martedì 30 aprile 2013

aya sofia - day 4



Aya Sofia, Santa Sofia. La chiesa dedicata alla Divina Saggezza. La chiesa distrutta e ricostruita continuamente nell'arco dei secoli. Incendi, guerre, saccheggi, profanazioni, terremoti. E risorgeva, come l'araba fenice, ogni volta. Ogni volta rinasceva più grande, più ardita, più spettacolare. Chiesa, poi moschea ed infine museo.
Come spesso succede quando l'aspettativa è troppo alta o quando si conosce troppo qualcosa prima di vederlo, l'incontro con Aya Sofia è meno meravigliante di quanto avrebbe dovuto e potuto. Troppe foto, troppe piante, troppe righe di libri affollano la mia mente; troppe persone, troppe parole, troppe impalcature ingombrano lo spazio intorno a me.
Eppure si impara anche questo viaggiando. Soprattutto se in compagnia. Le reazioni spontanee che ci contraddistinguono da quando abbiamo memoria mutano e si adeguano. Attimi di repentina insofferenza possono senza motivo sciogliersi. Ed è, questa, una liberazione. Si torna liberi di guardare con occhi diversi cose che mai ci hanno interessato, si finisce per osservare da nuove prospettive situazioni conosciute.
I medaglioni con le scritte in arabo che campeggiano immensi sui pennacchi; la grande cupola traforata alla base come se non avesse peso; il mihrab, il minbar, la qibla; i trafori nei capitelli delle colonne in pietra, le gelosie nei divisori in legno e oro; i mosaici, tante volte visti sui libri, ed ora finalmente vibranti e splendidi; i lampadari che ricordano le altre moschee della città. E, come sempre, mi fermo ad immaginare come sarebbe dovuto essere all'epoca, per chi non avesse avuto altro che i racconti a tracciarne l'immagine, la scoperta di una tale grandiosità. Di tanta altezza, luce, spazio, oro, artigianato. Quanta suggestione doveva suscitare. 

lunedì 29 aprile 2013

beyoğlu - day 3



Risaliamo verso Tunel e poi puntiamo in direzione di Taksim, percorrendo senza entusiasmo İstiklal Caddesi ed i suoi negozi moderni. Ci facciamo sfilare di fianco il tram, unico superstite di un tempo passato, e ci addentriamo per Pera. Tutta quest'area rimase inabitata per secoli tanto che il suo nome deriverebbe dalla contrazione dell'espressione "il campo di fichi sull'altra sponda" o, semplicemente, "l'altro lato", in contrapposizione alla città antica. Questo almeno finchè gli europei, ed in particolare i genovesi (che costruirono la torre di Galata) ed i veneziani, non arrivarono a stabilirvisi. La comunità italiana divenne così importante che dal Cinquecento l'area venne ribattezzata  Beyoğlu (il figlio del Signore) come omaggio al figlio dell'importante ambasciatore veneziano Lodovico Gritti.
Tra le impalcature di un cantiere vi sono alcuni ragazzi seduti a terra: chitarra, violino ed un grande cembalo. Ancora una volta la musica ci rapisce ed i gridi lanciati nell'aria dalla cantante ci ricordano quelli dei muezzin che cinque volte al giorno si sentono risuonare in tutta la città. La melodia è così piacevole che per poco noi e un'altra decina di persone non rischiamo di essere travolti dal tram.
Ci infiliamo in una delle vie traverse per cercare un locale meno internazionale e curarci con l'ennesimo tè. Appena i bicchieri vengono appoggiati sul nostro tavolino fuori si scatena un'improvvisa tempesta e scrosci inaspettati bagnano le strade.
Passato il temporale arriviamo fino alla deludente piazza Taksim e da lì proviamo a perderci per le strade che dovranno poi portarci, nuovamente, verso il ponte di Galata. Dopo aver assaggiato i baklava, gli immancabili dolci turchi ricchi di frutta secca e miele, ci addentriamo nei meandri di vie che salgono e scendono per la collina. Intravvediamo bar in stile parigino, irlandese, terrazze all'italiana. Ci fermiamo su di una scala che scende a picco e apre uno squarcio tra gli edifici fino a mostrarci il faro, dall'altra parte del Bosforo.
Vagando veniamo catturati da una serie di negozi di antiquariato, stanze di rigattieri, botteghe di oggetti vintage. E così finiamo per sederci in un locale dalle pareti in mattoni a vista e l'atmosfera ambrata. La cameriera, di evidenti origini francesi, ci porta i nostri tè ed io mi preoccupo di perdere con dignità a scacchi.

