mercoledì 30 settembre 2009

l'albero della saggezza - dia 10

La campana suona che è ancora notte. I corpi degli altri pellegrini si alzano (per quello che si riesce con 1 metro e 20 di altezza), fanno lo zaino ed escono. Raggiungo Will, Sasha e la loro amica che mi aspettano. Si dirigono verso il crinale e da lì guardiamo giù. La tempesta di ieri sera ha lasciato spazio ad un alba di nuvole basse sull’orizzonte.
Saluto gli altri ragazzi e comincio la discesa in solitario.

Ormai è giorno fatto quando vedo in lontananza Molinaseca. Mentre zampetto per raggiungere il primo villaggio della giornata degno di questo nome vengo trattenuto da una voce.
-Non ti fa male la caviglia?
Se non mi avesse parlato non l’avrei neppure notato tanta era la foga e l’entusiasmo con cui scendevo. Un anziano signore sta seduto sotto l’unico arbusto abbastanza grande da fargli ombra che si trova lungo il sentiero, qualche centinaio di metri più in su del paese. Sembra assurdamente un quadro bucolico del mondo antico. Quasi mi aspetto che mi parli in latino.
Mi giro e gli rispondo di no, casomai il ginocchio che è malandato, ma per oggi si sta comportando bene, grazie.
Sto ancora scendendo, pensando di aver chiuso la conversazione con questa frase educata e sono pronto a salutarlo. Ma evidentemente il vecchio ha lanciato solo un amo ed io ho abboccato.
Sicuro che non ti fa male? Guarda che poi dopo quando inizia a farti male il dolore non ti lascia più … eh, ne ho visti tanti passare di qui doloranti e io … Molta gente passa di qua correndo e non si rende conto che non è questo il cammino. Tanti non sanno neppure cosa abbiano intorno, dove stiano passando, non se lo godono!
Preso. Ha tirato la lenza e mi ha preso. Ormai sono immobile, in piedi davanti al paesano, con lo zaino in spalla e le gambe che scalpitano per scendere. Ma resto fermo. Gli altri pellegrini mi passano di fianco salutando.
Il vecchio mi chiede di sedermi e allora mi vengono in mente le parole di Sasha di ieri, mentre sotto la grande quercia mi offriva il pranzo: il Cammino non è una gara. Non c’è un premio per chi arriva primo. Il senso del Cammino è camminare. È godere del cammino mentre lo stai facendo, non è la meta. È tutto quello che c’è in mezzo tra la partenza e l’arrivo.
Mi lascio convincere dalle parole di questi due sconosciuti e decido che forse vale la pena sostare un attimo, tirare il fiato ed entrare dentro l’anima di un uomo di questa terra. Mi siedo su un tronco e mi metto ad ascoltare quelle parole il cui accento tradisce la vicinanza della Galizia, quasi fosse un aroma che non puoi non respirare.
L’uomo è sempre stato un pastore. Si alzava al mattino, pascolava le sue mandrie e poi tornava a casa. Un tempo quelle terre erano ricche di campi di cereali e di foraggio per il bestiame. Poi arrivò Franco e rese loro la vita impossibile. Così quei paesini cominciarono ad essere abbandonati fino a diventare come ora era Manjarìn.
Gli racconto che viaggio con altri amici, ma che il Cammino mi piace farlo in solitaria, assecondando quelli che sono i tempi che il mio fisico e il paesaggio mi dettano. Lui mi guarda ed è contento. Gioca con il bastone a tracciare linee nella polvere del sentiero.
Fai bene, mi dice. Sei libero. Non sarai mai così libero in tutta la tua vita. Guarda me, sono single, i miei figli sono lontani ormai e io sono felicissimo. Basta poco nella vita. Un lavoro onesto, un orto per coltivare le patate e qualche gallina. Quando hai fame puoi sempre farti una tortilla e comprare una frusta di pane. Qui invece la gente è impazzita. È scappata dai villaggi per fare i soldi, è andata a Madrid a cercare fortuna, e ora che è ricca ritorna qui per costruirsi la casa delle vacanze.
Io ho sempre vissuto qui. Ora sono in pensione, mi alzo la mattina, mi metto sotto l’albero e chiacchiero coi pellegrini. Non devo girare il mondo, è il mondo che passa di qui. Poi quando torno a casa ho i miei animali che mi fanno compagnia. Dammi retta. Non avere fretta a sposarti. Non avere fretta.
Sono allibito. Mi sarei aspettato un discorso del genere da un mio coetaneo, ma non da un anziano abitante di un paesino sperduto nel nulla leonese. La serenità con cui le parole fuoriescono da questo omino grinzoso è incredibile. Non so cosa ribattere se non annuire stupidamente come un nipote di fronte a suo nonno.

