domenica 26 dicembre 2010

i due soli


Sono due capocchie di spillo nere e senza riflessi gli occhi della vecchia zia. Due soli di ossidiana. Protetti da palpebre stanche, mi guardano fissi, senza muoversi. Curva su se stessa non sente la confusione che la circonda, frutto dell’energia delle nuove generazioni.

Mi osserva e spira parole semplici e pesanti.

- Ormai la memoria non mi funziona più tanto. Ma non è questo il problema. Sono le piccole cose. Come la televisione. Mi fa arrabbiare che non riesco più a guardarla, con tutti questi comandi, questi pulsanti.. e quando non ci riesco.. il fatto è che sono sola, e non so a chi chiedere.

venerdì 24 dicembre 2010

palazzo gnudi


Si muovono sinuosi. Si spostano senza peso con gesti lenti e avvolgenti, poi rapidi e sincopati. Le gambe di lei svolazzano tra quelle di lui disegnando costellazioni nell’aria. I corpi si sfiorano, quasi mai toccandosi realmente. Intorno a loro altri corpi sono pervasi dalla stessa carica sensuale, posseduti dall’energia della notte. Scorrono leggeri su gesti sublimi. Un formicolare di corpi, ogni coppia è un microcosmo, un disegno preciso tracciato da piedi e gambe, un ricamo evanescente sul pavimento. Eppure ognuna di esse è la voce di un coro muto.
È un guscio di lusso antico quello che li circonda. Un salone dalle pareti ricche di luci e ombre. Grandi specchi, paraste con putti paffuti, cornici dorate, volute, panche rivestite di eleganti stoffe. Due lampadari di cristallo scendono dalla volta affrescata.
In questo momento nulla esiste al di fuori di qui. Il mondo ha smesso di esistere, vaporizzato all’istante, addormentato in un lungo respiro. Fuori dalle finestre piove, ma non lo fa realmente. È come un’interferenza su una pellicola messa in pausa, un rumore rosa che copre tutto. Questa è la torre d’avorio e fuori non c’è più nulla.
Finchè non finirà. E allora i volti torneranno ad essere quelli di sempre, i corpi si nasconderanno dentro giacche e cappotti, gli occhi torneranno razionali, le parole gusci vuoti. Lasceranno vuota la sala, talamo stropicciato e sudato, per tornare ognuno dentro la propria vita.
Chiameranno ciò che li attende fuori Bologna.
E ciò che è successo tango.

domenica 19 dicembre 2010

noir


Mi affaccio al balcone. Fuori l’aria è leggera, aria di mare, nonostante la calura di fine agosto. Sotto di me si stende il grande parco de la Ciutadela, con le sue palme, i suoi giardini, i suoi padiglioni inizio secolo. Lo zoo che dal buio alza il suo coro di grida e versi.

Alla mia destra il Tibidabo campeggia sull’orizzonte, fiammeggiante come pietra lavica, immensa scultura d’ambra. Ai suoi piedi la città scivola verso il mare. Una colata solida di pietra e vetro che un firmamento personale di luci artificiali fa vibrare nella notte.

Vedo la grande fenditura della Diagonal, risalire fino a perdersi tra gli edifici, su verso la zona delle esposizioni. La Meridiana. A ritagliare l’orizzonte il Mont Juic, la Gabicce olimpica catalana. Davanti a me il Barri Gotic, ed il Raval più in fondo. L’Eixampla.

I miei occhi perdono i dettagli di ciò che conosco, persi nell’aura sulfurea che avvolge la città di notte, quella nube di vapori che aleggia sui tetti e per le strade come in un film noir.

E mentre dietro di me arrivano gli aromi di uno spuntino a base di pesce e martini rosso mi godo la tua bellezza, come qualcosa di perso e per sempre magnifico.

dia 14: barcelona


Il treno scende lentamente lungo la ripida parete del Montserrat. La cima si allontana dietro di noi mentre scorriamo lungo la pietra liscia. Intorno facce da turisti, da camminatori, da passeggiate fuoriporta. Scendiamo alla stazione di Monestir e prendiamo il treno in direzione Barcellona. Ci sediamo e il rimo accelera. Intorno il paesaggio cambia rapidamente, molto più di quanto non abbia fatto in tutti i giorni precedenti. Lo sentiamo addosso. Le voci cominciano a mischiarsi, gli accenti e le lingue a sovrapporsi. Il finestrino proietta un film fatto di sequenze accelerate che passano dalla montagna al paesaggio della valle, dalla vuota campagna ai sobborghi sub-periferici. Il vetro mi ipnotizza, non lascia tempo al mio cervello di respirare, lo bombarda con una serie di scenari mutevoli e colorati, degradati e naturali.