domenica 28 aprile 2013

luppolo di mare - day 3



Percorriamo nuovamente il mercato del pesce sfilando tra le bancarelle e la banchina di attracco del traghetto. Begli esemplari di cui io misconosco i nomi guizzano dentro a grandi tinozze azzurre colme d'acqua. Oltrepassato una sorta di varco ci troviamo in una zona sterrata colonizzata dai tavolini dei vari locali che si affacciano su questa parte del Corno d'Oro. Baretti e chioschi con la pretesa d'esser ristoranti. È ancora presto ed i tavoli sono tutti vuoti. Ci sediamo ed ordiniamo due orate. Memore della scorsa volta lasci perdere l'ayran e bissiamo con una coppia di birre. A pochi passi da noi un uomo, che gli stenti hanno privato di un'età riconoscibile, armeggia su di un carretto. Protetto da uno spartano berretto da baseball, propone verdura e frutta fresca, spremute di arance e melograni. Poco oltre, a pochi passi dall'acqua, una coppia, probabilmente britannica, non sa decidersi su cosa ordinare. Dopo qualche minuto al nostro fianco si vengono a sedere due coppie di anziani tedeschi in villeggiatura. Tipico abbigliamento, tipiche espressioni, tipica giovialità vacanziera. E l'immancabile pinta tra le mani.
Nel sole di questo strano pranzo di pasqua osservo il liquido chiaro come il miele e le bollicine risalire lente alla superficie per respirare. Penso alle parole che Michi mi ha voluto scrivere usando lo scritto di Russell. E non posso fare a meno di constatare che i crucchi (i miei crucchi, almeno) siano maestri in questo, nell'arte pura dell'oziare, concepito nel suo senso più elevato e ormai, per noi, smarrito. Contemplo la birra (novello Amleto del luppolo) e non mi resta che ammettere che qualcosa, in fondo, ho imparato dalla convivenza con loro. E non solo ad apprezzare il gusto di una Pilsen nel sole pallido di una primavera che non vuole arrivare.

la rotta del caffè



Lei non ha posto obiezioni. Sapeva, aveva sempre saputo che il viaggiatore del mondo non può fermarsi, c'è sempre un altro luogo da vedere prima di chiudere gli occhi, un posto sconosciuto dove essere sepolti. Che il vecchio Ismail se ne andasse per la rotta del caffè, era scritto nel suo destino.

Altai - Wu Ming

sinan - day 3



Certo, non c'era paragone con il progetto che aveva previsto per la moschea Selimiye a Edirne. Impianto centrale, pianta ottagonale coperta da una cupola contraffortata da otto semicupole, un apparato decorativo di una grazia e ricchezza mai viste. Il mihrab splendente di luce naturale. Il tutto circondato da ospedale, madrassa, biblioteca, hammam, negozi.
Sarebbe stata il suo orgoglio, il suo capolavoro.
Eppure Sinan guardò la Suleymaniyyè, la moschea imperiale che aveva terminato da qualche anno, e non ebbe dubbi. Istanbul era Istanbul, e non una qualsiasi città della periferia dell'Impero. Non che gli fosse riuscita male, intendiamoci. Solimano non l'avrebbe mai permesso. La moschea intitolata al figlio deceduto prematuramente doveva essere maestosa ed affascinante. Il modello che aveva scelto, poi, era di tutto rispetto. Lo schema planimetrico era sostanzialmente il medesimo di Aya Sofia, la grande chiesa che Giustiniano aveva fatto costruire a suo tempo,  e che tanto stupore ancora destava. Giardini curati in ogni dettaglio davano accesso al cortile dove si trovava la fontana per le abluzioni. Sul lato opposto un cimitero si estendeva approssimativamente della stessa dimensione del cortile. All'interno della moschea un apparato decorativo prezioso ma semplice sottolineava quasi unicamente la presenza della grande cupola. Il mihrab era rivestito di maioliche di Ïznik e circondato di vetrate policrome.
Seduto qui, ad un passo dalla sua opera, la guardò con attenzione, come chi valutasse il futuro. Ed infine si decise. "Il Grande Architetto", come lo chiamavano ormai, sarebbe stato sepolto dentro la sua più grande opera, nella capitale dell'Impero, dentro la Suleymaniyyè.
Volse lo sguardo altrove. Sopra le cupole delle madrasse, oltre i tetti delle case di Fatih, seminascosta da volute di fumo che salivano nel cielo plumbeo (o forse era la sua vista?), stava la moschea di Fatih con i suoi minareti a puntare verso l'alto. Ferita dal terremoto di qualche anno prima, eppure ancora lì, solida, a resistere al tempo che passava.
Si guardò le mani. Le pieghe incartapecorivano i suoi palmi di ottantenne, un leggero tremolio le scuoteva. Chi l'avrebbe mai detto, Sinan, si disse. Un albanese come te, un cristiano ortodosso albanese come te. Niente di tutto questo sarebbe stato creato se l'Impero non ti avesse prelevato, imberbe, e reclutato,  addestrato per essere spedito alla guerra. E ogni volta tornavi. E ogni volta che tornavi scalavi un gradino della gerarchia militare, sù, fino a diventare ufficiale. Non c'era altro modo, d'altronde, per conoscere il mondo. Non c'era un'altra via per vedere le grandezze costruite dall'uomo e diventare così mastro, costruttore, architetto. Di più. L'architetto del sultano. Con queste mani e questo ingegno hai plasmato le più importanti opere degli ultimi trent'anni. Hai creato qualcosa di immortale, di una bellezza imperitura.
Sospirò, alzandosi lentamente dal prato, le giunture che cigolavano.
Cara, disse rivolgendosi mentalmente alla sua opera, staremo insieme per l'eternità.