il mondo in una stanza


Gli stavo dando corda giusto perché stavo aspettando, e in questi anni l’attesa è diventata una compagna ingombrante con cui ho imparato a ballare. La sala d’attesa era vuota e l’anziano signore non aveva voglia di conservare il silenzio nelle sue orecchie; o non voleva pensare a sua moglie in sala radiologia; oppure semplicemente aveva bisogno di scaricare un po’ di tensione. In ogni caso cominciò a parlare, come sempre succede, del più e del meno. È meraviglioso come i “luoghi comuni” vengano nutriti e cresciuti nei luoghi più comuni, luoghi di sosta che normalmente prendono la forma ideale di sale d’attesa. Dal medico all’ascensore, dalla fermata del tram al terminal aeroportuale. Mi ero già preparato al soffice assalto delle inezie che mi venivano riversate addosso con quella predisposizione d’animo che mi ricorda tanto il cellophane: pronto a farmi scorrere addosso qualsiasi cosa, rispondendo cortesia a banalità, senza lasciarmi infastidire.
Erano già diversi minuti che il discorso scorreva liscio, senza increspature, quando all’improvviso il vecchino esce dal seminato, cambia ritmo alla mia danza personale e inciampo, fende il mio cellophane. Senza neppure rendersene conto mi zittisce con una sola frase e poi prosegue con nonchalance, non accorgendosi che lo strappo ormai è fatto e che si allargherà sempre di più. Un sasso in uno specchio.

Ero in oncologia e un ragazzo mi dice: ho girato tutto il mondo e ora guarda, il mondo si è fermato in questa stanza …”

domenica 27 settembre 2009

manjarìn - dia 9


Ci lasciamo il crinale della montagna sulla destra e poco sotto, a qualche curva di distanza, vediamo il piccolo villaggio di Manjarìn. Dietro di noi il cielo continua a brontolare sempre più forte e i fulmini che cadono nella valle sono ormai vicini, l’aria carica di umidità elettrica. Oltrepassiamo la prima casa e ci rendiamo conto che quello che ci sembrava un villaggio ha smesso di esserlo da almeno una dozzina d’anni. I muri di pietra sono ricoperti di vegetazione, i tetti sfondati dagli alberi e non ci sono finestre nei fori ciechi delle pareti. La strada è l’unica spina dorsale su cui si trovano la decina di ex-case, che la natura ha rincorporato trasformandole nuovamente in paesaggio.
Dove la strada fa una curva per scendere nuovamente verso valle un cartello colorato attrae la nostra attenzione e ci infiliamo sotto quello che dovrebbe essere un portico artigianale. Un’accozzaglia di pali in legno, travetti, cannicciato e cellophane copre un piccolo spazio in terra battuta e pietra dove convivono senza ordine un tavolo spoglio, delle magliette da metallaro, degli annunci affissi in maniera precaria, un ripiano con una grande statua della Madonna, dei santini vari, un libro rilegato a spirale e altri oggetti che sembrano usciti da un mercatino di okkupa spagnoli. Contro la parete un bancone da bar e un cancelletto da casa nella prateria chiudono il tutto, mentre sulla destra, oltre il basso muretto in pietra, la vegetazione la fa da padrona.
Non facciamo in tempo ad orientarci in quel delirio di oggetti e cani e gatti che scorrazzano liberamente che la pioggia comincia a tamburellare il suo ritmo sul cellophane che copre le nostre teste. Dopo esserci registrati chiedo dove sia il bagno, per poter lavar via la fatica di un giorno intero di cammino dalla mia pelle. L’ospitalero mi dice che basta entrare nella prima casa disabitata del paese e lì, oltrepassata la porta, ogni posto è buono per.. se invece voglio fare la doccia non c’è modo. L’unica acqua esistente è quella che esce centellinata da un contenitore in plastica gigante appoggiato proprio dietro al recinto.

