentre mi parli di cose che non voglio sapere, di progetti cui non voglio prendere parte, di idee che non condivido. Quando sento imberbi raccontare con noncuranza della fatica fatta per rompere il proprio cellulare e ottenere così quello ultimo modello del padre. Bambocci che danno aria alla bocca dall’alto degli agi della loro famiglia. Demonizzare i nemici politici come fossero razze o categorie che incarnano stupidità e depravazione morale.

Mi ribolle il sangue a sentire parole vuote cercare di strapparmi altre parole vuote. Cercare di rompere la mia parsimonia verbale, la mia lotta contro la futilità del dialogo. Il mio sciopero della comunicazione contro una società che non amo e non desidero.

venerdì 26 novembre 2010

sono come me


Giuri che a te non succederà.

Li guardi. Guardi i loro modi di fare cinici, la loro disumanità, la misoginia e la misantropia. Osservi i tradimenti, le bugie, i suicidi morali e la perdita di ogni etica. Li vedi abbassarsi al dio del profitto, azzerare le riserve di desideri, prosciugare i sentimenti.

E non ti capaciti di come ci si possa ridurre così, come certa gente sia arrivata a barattare l’umanità con l’animalità. Come abbiano potuto scegliere di infilare la loro vita su binari fatti di una routine così rigida e miope che li porterà inevitabilmente all’insoddisfazione, al rimorso, alla rabbia e poi alla violenza. Non ti spieghi dove abbiano perso la loro giovinezza, con cosa abbiano barattato la luce che avevano negli occhi.

E poi basta poco. Basta qualche anno con loro, qualche mese di lavoro, un tempo di stenti morali senza respiro e succede. Succede che guardi la sera prima e la condanni con poca forza, sapendo che non è altro che un gradino della serie. Guardi il tuo cervello appoggiato dietro al monitor senza rabbia, in attesa di spegnere tutto e tornare a casa. Coltivi la solitudine, annaffiandola ogni sera con distillati di ore inutili.

E ti scopri esattamente come loro.

mercoledì 24 novembre 2010

dia 13: manresa



Al di sopra ombrelli di fronde nascondono il cielo, fagocitano la luce, comprimono l’aria.
Sotto le gambe terra umida, humus fertile, erba a tratti.
Intorno tronchi, cespugli, erbacce. Un doppio portico in pietra, un edificio medio novecentesco. Poi un portico di viti, un edificio in metallo, un laboratorio di cucina sperimentale. Il selciato in cemento, il centro congressi extralusso, i padiglioni moderni.
E lontano, cuore di tutto, il monastero di San Fruitos de Bages.
Nella calura soffocante del primo pomeriggio non possiamo far altro che trovare riparo qui, sotto gli alberi di questo complesso di classe. Sdraiati al suolo, con la schiena sugli zaini, le gambe imperlate di sudore a contatto con la terra, sciami di zanzare a banchettare su di noi che ormai neanche più ce ne curiamo.
Respiriamo piano. Limitiamo la comunicazione. Un goccio di acqua (rubata dai bagni del centro congressi) ogni tanto. Aspettiamo che il sole smetta di far cuocere questa terra per ripartire.

giovedì 18 novembre 2010

dia 12: artès



Seduti guardiamo la luce del tramonto scolorare le colline a nord di Artès. Dietro di noi stanno i resti di un terrazzamento murario, contrafforti e archi. Al di sopra una piazza spoglia.

La vecchia piazza di Artès domina il paese dalla sommità della collina. Ai lati le case si diramano scendendo le pendici che portano verso sud. Ma sono case senza vita. Le tapparelle sono forate, sporche, rotte. I vetri in frantumi, le facciate coperte di polvere e scrostate. Uno spazio nobile che ora non è altro che il retro di un paesino alla periferia delle città catalane.

E a incarnare tutto ciò ci pensa il campanile della chiesa.

La bandiera catalana campeggia oziosa sulla punta del timpano, mentre al di sotto due lunghe aperture espongono le campane ai quattro venti. Più sotto non resta che un affascinante muro, modulato da una piccola porta e dal principio di un arco.

Austero e cieco il campanile si stira nelle luci crepuscolari dell’orizzonte, guardiano di una cattedrale di sogni che non c’è più.

domenica 14 novembre 2010

riduca la velocità


E così via. Piccoli inutili drammi quotidiani che rotolano sui fogli del calendario, giorno dopo giorno. Finesettimana che si alternano come parentesi di lucidità e allegria, troppo corti e costretti per essere realmente liberi.

E poi, inevitabile come il libro dopo il prologo, arriva il danno. Come se tutta questa polvere alzata non fosse stato altro che un’introduzione al disastro vero. Alla mattanza morale.