sabato 27 aprile 2013

cisterna della basilica - day 3



Infiliamo la scala e cominciamo a scendere. L'aria si fa umida e fresca, qualche goccia comincia a cadere dai soffitti sulle nostre teste. Arrivati in fondo ci si para innanzi una foresta di oltre trecento colonne alte nove metri, illuminate scenograficamente dal basso. Fusti e capitelli sono di varia provenienza, riciclati come si usava fare all'epoca. La Cisterna della Basilica, infatti, fu costruita nel VI secolo e raccoglieva le acque di uno dei più lunghi acquedotti dell'era romana. Passeggiamo tra le colonne come in una sorta di bosco di pietra, sentendoci per un attimo creature di un mondo fantastico. Sotto i nastri delle passerelle l'acqua è perfettamente trasparente e si vedono i numerosi e corpulenti pesci nuotare tranquilli. Verso il fondo dell'ampio salone vi sono due colonne alquanto singolari. Il basamento è costituito da giganteschi dadi sui quali è incisa a bassorilievo la testa della Medusa. Alquanto curioso, considerato che si trovavano in uno spazio ipogeo, privo di illuminazione ed al di sotto del livello dell'acqua.

la città che non dorme - day 2



Il ritorno è rigorosamente a piedi. Riscendiamo fino al ponte superando il mercato del pesce, ormai chiuso e passando tra gli immancabili venditori ambulanti di carne alla griglia, pesce, riso, dolci. Mentre osservo i gruppi di uomini che stanno pescando dal parapetto mi domando se siano tutti affetti da qualche strana forma di insonnia, da disagi familiari o se semplicemente provino reale piacere a pescare a quest'ora. Sotto il ponte i locali notturni (una batteria di pub e piccole discoteche di vario genere) sono affollati di gente. Sul cammino per tornare nella città vecchia incontriamo persone occupate nelle più assurde offerte commerciali, soprattutto considerata l'ora. Un signore dai capelli corti, quasi completamente bianchi, sta appoggiato con le spalle al parapetto del ponte offrendo la sua bilancia da casa a chi volesse pesarsi. Un uomo seduto sulle scale del sottopassaggio guarda il nulla sperando che qualcuno acquisti uno dei suoi topi di plastica. Scampoli di tessuto sono appesi a delle grucce lungo la banchina, mentre paia di scarpe sportive stanno esposte su pile di scatole, poco lontano.
Il bazar delle spezie riposa nella penombra delle luci artificiali. Percorriamo strade illuminate e vuote, risalendo verso Sultanahmet.
La fame comincia a farsi sentire e poco dopo mezzanotte ci fermiamo a cenare in uno dei tavoli all'aperto di un ristorantino. Sento distintamente di fianco a noi tre ragazze civettare con uno degli inservienti dell'hotel dove evidentemente risiedono. Un gruppo di persone di lingua tedesca danno spettacolo offrendo da bere shots ai camerieri.
Risaliamo la collina costeggiando il parco Gulhane e le mura del palazzo Topkapi. La città vecchia è vuota e silenziosa. Prima di imboccare la strada che ridiscende la collina per riportarci all'hotel passiamo nel cuore di Istanbul. In quello che era il fulcro della meraviglia religiosa di un tempo e la congestione dei flussi turistici odierni. Alle due estremità del parco Sultanahmet, con le sue siepi e le sue fontane, si trovano infatti Aya Sofia e la Moschea Blu. Viste a quest'ora, spogliate della confusione della città e del perenne mercato che circonda i visitatori, appaiono come degli immensi gioielli che trafiggono la notte con i loro minareti.
Al rientro in albergo per fortuna ci è stata cambiata la stanza. Questa notte si dorme nel sottotetto mansardato. E, gran lusso, acqua calda per la doccia.

