domenica 12 ottobre 2008

la vita in stereo


Anni fa scoprirono che il terreno aveva delle capacità non infinite. Che le colture lo privavano delle sostanze nutritive impoverendolo progressivamente. Era un problema. Perché della terra l’uomo viveva.
Qualcuno allora pensò che forse il terreno aveva bisogno di riposo. E inventarono il periodo di maggese.
Poi però non sempre funzionava, e allora qualcuno ebbe un’idea. Forse il problema non stava tanto nel farlo riposare, quanto nel non stressarlo succhiandogli sempre le stesse sostanze, nel non sottoporlo sempre ad alimentare gli stessi ortaggi, nell’evitare la monocoltura insomma. E così inventarono la rotazione delle colture.

Ieri sono stato costretto ad uscire dall’area del mio monitor e un pensiero mi ha fulminato.
Ero stressato, denutrito, oberato. E mettermi a maggese non risolveva più di tanto le cose. Continuavo ad essere privo di entusiasmo e stimoli. Qualcuno però mi ha costretto a uscire, a cambiare aria, a passare dalla mia cultura ad un’altra, ad una rotazione.
Stamattina sorrido, contento e rifocillato nell’animo. Perché l’uomo monocoltura è destinato alla tristezza, all’angoscia di una vita dalle prospettive claustrofobiche. La rotazione richiede abilità e lavoro, certo, ma i vantaggi sono indiscutibili ed evidenti.

È come ascoltare da un orecchio solo, per concentrarsi meglio. E poi scoprire che la vita, invece, è in stereo.

mercoledì 8 ottobre 2008

mezzelune


Continuiamo ad oscillare, come mezzelune nella notti chiare.
Inseguire le nostre ambizioni. Volere fortemente e lottare. Cercare di conquistare quel che ancora non c’è. Rovinarci la salute, soffrire e vegliare, per vederle crescere, prendere forma. Sacrificare riposo e, spesso, umanità. Superare i limiti dei nostri talenti con l’ostinazione della nostra ambizione.
Oppure scegliere di non tribolare, e godersi quello che abbiamo. Abbassare la soglia fino a che ogni cosa diventa un piccolo mondo, che ci culla, un piccolo gesto. Eliminare gli slanci, ridimensionare le nostre paure. Vivere sociale, legato a piccoli riti e routine. E in essi trovare gioia.
Tra desiderare forte e vivere senza riposo o adattarsi e dormire la notte.
Tra costruire cattedrali o vivere le nostre case.