E ci si domanda se prima, quando tutte le inezie eran nell’aria, pulviscolo cosmico araldo di cataclismi futuri, non era il caso di ripulirli. Di spolverare un po’ questa vita prima che ci desse l’allergia.

sabato 13 novembre 2010

dia 11: l'estany



L’abside del monastero di Santa Maria de L’Estany è una sorta di miraggio dopo chilometri di boscaglia e assenza di paesaggio antropizzato.

Ci attende una signora che dovrebbe fornirci, per conto dell’arcivescovato di Vic, un posto dove dormire per la notte. Apre il portone sul retro della chiesa, saliamo due rampe di scale e poi apre un’altra porta. Nel cuore del monastero Trecentesco, a pochi centimetri dal transetto, quello che ci aspetta è un monolocale completamente nuovo. Cucina che si apre con una finestra, un foro nella muratura ciclopica, sul giardino absidale, tavolo rotondo in legno sbiancato, divano-letto, bagno e soppalco in legno d’abete con grande letto matrimoniale. Due lucernari zenitali portano la luce nel soggiorno e sul soppalco. Allucinante. Non potevamo chiedere di meglio.

La signora si offre inoltre di portarci qualche verdura dall’orto, visto che siamo a corto di provviste.

E così, dopo un rapido giro per il paesino e una doccia bollente, ci prepariamo a mangiare.

Sul tavolo una favolosa zuppa di verdure calda, sei birre e le nostre credenziali, mentre fuori, come se ormai fosse diventato un rito, la pioggia scende a portare la notte.

dia 10: vic



La Plaça Major di Vic è un rettangolone perimetrato da eleganti edifici porticati dove strette finestre gotiche si alternano a loggiati e facciate di epoche successive. Ciò che incuriosisce non è però la stratigrafia delle facciate quanto l’anomala semplicità della piazza in sé.

Essa è costituita da un anello pavimentato che borda il grande spazio poligonale centrale in terra battuta. Ossia. Ciò che comunemente viene valorizzato, ciò che si tenta di esaltare soprattutto in uno spazio dalla composizione così focalizzata come nel caso di una piazza rettangolare, il centro, è proprio l’unico elemento su cui l’uomo non ha imposto le sue trasformazioni. Un corollario di colonne e archi, pietra e vetro, luci e ombre, costituisce il merletto di un centrotavola non ricamato. Un buco nella piazza che mostra un mondo primigenio costituito di terra.

Che poi questa venga eclissata sotto le infinite mercanzie dei bazar settimanali, delle folle manifestanti o delle rievocazioni storiche è cosa di poco conto.

Ciò che ci affascina, mentre tramonta il sole, è un foro nel cuore del mondo civile.

dia 9: cantonigròs



Sdraiato sul prato di fronte alla chiesa guardo il cielo ed il sole rovente del primo pomeriggio. “Ci sono luoghi che valgono tutto un viaggio”, penso.

Il cammino è cominciato dopo l’alba ripercorrendo la Via Verde per una decina di chilometri verso sud, e poi abbiamo risalito di colpo centinaia di metri per abbandonare la Vall de Bas. Una serie infinita di tornanti su un sentiero asfaltato immerso nel bosco. Un’ora di salita ripida col sole a ricordarci che è agosto. Poi finalmente abbiamo scollinato e non vedevamo l’ora di trovarci di fronte al piccolo paesino dove poter trovare un forno per approvvigionarci. E invece no.

Dietro l’ultima curva, superata la cresta, il sentiero torna ad essere di polvere e sassi, bordato di staccionate per il bestiame. All’orizzonte si vede la sagoma delle prime costruzioni del nucleo abitato. Due grandi case in pietra su due piani, una stalla e la tozza chiesa col suo campanile.

Entrati in paese, affamati e pronti a fiondarci su qualsiasi fonte di ristoro, aggiriamo la casa del fattore e guardiamo verso valle. E quello che vediamo sono campi. Campi, sole e vegetazione rigogliosa.

Il paese non esiste. Il presidio umano su questo picco che domina le vallate circostanti è costituito dalla casa degli allevatori con i suoi campi e la sua stalla, e dalla splendida chiesa abbandonata di Sant Pere de Falgars. Punto.

È in questi momenti che lo sconforto si trasforma in risorsa inaspettata di meraviglia. La distruzione di un’aspettativa avviene per mezzo di un luogo così splendido e senza tempo che l’unica risposta che il fisico provato riesce a dare è lo stupore. Ed una felicità fisica ebete.

Ci sediamo all’ombra del vecchio casolare su un soffice manto d’erba. Alla nostra destra un basso muro di pietra incornicia il cancello in metallo con la croce. Ai suoi lati, pochi passi più in là, due alti cipressi fanno da guardia al portone in legno della chiesina.