venerdì 26 aprile 2013

galata - day 2



Risaliamo una lunga scalinata che si addentra per il pendio. Incontriamo gruppi di giovani e turisti che si muovono nella notte. Poi infiliamo una stradina ricca di locali e negozi. Un bar al primo piano, aperto sulla strada, propone con una grafica accogliente dolci tipici; una vetrina d'artigianato espone orecchini ed anelli d'argento; un negozio poco distante esibisce filati e souvenir. La strada fa una curva secca e ci appare, improvvisa, la torre di Galata. Illuminata nella notte, spunta tra i tetti degli edifici quasi fosse di fuoco a ricordare l'antica funzione di avvistamento degli incendi.
Ai suoi piedi si trova la terrazza di un bar, riparata da una pergola e affacciata sul panorama. Mentre indugiamo sul da farsi veniamo attirati da una voce che si muove nell'aria. Un gruppo di giovani turchi è seduto a un lato della piazzetta ed intorno si è creato un semicerchio di persone rapite dal momento. Un cajon de flamenco ed un violino accompagnano l'anima del gruppo che suona una chitarra classica e canta. Ci sediamo anche noi a godere di questa melodia sorridente e malinconica. La sera e tiepida e la fretta non abita più in noi.
La via che risale la collina fino a piazza Tunel, nel cuore di Beyoglu, è illuminata dai piccoli negozietti che vi si affacciano. Bar, negozi di vestiti, souvenir, strumenti musicali, bigiotteria. Intorno a noi turisti e turchi si mischiano senza sosta diretti in chissà quale locale. Un Staffordshire Bull Terrier con collare di borchie e Rayban gialli specchiati scende con stile incredibile verso la torre.
Poi una delle solite folgorazioni. Una scala che scompare nel solaio di un microscopico bar stile Starbucks, ricompare al piano di sopra, per scomparire di nuovo. Ci guardiamo ed entriamo. Sono le dieci di sera, nel locale non c'è nessuno a parte una giovane barista. Saliamo fino al terzo piano e, da lì, una ripida scala in metallo ci porta sulla copertura. Una decina di tavolini abitano la piccola terrazza quadrata che si erge sopra gli altri edifici. La notte è limpida, gli aerei tracciano scie di luce nel cielo.
E mentre sorseggiamo il nostro tè non posso fare a meno di constatare, ancora una volta, come l'amore per la periferia, per l'imperfetto, per il degradato siano fortemente radicati in me. Guardo i balconi delle vie traverse, ingombri di incuria e residui di vita come in tutte le altre parti del mondo, gli angoli meno illuminati delle strade, i tetti sotto di noi, le cucine attraverso le finestre aperte. Guardo tutto questo e mi vengono in mente le parole di Junichiro Tanizaki ed il culto che il Giappone ha sempre nutrito per i segni che la vita lascia sugli oggetti, il rispetto reverenziale per il tempo che passa. Una forma di rispetto e di affetto che l'Occidente, in genere, non conosce.

il pesce e la notte - day 2



Sul ponte di Galata, che collega le due parti europee della città, si trovano i pescatori. Su entrambi i lati, a qualsiasi ora del giorno e della notte, puoi vedere canne da pesca lanciare ami nell'aria e poi aspettare. A quanto pare anche questo è in vendita. Per qualche lira si può godere del piacere di pescare nel Corno d'Oro affittando tutto l'occorrente direttamente qui, sul ponte. E poi, chissà, se non si prende nulla forse si può comprare anche qualche orata già pescata.
Non appena il ponte torna terra, sulla sinistra si trova il mercato del pesce, a due passi dal Corno d'Oro. Anche ora, che è quasi notte, i banchi sono aperti, le lampadine a ridisegnarne le mercanzie, costantemente annaffiate per mantenerle fresche, l'acqua che tracima, corre trai piedi dei clienti e si ricongiunge al mare. Gli ultimi ritardatari aspettano alla fermata del traghetto, manciate di turisti scattano foto al fascino dell'acqua nella notte, all'incanto antico del mercato del pesce.
Due bambine, poco più di una decina d'anni, se ne vanno in giro da sole in un posto del genere a quest'ora assurda della sera. Salutano e vengono salutate con calore dai banchi del mercato. C'è chi dà loro da dire e le risposte fanno sgorgare l'ilarità generale. A passo svelto dinnanzi a noi le bimbe cominciano a cantare e tamburellare su di un vecchio cembalo melodie orientaleggianti. Oltrepassato l'ultimo banco ci ritroviamo in una zona occupata da una distesa di tavolini di bar. Alla fioca luce di qualche lampada appesa qua e là diverse persone si stanno godendo il loro momento di ristoro nella fresca aria della sera. Le due bambine si avvicinano ai tavoli e cominciano a cantare per i commensali, passando da una coppia all'altra. Avvolti dalla nenia e dallo sciabordìo delle acque osserviamo l'altra riva, dove campeggiano imponenti le masse delle moschee, illuminate nella notte, e le loro gemelle nelle acque scure del Corno.