È passata quasi un’ora. Fuori il temporale lava l’orizzonte con decisione. Sasha e Will decidono di approfittare di quell’acquazzone per farsi una doccia al naturale, mettendosi in mezzo alla strada a torso nudo e lavandosi alla meglio. Noi intanto ci siamo sistemati nel sottotetto, nome che mai fu più appropriato. Infatti al di sopra dell’unico stanzone della casa, che funge da sala e cucina, è stato disposto un tavolato impostato dove il tetto incontra le pareti. Questo crea una sorta di piano la cui altezza massima è all’incirca un metro e venti, stretto tra il tetto e le tavole di legno, dove sono appoggiati uno di fianco all’altro 15 materassi. A lato del mio, dove il tetto si congiunge col muro, le tegole lasciano passare la pioggia ed un fiotto continuo entra bagnando prima l’unico materasso libero, poi il tavolato e infine colando al piano di sotto sulla panca della cucina.
La cena è servita. I 14 pellegrini sono seduti al lungo tavolo della cucina mentre gli ospitaleri, senza posto, si limitano a servire e chiacchierare in piedi. La cena è costituita da una zuppa di verdure nella quale si trovano pezzi di carne e ossa non ben identificate.

Poi è Tomàs a prendere la parola. Il grosso signore dai capelli e barba bianca, che indossa quella tunica bianca con la grande croce rossa stampata sul davanti. Dice che è significativa questa pioggia, perché 16 anni fa lui si rifugiò in quella che era una casa diroccata per trovare riparo dal temporale, e lì decise che quel rifugio sarebbe diventato un albergue al servizio dei pellegrini. La tempesta era stato il battesimo di quella casa, la sua rinascita a nuova comunità. E 16 anni dopo un’altra tempesta battezzava una nuova rinascita: da questa notte la casa non sarebbe stata più casa ma Tempio dei Cavalieri Templari. I pellegrini restano tutti un po’ allibiti. Guardo negli occhi il giovane prete slavo che sta davanti a me, ma lui elude ogni spiegazione. Alziamo i calici e brindiamo al nuovo tempio che per stanotte sarà la nostra casa.

Il sole è ancora al di sotto dell’orizzonte quando sentiamo la campana battere i suoi rintocchi. Scendiamo per la colazione e troviamo Tomàs sotto il portico che parla da solo. Mi avvicino lentamente. In piedi davanti al piccolo tavolino su cui trova posto la grande statua della Madonna ed un libro plastificato e rilegato, si trova il grande vecchio, con la sua tunica bianca, un cinturone in pelle borchiato, un principio di armatura a coprirgli spalle e ventre ed uno spadone sostenuto a due mani e appoggiato sulla fronte. Sta pregando Tomàs, leggendo dal libro preghiere che non esistono se non in quel tempio sperduto nella montagna leonese.

sabato 19 settembre 2009

come sempre in fretta


La confusione è tanta che non si riesce nemmeno a spiegarla, che non si riesce neppure ad iniziare a dirla. Resta un gomitolo, un groviglio di pensieri senza capo né coda che si rimestano nello stomaco, facendo corrugare la fronte. E passano le ore, quelle rabbiose e vuote del giorno e quelle dilatate e insonni delle notti. Passano i silenzi, che dalla bocca migrano agli occhi, e dagli occhi al cervello.
E intanto cresce sempre più la sensazione di star recitando un copione scritto per qualcun altro.

Ah, felicità / su quale treno della notte viaggerai / lo so che passerai / ma come sempre in fretta / non ti fermi mai

venerdì 18 settembre 2009

luce pomeridiana


Perché poi a volte capita. Capita di trovarsi in posti dove non si va da anni, da così tanto tempo che ci siamo anche scordati perché non volevamo andarci. E, all’improvviso, tutto diventa ovvio ed evidente, tutto si richiarisce all'istante.

Camminavo spedito nel tardo pomeriggio tentando di attraversare piazza Cavour e, uscendo momentaneamente dal mio stato assorto, mi ritrovo a guardare chi ho intorno. Come sempre il mio subconscio arriva per primo, è lui che percepisce le anomalie prima ancora che me ne renda conto. Una strana sensazione mi invade, come se stessi assistendo ad un carnevale del grottesco, una parodia umana. Bambine che prendono l’aperitivo nei bar della piazza, tute in pelle dell’Adidas che camminano, personaggi usciti da Mtv. Eppure ognuno è perfettamente se stesso, non c'è nessuna strana parata, nessuno ride dello scherzo. La sensazione di straniamento è totale e brutale. Ci hanno invaso, anche qui nella piccola provincia, e non me ne sono accorto.
Non ci voglio pensare, ma mi tornano alla mente le parole che l’amico Ernesto scrisse una volta sul suo diario: Mi rendo conto che è maturato in me qualcosa che tempo fa cresceva dentro al trambusto cittadino: ed è l’odio alla civilizzazione, la gretta immagine di gente che si muove come tanti pazzi al ritmo di questo suono tremendo.
E un pensiero mi assale mentre apro il portone dell’Ordine degli Architetti: quello che voglio fare nella vita è realmente costruire luoghi per un popolo che non mi rappresenta, in cui non mi identifico, del quale non condivido le più basilari aspirazioni?