domenica 5 ottobre 2008

solitudini disperse


Mi siedo appoggiandomi con una mano sulla gamba sinistra.
Questo dannato ginocchio non ne vuole sapere di girare. Mi sfrego la cavità alla sinistra della rotula e sento un formicolio risalirmi su per la coscia. Il mio respiro pian piano riprende un ritmo normale mentre con lo sguardo osservo il mare. Piccoli gruppi di esseri umani stanno passeggiando sulla battigia, come animali in migrazione che approfittino dell’ultimo sole. Lascio che mi cali addosso il silenzio, con nelle orecchie il suono del mare e di qualche chiacchiera errante.
Non guardo nulla in particolare. Lascio che i miei occhi navighino intorno, scorrendo sull’orizzonte tagliato dalle vele e sulle impronte dei gabbiani sulla sabbia, sui relitti invernali dei pattìni e sul promontorio di Gabicce.
Un uomo con un maglione a quadri scozzesi si stira nel sole, con le braccia dietro la nuca. Si aggira per la spiaggia come sperso. Vagola in qua e in là, con quella camminata un po’ comica di chi procede coi piedi a papera, con le punte in fuori, molleggiando leggermente sulle ginocchia.
Giocherello con la chiave che ho in mano, con l’anello a spirale infilato nel dito medio. Lo faccio scorrere e ruotare, sento il metallo strisciarmi nell’incavo delle dita.
Rialzo gli occhi e ritrovo quel maglione a scacchi a pochi metri da me, ancora in quella camminata anatresca. Accenna un saluto da dietro gli occhiali da sole, cui rispondo con un cenno del capo, tornando immediatamente a guardare la chiave che ho in mano, come se fosse il nocciolo di un grave problema. Non ho voglia di parlare, non voglio nessuno che mi costringa a rompere questa bolla di nulla che mi circonda. Voglio restare qui, a farmi passare il vento tra le orecchie ed il mare negli occhi. Spero che se ne vada. Spero ...
- Sei di qua? – sento arrivare timido da quel corpo.
- Sì.
Cerco di chiudere la comunicazione prima che inizi. Gli rispondo e torno a guardare la chiave.
- Non c’è nessuno oggi…
- Già.
Non è vero. La battigia è piena di gente.
Poi mi scopro. Non so bene perché. Forse perché non è una minaccia, forse perché se ne sta lì, impacciato in mezzo alla spiaggia, estraneo come se non sapesse dove collocarsi, come se non sapesse dominare la sua presenza nello spazio.
Lo guardo. E gli dico:
- E lei è di qua?
- Sì, beh, Bellariva. Però ho l’albergo a Riccione. Quando posso vengo qua.
- Oggi le va bene. C’è un gran sole.
- Sì, si sta proprio bene.
Penso a come desideravo fino a poco prima di svegliarmi e vedere il diluvio. Un tempo grigio e autunnale. Di come avrei voluto correre in riva, col vento carico di sabbia e sale a rasparmi il viso e il k-way. Con l’acqua a lavarmi i pensieri da sopra e il cuore dal mare. E invece eccolo qua, un sole che a settembre si era scordato di uscire ed ora si affretta a recuperare scaldando gli animi.
Lo guardo.
La faccia e la voce sono giovani, eppure i capelli sono brizzolati ai lati, segno indelebile delle preoccupazioni sotterranee che devono averlo portato fin qui. Nonostante gli anni ed il lavoro quest’uomo, indubbiamente solo, è una preda indiscutibile della vita. Lei lo trascina dove vuole e lui, sbandando, la segue, con quel passo da papera maldestra.
Mi fa pena.
Mi guardo intorno. A parte le mandrie migratrici che socializzano a riva, osservo verso le cabine e scopro che siamo tanti. Seduti sulle pile di mattonelle, appoggiati ai pali, alle staccionate. Siamo tanti pois, solitudini espanse e distribuite.
Mi guarda, attraverso quegli occhiali da sole con il cordellino che penzola dalle aste.
- Vieni qui di solito?
Eccolo. Sembra quasi una confessione. Quella frase risuona dentro di me come l'ammissione di una sconfitta. Come se dicesse: anche tu non trovi altra soluzione che portare le tue pene in riva al mare, eh? E suona doloroso.
Cosa porta un uomo a cercare nel sole di una domenica mattina di ottobre conforto nelle parole di uno sconosciuto di una generazione più piccolo di lui? Ad esporre la sua inettitudine nei confronti della vita, a prostrarsi senza timore di fronte ai silenzi di chi può regalargli solo qualche attimo di futili parole?
Che tristezza mi mette addosso quest’uomo. Non la sua solitudine. C’è una dignità enorme nell’essere soli, nel fronteggiare il futuro con la testa alta. Mi mette tristezza perché si sente solo, escluso. Escluso dalla possibilità di trovare qualcosa. Dalle sue parole emerge un’esistenza che ha prosciugato le sue ambizioni di felicità. Famiglia o non famiglia, la domenica mattina si alza presto per vagare sulla spiaggia, aggirandosi trai relitti dei mosconi. E non gli provoca nessun piacere, se non quello di non vedere passare i minuti sulle quattro pareti che descrivono la sua dimora.
- Vieni qui di solito?
- Non c’è un di solito. Sono venuto a correre perché avevo bisogno di scaricarmi. Anzi, è ora che ritorni.
Non riesco a resistere. Mi alzo appoggiandomi con una mano sul ginocchio sinistro. Gli passo di fianco dirigendomi verso il mare.
- Buona giornata.