giovedì 25 aprile 2013

diciotto ore - day 2



- Italiani? - dice una voce qualche passo dietro di noi.
- Sì - rispondiamo con un certo sollievo, visto che è il primo che non ci confonde con gli ispanici.
- Da che città venite?
- Bologna. E dintorni.
- Sono stato a Bologna. Piazza Maggiore, le due torri.
Io cerco di minimizzare per andarmene, ma puntuale come diceva la guida arriva l'offerta.
- Venite dentro, che vi offro un tè.
Mentre cerco nel catalogo delle banalità diplomatiche un modo per divincolarci, tu infili la porta.
Il negozio è uno stanzone con tre grandi vetrate che danno su di una strada laterale, tra Taya Hatun e la ferrovia. Ci accomodiamo su due sedie in legno, di bella fattura, seduta e schienale di cuoio. Lui è un uomo sulla cinquantina abbondante, i capelli grigi, la barba ben rasata. Gli occhiali senza montatura lasciano trasparire uno sguardo malinconico, occhiaie stantie di preoccupazioni. Prende posto a tre metri da noi e spedisce la ragazza del negozio a procurarsi del tè.
Ci chiede dell'Italia. Di com'è vivere là ora, se è cambiata, com'è la situazione dopo Berlusconi. Spieghiamo i problemi della crisi, ore infinite di lavoro e pagamenti a singhiozzo, incerti e magri. Dice che anche lui ha vissuto per un certo periodo nel nostro Paese, ha studiato a Perugia qualche mese. Era giovane, neanche ventenne, e ha dormito un po' ovunque, alberghi, ospite in casa della gente, per strada, nelle stazioni, nei parchi. Ha girato in autostop e così ha imparato la lingua. Gli domandiamo com'è vivere in Turchia, vivere a Istanbul. Fa una pausa lunga. Bisogna lavorare tanto, ci rivela. C'è chi non fa niente, ma è perchè non vuole. Per chi vuole lavorare ci sono interminabili ore da affrontare per potersi pagare la vita. Lui, Ahmet, ha due figli ed ora dovranno andare all'università, a casa ha una moglie che ha problemi di testa, prende le medicine, forse è depressa. Ci rivela che lavora 18 ore al giorno (!!) e che dorme in negozio. Dice tutto questo come se stesse parlando di un fatto da nulla, senza rilievo. Gli occhi ci guardano senza cambiare espressione, senza accenti nelle parole, senza entusiasmo.
Infine arriva l'offerta. Se vogliamo prendere qualcosa, comprare qualche souvenir, ci farà un buon prezzo.
Lasciamo il negozio senza aver acquistato nulla, a parte uno strano senso di tristezza.