lunedì 14 settembre 2009

fuori stagione


Mi soffermo a guardare il mare, con quel suo colore così denso e cobalto, e penso che tutto questo è come un quadro, una foto della mia vita.
Il sole al tramonto sta illuminando una spiaggia settembrina che si sta spopolando dei suoi abitanti. Nel campetto dei ricordi ci sono solo io, l’unico giocatore arrivato in ritardo e fuori stagione. Tutto è più o meno come lo ricordavo, come quando anni fa era la liturgia dei miei fine settimana, dei miei pomeriggi estivi. Eppure.
Eppure il campetto è desolato. Le retine son scomparse, il cerchio cigola quando la palla tenta di ballarci sopra, e le tempeste si son mangiate il legno della tabella.
Sarebbe una perfetta foto in bianco e nero. Un ritorno a ciò che era e ora non è più. Come la tua maglia preferita quando ormai sei cresciuto e non ci entri più. Come il ricordo a cui ti attaccavi, quando i lineamenti del suo viso sono ormai scomparsi lavati via dal tempo.
Come tornare a casa. E vedere che tutto intorno è cresciuto, si è stabilito, ha trovato una sua normalità e un suo equilibrio. E tutto ciò cui eri affezionato è cambiato o ridotto a rudere.

mercoledì 9 settembre 2009

Leon - dia 6

È quando mi stendo sul letto a sera che sento la stanchezza invadermi con un’arroganza strana. Circondato da 50 persone mentre un ventilatore cerca di far circolare un po’ di aria nello stanzone, con le finestre che sembrano i fori nelle mura di un castello. I piedi roventi, la testa pulsante, lo stomaco non risponde. Qualcosa non va.
Ripenso alla giornata passata. Ore sotto il sole rovente, le ombre che si nascondevano. Sete, tanta sete. Il lungo cammino dall’alba fino al pomeriggio, l’arrivo al monastero di Leon e la fila per conquistare il posto. E poi continuare a camminare per la città, scoprire quello che con fatica avevamo conquistato: le vetrate altissime della cattedrale, il palazzo in stile Fiabilandia di Gaudì, l’auditorium guercio di Mansilla e Tuñon, il MUSAC colorato e premiato. Forse gli ho chiesto troppo ed ora il fisico mi sta presentando il conto.
La notte è terribile. Un caldo strano mi brucia da dentro, inestinguibile; il ventilatore non porta nessun beneficio, anzi sembra soffiare sulle mie braci interiori ravvivandole. Le ore passano nel silenzio rumoroso dei pellegrini, fatto di gente che russa, parla, si muove, si alza. La sveglia dei vicini mi sorprende verso le 5 del mattino in un dormiveglia malato, con la testa bollente e lo stomaco rivoltato. Provo ad avvicinarmi al bagno ma barcollo, sudo, la nausea mi sbilancia. Mi ridistendo sul letto ansimante ad aspettare che i pellegrini scompaiano, mentre pian piano tento di riaffogare nel sonno. Riemergo a sprazzi, giusto in tempo per separarmi stordito dai miei compagni che se ne vanno con la promessa di rincontrarci alla prossima tappa.

E così dopo giorni e mesi, per non dire anni o tutta la vita, improvvisamente la solitudine diventa fattore di preoccupazione. Non so cosa succede al mio corpo, ma non sono autonomo, non sono in condizione di badare a me stesso. Sono in una città straniera, dove non conosco nessuno. Sono malato e non ho un posto dove dormire questa notte. Non voglio abbandonare il Cammino, ma in queste condizioni non posso uscire dal letto..
Per un istante la solitudine si trasforma in abbandono. E nostalgia per tutte quelle certezze che una casa e degli amici portano alla nostra vita. La sicurezza che qualcuno si prenderà cura di noi.

