domenica 5 settembre 2010

dia 2: cap de creus


Dev’esserci qualche forma ancestrale di feeling che si ripristina, una specie USB biologica che ci ricollega a quando il ritmo della Terra era il nostro. Perché altrimenti non mi spiego come mai i miei occhi si aprano da soli, improvvisamente lucidi dopo una notte breve passata sugli scogli, e lo facciano proprio al momento giusto. Apro la porta della tenda e guardo verso est le rocce scendere a bagnarsi nel mare. Sull’orizzonte, dove le acque sono una linea, è seduta un’aurora di pesca. Faccio qualche passo verso la riva, come se la bellezza dipendesse dalla distanza.

È allora che sorge. Silenzioso e maestoso. Piccolo spicchio all’inizio che rapidamente abbandona il mare per divenire un cerchio di luce.

Ci avviciniamo all’acqua, fredda e cristallina, mentre le pietre riprendono lentamente il loro colore. Qualcuno scende lungo le creste rocciose, si libera di ogni vestito, e si tuffa.

Intorno regna il silenzio ritmato dal respiro del mare, dalle traiettorie solitarie dei gabbiani.

il mattatoio


Un bagliore ambrato esce dalle viscere di un edificio davanti a noi ritagliando dalla tenebra l’apertura di un capannone di campagna e, di fronte, uno spicchio di fienile. Il resto è buio cui gli occhi stentano ad abituarsi.

Il capannone ha fagocitato alcuni giovani che, seduti all’ingresso, aspettano l’arrivo della gente per dare inizio alla festa. Dentro il “mattatoio” è ancora come quando veniva utilizzato, con le separazioni basse e le rastrelliere per gli animali. Un’architettura senza pregio se non quello della vita che ci si è consumata dentro, fino alla fine.

Sotto la lunga copertura di un altro edificio stanno delle tende, montate e pronte per la devastazione imminente ed il collasso previsto al mattino, dopo una notte di fine estate all’insegna di musica elettronica, alcool e fumo, luci al neon e sballo assicurato.

Faccio quattro passi nella notte, mentre una parte selezionata del popolo della Riviera comincia a radunarsi, accorrendo come api intorno ad un miele caldo e luminoso. La valle è quasi completamente nera, a stento si riconosce il confine tra le colline e il cielo senza luna. Il profumo di fieno stipato nei dintorni inebria i sensi e la tentazione di mettersi a correre nel silenzio per tuffarsi nel nulla cresce. Di lontano, sulla collina di fronte, scorgo le luci intermittenti di un’altra festa privata e il basso persistente della musica house rimbalzare fin quassù, tra le pareti del fienile e della porcilaia.

È lì che penso a quanto tutto questo affanno, tutti questi tentativi goffi e violenti di mordere la vita, non abbiano altro esito che allontanarci, renderci iene gli uni per gli altri, sciacalli di una felicità fatta di autodistruzione. Saranno forse gli occhi del vecchio che cominciano a farsi strada in una giovinezza mummificata, ma ciò che ho intorno somiglia sempre più ad un grido che, prosciugate le lacrime, cerca di soffocarsi nella notte. E’ un baratro aperto ad un passo dalla consolle.

Respiro forte e rientro.

Mentre scavalco la soglia dell'oscurità è Thoreau a parlare per me: “Quando ho bisogno di ricreare me stesso vado in cerca della foresta più buia, della palude più fitta e più impenetrabile e, a occhi cittadini, più tetra. Entro in una palude come in un luogo sacro, come in un sancta sanctorum”.