bosforo - day 2



Camminiamo lungo la riva, tempestati di offerte di cibo, tour, oggetti, guide. Decidiamo infine di prendere una barca per esplorare lo stretto. Appena accettiamo l'offerta il ragazzo ci chiede i soldi anticipati e ci dice di infilarci velocemente su di un pulmino fermo in sosta vietata. Niente biglietto, niente che dimostri che abbiamo pagato. Dopo qualche minuto il nove posti si riempie e comincia a scendere verso l'area di attracco. Sempre senza alcun tipo di controllo veniamo fatti montare, con un'improvvisata scaletta in legno, su di un barcone che ondeggia vistosamente. Quando il pulmino arriva per la seconda volta, carico di turisti, finalmente partiamo. Passiamo al di sotto del ponte di Galata, coi suoi locali, i suoi ambulanti e le sue canne da pesca, lasciamo il Corno d'Oro e ci dirigiamo verso il Bosforo. Costeggiamo la riva europea di Istanbul, con i suoi palazzi in legno abbandonati, dirigendoci verso nord, verso il Mar Nero, allontanandoci dalla città antica. Alle degradate ville a ridosso dell'acqua si sostituiscono edifici moderni, piccoli grattacieli, facciate moderne, vetro e acciaio, alternati ad attimi di pineta fitta. L'acqua tra le due rive è calma, mossa soltanto dal passaggio di altre imbarcazioni come la nostra. Sul ponte il comandante ci porta l'immancabile tè turco in bicchierini di vetro con decorazioni dorate. Un paio di zollette a testa. L'aria pungente del Bosforo si infila dentro la maglia, tra le orecchie, nella testa e ci ripulisce dalla confusione di una città dove tutto è in vendita, dove tutti sono indaffarati a mercanteggiare.
Di fianco a noi un gruppo di turisti fanno gli "italiani" gridando, gesticolando esageratamente, facendosi foto idiote. Una signora presumibilmente russa sfida in mezze maniche il freddo incipiente mettendosi in posa per essere immortalata dal suo compagno. Un paio di bambini si rifugiano sotto coperta.
Il sole si nasconde dietro le nubi e scende dietro le colline all'orizzonte. L'acqua diventa un liquido scuro, denso, le sponde silhouette trapuntate di piccole luci. L'imbarcazione fa un'inversione e ci porta sulla via del ritorno costeggiando la riva asiatica. La vegetazione continua con le sue incursioni, qualche villa in legno decrepita in stile europeo ci saluta di lontano. Ci avviciniamo lentamente ad un piccolo molo ed un ragazzo scende al volo dalla prua.
Passiamo sotto al ponte strallato che si staglia contro il cielo, disegnato da tante piccole luci che cambiano colore. Ci avviciniamo a Beyoglu e Fatih dove le moschee emergono dalla massa indistinta della città vecchia come gemme preziose.
Appena prima di attraccare il volume della musica sull'imbarcazione si alza improvvisamente e spara nell'aria un'inconfondibile Gnam gnam style, inno inconfondibile del "tutto il mondo è paese".

martedì 23 aprile 2013

topkapi - day 2



Il palazzo è un misto di architettura araba ed europea. Gelosie, paraventi ed harem si uniscono ad elementi di gusto talvolta roccocò. Padiglioni, di stili e funzioni differenti, sono sparsi in tutta l'area del palazzo Topkapi, circondati da prati di tulipani in fiore.
Qui si decidevano le sorti della città. Qui, protetti dal suono di fontane e giochi d'acqua, si tramava contro il sultano. Le alternative erano poche: essere il futuro regnante o venire ucciso nella lotta per il potere. Solo gli eunuchi sopravvivevano indenni a questo conflitto interno primordiale.

Fuori dal palazzo c'è un ragazzo dalla pelle bruciata dal sole, una barba riccia incolta. Ha magnifici melograni sul suo carretto, chicchi giganteschi che scoppiano di sapore. Taglia a metà i frutti e poi li appoggia su di un macchinino metallico simile ad un macinino da caffè. Preme ed il succo viene raccolto in una caraffa di plastica. La giornata è calda e soleggiata, il succo rinfrescante con un retrogusto lievemente aspro. 

lunedì 22 aprile 2013

bazar - day 1



Il bazar è un dedalo. Una griglia di gallerie nella quale è impossibile orientarsi. Una spugna pregna di gente e merci. Ogni volta che ci si avvicina ad un negozio si viene abbordati dalla lingua che più verosimilmente corrisponde ai nostri caratteri somatici, nell'intento di venderci qualcosa. Pelle, tessuti, ceramiche, spezie, frutta secca, dolci, souvenir, gioielli. Tutto quanto un turista può pensare sia tipico qui trova il suo mercato.
Alla fine, non immuni al fascino assurdo di questo posto, ci lasciamo abbindolare anche noi, dimostrando la nostra pessima capacità di contrattazione.

lost




Bologna, Milano, Monteal, Tokio, Buenos Aires, Grenada.
Un treno che parte, uno che arriva, uno da cui non scendere, uno per fuggire; un aereo in attesa, una nave pronta a salpare. Una notte a finestre aperte, un risveglio tra edifici liberty. Anni lungo il lago, giorni alla finestra. Una terrazza a sorvegliare la città, un tramonto di fuoco.
Tutto si confonde in questa notte senza sonno. 