Ma è un attimo. Come sempre qualcuno arriva di sorpresa, da dove non ti aspetti, ad aiutarti.
Le suore mi preparano la colazione e mi regalano un maglione di lana. Insieme a due ragazzi raggiungo in bus febbricitante un paese a 40 km da Leon. “Insolazione e disidratazione” diagnostico insieme all’hospitalera del nuovo Albergue, che mi offre una bottiglia di un rimedio casalingo. Passo il pomeriggio tra sogni sconnessi a rigirarmi nel letto. Ogni tanto mi svegliano. I ragazzi mi preparano il pranzo, la cena e la colazione. Senza che io chieda niente. Finchè una nuova notte arriva, questa volta calma e serena.

domenica 6 settembre 2009

stella cadente - dia4










Qualcosa si muove di fianco a me. Apro gli occhi. Nella stanza piena di luce vedo una sagoma chiudere la porta cercando di fare poco rumore. Non ho l’orologio e il telefono è spento. Non ho idea di che ore siano. Dopo un istante la porta si riapre ed è un uomo quello che entra. Subito gli chiedo assonnato: “Che ore sono?” “Le 8.00”. Merda. Negli alberghi del pellegrino è consentito restare solamente fino alle 8.00 e non oltre.
Salto giù dal letto a castello, mi metto pantaloni, maglietta e scarpe ed esco dalla stanza. Il corridoio di questo che sembra più un hotel che un albergo del pellegrino è invaso dal carrello della donna delle pulizie e dai suoi arnesi. Scorro velocemente le varie stanze fino a dove si trova quella dei miei amici, che in teoria mi avrebbero dovuto svegliare. Nessuno. Zaino in spalla mi dirigo all’entrata. Nessuno. Nel bar nessuno. Nel portico, nel giardino, sulla strada non un’anima viva. Del centinaio di persone che c’erano qui ieri sera son rimasto solo io. Guardo il cielo, ormai luminoso, ed una strana sensazione mi invade. Come quando, nelle gite scolastiche, non mi svegliavo ed il pullman con tutti quanti era di fronte all’albergo ad aspettarmi. Solo che questa volta il pullman non c’è più.
Chiamo i miei amici e li raggiungo al bar del primo villaggio. Colazione rapida e partenza. Sono le ore 9.00. Penso che siamo gli unici a partire così tardi. La gente ferma con noi a fare colazione sta facendo la seconda colazione.

Il paesaggio cambia leggermente. Lasciamo la provincia di Palencia ed entriamo in quella di Leon; comincia ad apparire qualche albero sul cammino e nei campi, passiamo per il paesino di Sahagùn.

A Bercianos del Real Camino l’Albergue è l’ultima casa del paese, una vecchia casa rurale restaurata. Ci accolgono con un bicchiere di tè freddo e la notizia che siamo arrivati troppo tardi e non c’è posto per noi. Ci consigliano di piantare la tenda di fianco al campo di squash, in fondo alla via, e così facciamo. Come una famigliola di zingari cominciamo a colonizzare lo spazio verde intorno al campetto: laviamo i vestiti nella fontana, li stendiamo con uno spago tra due alberi, ci appropriamo del tavolino di cemento rovesciandoci sopra i nostri zaini e le nostre cose.

Attraverso il recinto della “zona sportiva” e mi ritrovo su una tavola piatta, dritta fino all’orizzonte. Vedo il mondo scomparire sotto una lieve depressione prima di risorgere nel profilo dei monti in lontananza. La terra sotto di me è costituita da un leggero strato di erba riccia e bruciata dal sole, uno strato soffice e accogliente sul quale mi siedo. Un carro abbandonato, i tralicci della luce, le curve sinuose dei cumuli di semi raccolti sul tavoliere, un gruppo di piccioni davanti a me. E l’orizzonte infinito, sotto il sole. Tutto ha il ritmo della natura. Non c’è fretta in questi luoghi, non c’è posto per nessun tipo di stress. Il respiro si sintonizza col vento. La vita si svolge dall’alba al tramonto. Ed il buio porta finalmente stanchezza e riposo. Vera stanchezza e vero riposo. Senza preavviso, dal nulla qualcosa si fionda sul gruppo di piccioni che rapidi si disperdono. L’ attacco di un uccello rapace.

Mi aggiro per il paesino, che ha tutta l’aria di essere stato importante un tempo. Piazzettine, tradizionali case di terra battuta in rovina, la chiesa crollata e la nuova in costruzione, il bar con il circolino. Poi, al margine est,esterna all’ultima fila di case, improvvisamente un gruppo di persone. Han tirato fuori le sedie dalle case o stanno appoggiate ai muri all’ombra del sole calante. Nei rettangoli di terra di fronte dei gruppi di signori anziani stanno giocando. Giocano a bocce, con sfere antiche e segnate dal tempo. Ma è l’ultimo campo da gioco ad attirare la mia attenzione. Un'asticella di ferro piantata nel suolo ed un signore che tira, nell’aria, degli oggetti metallici. Sono ferri di cavallo. Ferri di cavallo come boomerang primitivi che devono centrare l’asta ed ancorarcisi. Resto sbalordito. Pensavo fosse una cosa relegata ad altri tempi e altri mondi, pensavo fosse legata a immagini in bianco e nero, a foto mangiate dal passato. E, invece, guarda un po’ cosa mi riserva questo paese sperduto nella landa assolata.