Davanti a noi, dietro una staccionata bianca tirata tra la parete della chiesa e il nulla, i campi scendono lievi verso nord. Poi improvvisamente si inabissano in un profondo dirupo ed una stretta gola, oltre la quale si stende la Vall de Bas fino ad Olot.

E qui, su questo disco di terra verde che sembra galleggiare sul vuoto delle valli circostanti; qui, dove la civiltà non arriva se non come rudere e memoria, come tradizione antica e millenaria del coltivare e allevare; qui, dove tutto ciò che esiste è una casa e una chiesa, proprio qui, tra lo steccato e il nulla, dorme un piccolo cimitero. Assurdo, a pensarci. Eppure unico monumento degno del silenzio e della pace di questo luogo.

A proteggere la tomba del fondatore coi suoi cipressi gemellati, sta un alto muro con un cancello in metallo. Ai lati due prismi in pietra serena recitano muti un pensiero lapidario.

“Venite a giudizio”.

venerdì 12 novembre 2010

dia 8: olot


Finalmente appoggiamo il culo per terra e tiriamo il respiro. Come se avessimo cercato a lungo un posto degno per farlo. E questo, senza dubbio, lo è.

Certo, la fageda, l’esteso faggeto che si estende a sud-est di Olot ricoprendo le pendici dei suoi vulcani inattivi, era ricca di fascino. Verde brillante, la sua terra ricoperta di erba e muschio, l’Irlanda in trasferta. Alti e svettanti i suoi faggi, tanto fitti da nascondere completamente la luce del sole, creando un articolato tetto vegetale. Un dedalo i sentieri che vi si addentrano, senza punti di riferimento né segnali.

Ma è sul Motsacopa che il mio animo segue il fisico e decide di sedersi.

Sul lato nord-ovest del nucleo antico di Olot, a poche centinaia di metri, si trovano le pendici troncoconiche di tre dei numerosi vulcani ormai spenti che circondano la cittadina. Quello centrale, più piccolo degli altri, si alza al di sopra della Plaça Major. È il Motsacopa.

Un cammino di ronda passa sul perimetro del cratere mentre al di sotto un bacino verde rigogliosissimo costituisce il cuore del vulcano. È proprio qui, nell’erboso centro del bacino, che le nostre stanche membra si posano al tramonto. Mentre intorno si alza il vento freddo delle sere d’estate e il cielo si copre di nubi, protetti dalle fauci del vulcano guardiamo in controluce la chiesa costruita sulla bocca del cratere.

Le mani toccano l’erba, gli occhi fissano il cielo e le parole scorrazzano libere per queste terre.

martedì 2 novembre 2010

dia 7: olot



Ed eccomi finalmente solo.

Davanti a me un nastro di terra si snoda per una trentina di chilometri verso nord, distaccandosi dal letto del Ter e risalendo la Vall d’en Bas fin dentro alla regione vulcanica della Garrotxa.

E' già mattino tardi quando lascio il paese con passo spedito, fagocitando il paesaggio al silenzio ritmato dei miei passi e del respiro. Intorno il bosco si fa più fitto, si alza su pareti di roccia lasciando sotto il solco del sentiero, l'antico tracciato del treno.

I calendari dentro le case dicono che è domenica di Ferragosto e il cammino è praticamente deserto. Eppure mi sento tutt’altro che solo. Lo ero molto di più i giorni scorsi, quando eravamo in due a tracciare scie sulle cartine della Catalogna. La solitudine ed il silenzio, la natura tutt'intorno, la leggera bruma che sale ancora dalle ombre selvatiche mi fanno sentire parte di tutto questo che mi circonda.

Poi un passo emerge dall'assenza di suoni artificiali. Dietro di me le parole di qualcuno che si congeda e poi, rapidamente, si incammina nella mia direzione. Dopo qualche minuto i passi mi hanno raggiunto e allora sento: “Que buen paso llevas”. Mi volto e vedo un signore in tuta sportiva avvicinarsi amichevolmente. “Già – rispondo – bisogna che mi muova se voglio essere a Olot per sera”. “Beh, di questo passo non avrai molti problemi”.

Più di un’ora dopo, fermandomi alla chiesa di Les Planes d’Hostoles per una piccola merenda, saluto il mio amico occasionale. Seduto a cavalcioni del parapetto del nartece, con il sole in faccia, non posso fare a meno di pensare a come la solitudine in certi casi generi società più di quanto faccia un gruppo. In tutti i giorni precedenti in due non abbiamo conosciuto un solo abitante. Ora, una manciata di minuti dopo essere partito in solitaria, ecco arrivare il primo compagno di viaggio. Insperato.

La condivisione della stessa solitudine ci ha avvicinati. E la parvenza di uno stesso cammino.