domenica 21 aprile 2013

dolmades - day 1



Saliamo una ripida scala in legno e ci sediamo al tavolo vicino alla finestra. Il pavimento, coperto qua e là di bei tappeti, è in legno lucidato color miele, come pure il perlinato alle pareti, intagliato a creare arabeschi sulle porte, ed il soffitto, le cui travi sono decorate da motivi floreali. Tulipani nel pieno del loro splendore campeggiano su ogni finestra. Le eleganti sedie in legno e pelle, i tavoli con incisioni sporadiche e raffinate completano il quadro. Al di fuori, una grande terrazza al piano terra incorniciata da alberi in fiore accoglie altri avventori. Di fronte qualche casa in legno scrostato dal tempo, tappeti a prendere aria. La sede della polizia locale in un isolato edificio in legno che sembra arrivare direttamente da qualche spiaggia statunitense. E poi l'arrosto, i dolmades, involtini di foglie di vite e agnello, il purè di melanzane affumicate, il tuo ayran. Ed un senso di pace, di sano ozio che sembra uscito da qualche libro.

venerdì 19 aprile 2013

blu - day 1



Il pavimento è soffice, ricoperto da una moquette a motivi floreali. Al di sopra uno spettacolo di blu e luce. Oltre ventunmila piastrelle in ceramica turchese incorniciano archi, cupole e le duecentosessanta finestre. L'immenso, maestoso e semplice lampadario cala dalla cupola fino a rasentare le teste dei fedeli. Un acre aroma di piedi di turisti (che ovviamente non indugiano in abluzioni purificatrici prima di entrare in questi luoghi) si spande e ci segue.
Anzi.
Forse sono proprio io.

acqua - day 1



Siamo in fila lungo la parete esterna della moschea, il sole a picchiare sulle nostre teste. I giapponesi riparano la pelle pallida con cappelli e sciarpe, capannelli di italiani sfilano sfoggiando stile e cliché internazionali.
Mentre ci muoviamo all'unisono, ebeti componenti del corpo invertebrato della fila, ecco che qualcosa mi attrae.
Protetti dalla stretta e lunga loggia uomini e bambini cominciano a radunarsi di fronte alle piccole fonti, a sedersi sugli scranni di pietra e legno. Arrotolano i pantaloni, le maniche delle camicie fino al gomito. E cominciano a lavarsi mani e piedi, purificando il corpo dopo il momento di preghiera collettivo. A fianco dei più vecchi, con le loro barbe antiche, stanno le nuove generazioni. Antiche calzature e Nike ultimo modello, il rito dell'acqua e la prosaica presenza di dispenser in plastica per il sapone.

martedì 16 aprile 2013

cimolais



Il mare è piatto, liscio con scaglie di cobalto. La spiaggia, impolverata di incuria umana, si infila stretta tra l'acqua e la pineta. E proprio sul confine stanno alcune curiose proto-costruzioni. Un intrico di rami e legname, di cannicciati e pallet, raccolti a cerchio. Alcove appollaiate di fronte al mare, nidi costruiti da uccelli giganteschi, verrebbe da dire. E mentre il sole infiamma le creste dei pini all'orizzonte e le zanzare si risvegliano per l'aperitivo crepuscolare, l'immagine di primitivi esseri umani che si raccolgono intorno al fuoco si fonde con quella dei nudisti di Caorle.

Scrocchia, la neve, sotto i piedi. Crepita e cede la piccola patina di ghiaccio alimentando il fiume delle nostre parole. La malga, ancora addormentata nel primo sole primaverile. Le montagne, alte e vestite di bianco, a denudarsi poco alla volta. La birra che scintilla d'oro nel sole basso, e mi ricorda gli insegnamenti dei crucchi ed il loro saper oziare.

E poi il treno in ritardo, l'ultima coincidenza persa, la prospettiva di quattro ore di notte ad aspettare un convoglio che a Mestre non vuole arrivare. "Ciao. Sei in città per caso?" e via, verso una casa quasi sconosciuta, che onestamente non avrei più pensato di vedere, e la compagnia fortuita a riempire le ore della notte. Il treno dei disperati, stipati in un corridoio, il vagone che sa di fiato e di pelle, la polizia ferroviaria a seminare tensione. Un filo che scorre nella notte, la percezione appannata delle ore che si susseguono cullate dai binari. Ore di ritardo, noi fermi ad un passo dalla meta.
E, finalmente, casa. 