La notte è fredda a Bercianos. Ma è la notte di S. Lorenzo e visto che siamo a dormire all’aperto decidiamo di non dormire nella tenda. I miei amici si stendono nel prato del campetto, riparati da qualche albero. Io oltrepasso la recinzione e mi stendo lontano nel campo, steso sul soffice manto di erba bruciata, come un tappeto naturale. Guardo in alto. Avevo dimenticato che il cielo la notte non fosse omogeneo. Avevo dimenticato il suo colore profondo e oscuro, la casualità con cui le stelle forano il suo buio, il bagliore della Via Lattea. Intorno a me un'intera calotta di stelle si stende, da orizzonte a orizzonte, densa e disegnata con precisione. Non voglio addormentarmi prima di aver visto una stella cadente, mi dico. E l’attesa viene ricompensata. Un oggetto infuocato scorre silenzioso e lento nel mio campo visivo, da cima a fondo, con decisione. Waaaaaaaaa. Magnifico.

Non so che ore sono ma ho freddo. L’umidità si sta mangiando le mie gambe rannicchiate dentro il sacco a pelo ormai bagnaticcio. Mi sono svegliato per il freddo. Provo a riaddormentarmi, ma è ormai impossibile. Il flebile bagliore delle stelle illumina una landa desolata e fredda in una notte senza luna. Raccolgo tutto e mi rintano nella tenda. Sarà difficile ritrovare il sonno e il caldo, già lo so.

venerdì 4 settembre 2009

il bar al confine del nulla - dia3


Niente. Niente di niente. Giallo paglia bruciato e pettinato a perdita d’occhio. Qualche scuro cespuglio sparso qua e là, quasi fosse un errore della vista che, stanca di tanto nulla assolato, si inventa macchie di ombra. I passi si susseguono, le caviglie si impolverano e lo zaino pesa sempre più con il passare delle ore.
È nel silenzio circondato dall’immenso che torno a fare i conti con il mio io selvaggio, con i pensieri ribelli e con le emozioni brutali. Fluiscono letteralmente dentro di me e corrono per ogni dove, proprio come i canali che irrorano questi campi. Mi sento improvvisamente un guerrigliero, e l’ombra di fronte a me mi rende ragione. Passo fermo e spedito, la sagoma dello zaino e del sacco a modificarmi il profilo, le nappe della kefia che ondeggiano sinuose al mio lato. I pugni chiusi. Tutto ciò di cui ho bisogno lo porto sulle spalle, a stretto contatto. Una sorta di delirio eroico si impossessa di me mentre percorro i 17 km di nulla che ci separano dal primo paese.

Seduti ad un tavolino nel portico dell’ultima casa del paese contempliamo i campi davanti a noi. Come un’invisibile muraglia la strada perimetrale del villaggio chiude a cerchio il centro abitato. Nessun limite reale, ma una soglia evidente. Da un lato si schierano le case, addossate le une alle altre, con piccole finestre e grandi muri, intonacate e scrostate chissà quante volte. Dall’altra le terre coltivate risalgono dall’orizzonte fino a mordere il ciglio della strada. Seduti di fronte a questo confine immaginario e concreto assaporiamo la nostra birra e il nostro momento di sollievo nella calura pomeridiana.
Di fianco a noi un signore del paese prova a parlare con un ragazzone i cui piedi piagati dal caldo e dai chilometri cercano refrigerio in una borsa col ghiaccio. L’anziano abitante prova un’improbabile discorso con lo straniero, ricordandogli, come se ce ne fosse bisogno, che quelle ferite non sono affatto buone per camminare. Solare e sorridente lo straniero prova a rispondere che non capisce lo spagnolo. Imperterrito il canuto signore parte sparato sostenendo che devono imparare il castigliano, che non può essere che vadano in un paese senza conoscere la lingua, che come fanno a … Il ragazzone, con notevole accento canadese, sfoggia un “Una cerveza por favor” destando l’ilarità di tutta la compagnia. Non soddisfatto l’uomo continua a domandare, a lanciare argomenti nell’aria, a tentare un dialogo. Nel frattempo noi, seduti alle spalle del paesano, cerchiamo a gesti e suggerimenti in inglese di offrire appoggio e sostegno a quello che ormai sentiamo già come un amico.

