sabato 28 agosto 2010

dia 1: il faro



Guardo fuori il cielo diventare scuro e l’acqua farsi minaccia senza fondo; i Pirenei tuffarsi all’orizzonte nel Mediterraneo.

Intorno muri da montagna, aria di rifugio. Tavoli, panche, bancone, pareti tutto è in legno chiaro, intagliato, artigianale. Eppure il nostro rifugio ha un’identità ben diversa. È il faro che protegge la punta più orientale di tutta la penisola iberica. L’unico elemento della presenza dell’uomo nel Cap de Creus, riserva naturale in cui promontori che vorrebbero essere montagne risalgono dalle acque cristalline e ricche di vita del mare per arenarsi sul continente.

Sorrido, pensando all’ironica ciclicità degli eventi. A come l’anno scorso abbia cominciato a camminare da un punto a caso, nel centro del Paese , per concludere poi sull'Oceano, sotto il faro che presidia il capo più a ovest della penisola iberica; oggi mi ritrovo invece a cominciarne un altro, di Cammino, proprio sotto al faro est per terminare poi nel continente.

Sul nostro tavolo, tra cartine del parco, del Cammino, della provincia, arriva una teglia da forno con un branzino grosso come un braccio. Tutto intorno un prato di patate e pomodori.

Usciamo e ci dirigiamo verso la punta estrema, lungo i promontori rocciosi a forma di croce che danno il nome a questo luogo. Piove leggermente e questo ci autorizza, agli occhi delle eventuali autorità, a ripararci, accamparci. Scendiamo verso la massa scura del mare e piantiamo la tenda in un luogo riparato dal vento, con l’apertura rivolta all'ipotetico est. Il vento risale il pendio scuotendo la tenda nella notte, mentre la pioggia tamburella il suo blues sulle nostre teste.

E il sonno arriva, senza fatica né paura.

venerdì 27 agosto 2010

dia 0: taxi driver


La piazzola di fronte all’aeroporto è deserta. Gli altri passeggeri stanno tutti salendo sull’ultimo aerobus che li aspettava per portarli a Barcellona. Il nostro, a quanto pare, non è stato altrettanto clemente. Il prossimo parte tra 4 ore, alle 5 del mattino. Provo a proporre un accampamento istantaneo nel piazzale, in attesa del primo bus, ma la proposta viene rifiutata.

Due ragazzi, le uniche altre sagome all’esterno dell’aerostazione, stanno fumando davanti all’ingresso, evidentemente indecisi anche loro sul da farsi. Ci avviciniamo e domandiamo dove vadano e se vogliono dividere con noi il prezzo del taxi. Il ragazzo ci guarda con occhio di scusa e risponde che parla solo catalano. Allora si fa avanti la ragazza e dice che la loro meta è Figueres, ma che volendo possiamo chiedere di fare una deviazione su Girona. In quel momento si materializza alla fine della strada un taxi che ci si ferma davanti. Dopo un rapido scambio di battute in catalano piazziamo i bagagli in macchina e partiamo.

L’auto sfreccia nella notte, si infila nelle strade del centro e ci lascia in Plaça de Catalunya, una piazza a ponte sulle acque del Ter. Paghiamo più del dovuto ed infiliamo finalmente la porta dell’ostello. Considerato che il check-in chiudeva alle ore 23.00 e sono le 2.00 il ragazzo dietro il bancone non fa una piega, snocciola in uno spagnolo stentato le poche norme del luogo e poi ci porge in inglese le lenzuola per la notte.

La porta del terzo piano si apre su un corridoio colorato popolato di fantasie in bianco e nero che dormono sulle pareti. Appoggiamo gli zaini cercando di non svegliare i nostri compagni di stanza ma non riusciamo a trattenere un moto di disgusto quando vediamo il bagno: davanti a noi si erge un altare in pietra, ricavato in una profonda nicchia nel muro decorata con motivi geometrici dorati. Sul piano dell’altare è stato intagliato un bacino dal quale emerge il rubinetto del lavandino. Ci giriamo schifati e ci fiondiamo a dormire.

domenica 8 agosto 2010

meno uno


Queste partenze sono sempre più strane. Le ore che le precedono sono dei passaggi nel vuoto, dei respiri assorti prima dell’apnea. Come se fosse impossibile cambiare vita senza un’anticamera di silenzio. Pronti per il salto nel vuoto.
Perché davanti non ci sono che ipotesi di futuro pronte ad essere modificate, ricami ideali labili ed evanescenti come un’ombra tracciata al suolo. Solchi cancellati dalle maree.
Ciò che è certo è il desiderio di partire. Di tornare a scoprire l’essenza della nostra umanità e bestialità. Tornare a immergersi in quel mondo che l’eccesso di società cerca di annullare rendendolo sterile oggetto di mercato. Perché è proprio quando si torna allo stato di natura che si scopre che la supremazia del Creato ha ancora il potere di evocare l’Infinito.