mercoledì 10 aprile 2013

indo hotel - day 1



Ci addentriamo per vicoli stretti seguendo il guardiano dell'hotel, che a quanto pare ha dormito vestito sul divano tutta la notte. La sua faccia da neorealismo italiano anni Venti ci interroga provando ad instaurare un dialogo. Sfiliamo di fianco a case in legno scorticate, abbandonate da tempo diresti, almeno finchè non fai caso alle tende stirate, alle persone che ci entrano, ai fiori sui balconi. Edifici che richiamano un passato europeo più che asiatico. Uno di questi è collassato su se stesso, le pareti a coprire le proprie rovine. Eppure è rimasto lì dov'era, nulla è stato spostato, ed ora è una rovina a cielo aperto, un parco giochi per animali randagi. Lo aggiriamo e ci infiliamo in un lotto sterrato tra alcune case in pessimo stato ed il retro di una moschea.
Il bancone del check-in dell'albergo, come volevasi dimostrare, è effettivamente lo stesso utilizzato dal bar. La signora ci guarda con occhi vuoti e recita il suo mantra di parole inglesi che descrivono la nostra colazione. Versiamo il tè turco nei piccoli bicchierini di vetro, un paio di zollette a testa. Del pane, qualche marmellata, cioccolata spalmabile. Un paio di uova sode, olive marinate. Io salato e tu, ovviamente, dolce.
Il tavolo è appoggiato ad una grande vetrata, su una strada che va a morire nel Mar di Marmara. In silenzio guardiamo fuori e ci lasciamo riempire gli occhi da questo mondo nuovo. Nel sole tiepido un uomo, parcheggiato ad un incrocio, pulisce la sua macchina con uno straccio, senza fretta. I finestrini, il lunotto, la carrozzeria. A quanto pare è un impegno così importante che un altro gli viene in soccorso, sempre senza fretta. Dall'altra parte della strada due signori stanno cambiando la gomma posteriore di un furgone. Parcheggiati a lato della strada, pericolosamente in salita, aggeggiano con crick e chiavi inglesi. La baracca del gommista è stretta tra due edifici, un muro grezzo con un buco per ingresso, un tetto in lamiera metallica a coprire il tutto.
I muezzin lanciano i loro canti nell'aria e noi ci addentriamo nei meandri della città vecchia.

martedì 9 aprile 2013

sultanahmet - day 0



Chiudo la porta scorrevole e partiamo. L'autista ha i capelli arruffati, leggermente brizzolati. Ha l'aria di chi non dorme tanto. Gli consegno un foglio su cui è scritto un indirizzo impronunciabile, sperando di evitare così incomprensioni. Lui comincia a leggerlo mentre si immette nella tangenziale cittadina, incurante degli altri taxi che ci sorpassano a destra e sinistra. Dopo un attimo di smarrimento prende il cellulare e comincia a chiamare. Suppongo sia il suo modo di avere un navigatore.
La strada che ci separa dal centro antico corre a quattro corsie tra gli edifici dell'estrema periferia ed un'ampia fascia verde che ci separa dalla costa. Qualche salotto, illuminato nella notte da grandi lampadari, si mostra nudo nella notte.
L'autista fa del suo meglio per guidare al peggio, sbandando, zigzagando tra le corsie, attirandosi il clacson di chi ci segue. Si fuma qualche semaforo rosso, quasi imbocca l'uscita sbagliata e a stento evita un bus che ci stava per attraversare la strada. Da allora penso di avere ancora le tue unghie piantate nella mia mano. Non mi stupisco che il lunotto anteriore sia decorato da due rose di schegge, due fori che si espandono circolarmente nel vetro temperato.
Il cartello recita Sultanahmet. Le strade si fanno piccole, si inerpicano per la collina. Il nostro autista si perde, fa inversione un paio di volte mentre è al telefono. Poi parcheggia in doppia fila e ci fa scendere. Un ragazzo ci viene incontro e ci chiede se stiamo cercando l'Indo Hotel. Entriamo in una reception che è il bancone di un bar, al primo piano. Dopo un rapido check-in veniamo affidati alle cure di un signore dal vestito a giacca che ci accompagna in macchina fino ad un altro edificio. Circondato da fatiscenti case in legno, dalle imposte segnate dall'incuria e le pareti scrostate dagli anni, sta il nostro "hotel". L'ingresso è un corridoio e a stento passiamo tra divano e parete. Appena prima delle scale, sulla destra, si trova la nostra camera: sarà tre metri per due, con il letto stretto tra le pareti e le finestre che affacciano sul marciapiede. Una finestra apre sul corridoio interno, una stufetta elettrica appoggiata su un microscopico tavolino è accesa per tentare di stemperare il freddo. Nel bagno non c'è acqua calda. Noncuranti ci sistemiamo e ci addormentiamo. La notte è segnata dal rumore di qualche macchina che sfreccia rombando a mezzo metro dalle nostre teste, dall'inquietante presenza del guardiano di notte, che dorme vestito sul divano, dall'altra parte della parete in cartongesso, un metro lontano dai nostri piedi.
E nel dormiveglia del primo mattino si insinua, come un profumo, il canto dei muezzin, che dagli altoparlanti chiamano i fedeli alla preghiera.
È questa l'accoglienza che volevo. Benvenuti a Istanbul.