È sempre divertente ciò che succede quando regna l’incomprensione tra diversi linguaggi. Ognuno parla la propria lingua ma in maniera esasperatamente lenta, come se la lentezza potesse rendere ragione di un idioma che comunque sia resta sconosciuto e incomprensibile. È un’assurdità che però continua a ripetersi in ogni dove, come se il desiderio di comunicare fosse più forte delle barriere linguistiche. Ed effettivamente, molte volte, è così.
In questo modo ci siamo guadagnati due amici. Gerome, il ragazzo canadese, ed il suo amico torinese, ribattezzato Ciccio per evidenti motivi.

giovedì 3 settembre 2009

campi di grano - dia 2


Resta poca gente nello stanzone quando usciamo. I letti sono vuoti come se non ci fosse mai stato nessuno. In silenzio e nella penombra giallognola di una lampada lontana raccogliamo le nostre cose, le infiliamo alla cieca negli zaini e usciamo. Seduti su un tronco per allacciarci le scarpe veniamo invasi dall’aria fredda della mattina nascente. Il cielo che copre l’aia è ancora scuro e niente intorno sembra avere troppa voglia di svegliarsi. Ripercorriamo il sentiero che il giorno prima mi ha portato a Boadilla, questa volta in senso est-ovest, mentre il sole fa capolino lontano alle nostre spalle illuminando i pochi segni antropici del territorio: un trattore, una torre dell’acqua, i solchi regolari nei campi, le montagne ordinate di sofficini di fieno.
Visitiamo di sfuggita le chiese di Fromista, raccogliamo un piccolo uccellino caduto dall’albero, compriamo il pane appena sfornato e osserviamo con preoccupazione un cielo scuro e ventoso. Le previsioni dicono pioggia.

Gran parte del percorso corre al bordo di una strada asfaltata praticamente deserta se non fosse per i pellegrini in bicicletta che ci sfrecciano a fianco. Lenti e inesorabili i nostri passi si susseguono, uno dopo l’altro, macinando metri e poi chilometri. Il mondo torna dopo anni ad avere un tempo naturale, un tempo dettato dal compasso dei nostri piedi. Dall’orizzonte si staccano impercettibilmente scenari che ci si avvicinano con una lentezza impressionante, una mancanza di velocità che, invece che essere esasperante, ha tutta l’aria della naturalezza.
Tornare a vedere il giorno nascere e morire, muoversi nella luce del sole con una rapidità umana, scoprire cosa ci riserva il mondo nascosto poco più in là del nostro sguardo. Non sentire nessun suono, nessun rumore che non sia quello che il vento fa parlando nelle nostre orecchie, e quello che dentro di noi emette il nostro respiro. Lo scorrere dell’acqua nei canali, i giunchi che si piegano cigolando sotto la pressione dell’aria, un grido lanciato nell’aria da qualche uccello. La luce che cambia, sui campi, al passare delle nubi. E gli orizzonti che sembrano infiniti, mai esattamente piani, imperfettamente ondulati. Il cielo di un celeste pieno, corposo. E il colore del grano bruciato dal sole. I capelli a spazzola dei campi mietuti.

A Carriòn de los Condes non c’è posto per noi in albergo. Piantiamo la tenda nel camping che si trova lungo il fiume, proprio dove le colline si aprono e lasciano libero il vento di scorrazzare selvaggio. Il freddo è pungente. Prima notte vera e propria di cammino. L’equipaggiamento sembra già insufficiente. Infreddoliti mangiamo sul tavolo di pietra al bordo del fiume. Panini con tonno e pomodoro, qualche pesca. I piedi nudi che cercano sollievo dopo la lunga giornata di cammino vengono martoriati dall’aria gelida. E' ancora presto quando ci rintaniamo in 3 in una tenda da 2. Il sonno arriva rapido, consapevoli che la sveglia arriverà prima per noi che per il sole.

mercoledì 2 settembre 2009

la partenza - dia 1


Il treno scorre lento sui binari e si allontana dalla stazione. Fa risuonare il ponte in ferro sul porto al suo passaggio, puntando verso nord. Non ho musica con me. Il rumore delle rotaie è la mia colonna sonora, il brusìo della gente il mio film, quello che mi porto dentro il mio monologo.
Davanti a me sta uno zaino, piccolo e vecchio. Si porta dietro una storia non mia, una storia lunga di famiglia giovane e, voglio immaginare, felice. Dentro, la protezione minima contro il mondo.
Il tempo, nel silenzio rumoroso del mondo, è elastico, lattiginoso e assonnato come gli istanti che seguono il risveglio. I pensieri si affollano nella testa, interrotti dal sonno e dalle righe di qualche libro.

In aeroporto siamo tanti, almeno un centinaio. Ognuno cerca riparo come può, si schiaccia su qualche parete, cercando una protezione minima, più psicologica che reale. Torniamo ad essere animali, animali urbani, ognuno con la sua prole inanimata da difendere dagli sconosciuti. Siamo profughi, emigranti e naufraghi.
Le procedure d’imbarco sono ormai naturali e prive di ansia, galleggiano in quello stato sonnolento delle prime ore del mattino. Le ruote abbandonano la pista per il cielo nel momento in cui torno ad affondare in un sonno senza sogni.

Il bus mi lascia in centro, e vedo finalmente, anni e anni dopo, quella che sarebbe dovuta essere la città del mio Erasmus: Valladolid. Capitale dello stato spagnolo fino all’invenzione di Madrid, qualche centinaio di chilometri più a sud, Valladolid è una città universitaria nel cui piccolo centro storico spicca la calle Santiago, che adatta felicemente l’eleganza madrileña a una dimensione più ridotta e umana. Mi soffermo a mangiare seduto di fronte a Santa Maria de la Antigua, di nobile bianco vestita. Un proto gotico semplice e massiccio, squadrato ma sobrio. Resto letteralmente affascinato dalla chiesa di San Pablo, dalla sorprendente alternanza tra la massività geometrica dei pilastri d’angolo e la volatilità e leggerezza della decorazione a trapano del corpo centrale. Nascosto in mezzo a tanto tripudio di luci e ombre il rosone quasi scompare. E poi la chiesa del monastero di San Benito el Real, a cui la rigorosa geometria, i pilastri massicciamente ottagonali che sostengono i due grandi vuoti in facciata e il bianco puro della pietra, danno un aspetto di modernità mediterranea nascosta nel passato.

Altro treno, direzione Fromista. Scendo in una stazione che sembra disegnata per un paesino del Far West. Chiedo informazioni, volgo le spalle al sole e mi incammino verso est pronto per raggiungere i miei compari di viaggio che stanno arrivando a Boadilla del Camino. Il sentiero corre in mezzo a campi di grano assolutamente piani, lungo l’argine di un ampio canale artificiale i cui bordi, come cicatrici nel paesaggio, sono ricoperti di erbe alte e alberi. Sotto il sole del tardo pomeriggio incrocio diversi pellegrini che portano scritto evidentemente in faccia la domanda: “Perché stai andando nella direzione opposta?”. E questo, come sempre, mi diverte. Amo lo sconcerto che un’azione anomala provoca nelle masse. Disorientare e cambiare prospettiva. E, dentro, rido.

Poi, all’improvviso, seduta sull’orizzonte, la vedo. Dapprima non la riconosco, nella calura che veste la polvere del sentiero. Eppure, piano piano, al ritmo saltellante del mio passo cresce fino a diventare leggibile, fino a trovare la sua forma tipica, fino ad essere una croce. Dietro un leggero avvallamento, passo dopo passo, sorge oltre la linea dell’orizzonte la punta di un campanile, il tetto e infine il corpo di una chiesa. È una stupida felicità quella che mi invade. Il sollievo infantile di un uomo di mille anni fa. La gioia di chi riconosce finalmente la presenza di un nucleo di civiltà, della protezione dall’affascinante immensità del mondo. Il paese prende forma intorno e al di sotto della sagoma protettrice della chiesa.

E, come un’oasi nel deserto, ad aspettarci c’è l’Albergo dei Pellegrini. In quella che doveva essere l’aia di un antico edificio, una piccola piscina aspetta i piedi dei pellegrini, per dar loro sollievo. Una palma serve da riparo contro l’ultimo sole.
L’ospitalero ci porta il menù della cena. Zuppa di ceci, pesce fritto, insalata, dolce e vino. Un po’ di sollievo ed energia per il corpo.

Un edificio a doppio spiovente, che doveva essere l’antica stalla, accoglie lo stanzone del dormitorio. Sopra a una dozzina di letti a castello è incastrata un’impressionante trave in legno massiccio sbozzata a mano che deve avere almeno 7 metri di luce libera. Al di sopra di questa è appoggiato un assito di legno chiaro che funziona come pavimento per i letti del piano soppalcato. La ringhiera è costituita da dei travetti legati con grossi funi alla trave e al tetto.
Mi addormento con lo sguardo affascinato rivolto alla parete di terra battuta, con il vento freddo che, attraverso la piccola finestra del sottotetto, muore preciso sul mio collo.