La mia mente torna indietro a qualche sera prima, ad Artès. A quel televisore piazzato sopra le nostre teste che, dopo giorni di astinenza e vita a velocità-uomo, aveva risucchiato ogni parola, ogni pensiero, ogni respiro. Siamo stati fagocitati dai colori LCD di un monitor piazzato nell’angolo di un bar, alla periferia della zona industriale di un paesino sparso in mezzo al nulla. Come la mela del peccato nel Paradiso Terrestre. O miss Italia nel Bronx.

Guardo il finestrino e non posso far a meno di pensare che la velocità, in ogni sua forma, abbia questo risultato. Privando l’uomo del tempo necessario a metabolizzare ciò che succede, decodificarlo e digerirlo, lo rende una pedina in una galleria del vento. Un kamikaze lanciato nella sua storia personale. A inseguire ciò che invece dovrebbe costruire.

Prima di arrivare in città le sinapsi son già tornate a elaborare simultaneamente più dati, a processare rapidamente gli stimoli.

Resta giusto un po’ di silenzio, tra gli ingranaggi del cervello, eredità di due settimane di vagabondaggio.

venerdì 17 dicembre 2010

eredità


Come un’eredità. L’eredità dei padri. L’eredità dei conterranei, di chi ti circonda.

Pensavi di essere diverso, migliore, più saggio e semplice e invece poi ti scopri non all’altezza di quel che credevi. Non così puro. Non così profondo.

Ti guardi, e in trasparenza vedi loro, i tuoi esempi negativi, che piano piano hanno solcato il loro DNA in te. Come un rapporto di figliolanza, ci siamo convertiti in quel che da sempre tentavamo di non diventare. Un declino impercettibile ma costante e continuo.

Ti guardi allo specchio e le rughe son le stesse. Quelle del disinteresse umano che ti circonda.

mercoledì 15 dicembre 2010

alberi di ferro


A volte sembra che questa dannata carestia sentimentale derivi dall’abitudine alla privazione. Come se della nostra grandezza spirituale avessimo fatto un bonsai, potando sistematicamente i nuovi getti e le nuove gioie. Come alberi cresciuti di ferro.

domenica 28 novembre 2010

la cura del silenzio


Mi rendo conto ora del grande cambiamento.

Me ne rendo conto quando guardo la gente ai concerti parlare e impedirti di seguire la musica. Quando guardo un branco di esseri umani radunati sotto un tetto, con una decina di piccoli che scorrazzano, e tutti fingere di ricoprire al meglio la loro parte sociale. Vedere la meschinità che avvolge come un pullover le anime nude dei nuovi genitori. Me ne accorgo guardandoti mentre mi parli di cose che non voglio sapere, di progetti cui non voglio prendere parte, di idee che non condivido. Quando sento imberbi raccontare con noncuranza della fatica fatta per rompere il proprio cellulare e ottenere così quello ultimo modello del padre. Bambocci che danno aria alla bocca dall’alto degli agi della loro famiglia. Demonizzare i nemici politici come fossero razze o categorie che incarnano stupidità e depravazione morale.

Mi ribolle il sangue a sentire parole vuote cercare di strapparmi altre parole vuote. Cercare di rompere la mia parsimonia verbale, la mia lotta contro la futilità del dialogo. Il mio sciopero della comunicazione contro una società che non amo e non desidero.

venerdì 26 novembre 2010

sono come me


Giuri che a te non succederà.

Li guardi. Guardi i loro modi di fare cinici, la loro disumanità, la misoginia e la misantropia. Osservi i tradimenti, le bugie, i suicidi morali e la perdita di ogni etica. Li vedi abbassarsi al dio del profitto, azzerare le riserve di desideri, prosciugare i sentimenti.

E non ti capaciti di come ci si possa ridurre così, come certa gente sia arrivata a barattare l’umanità con l’animalità. Come abbiano potuto scegliere di infilare la loro vita su binari fatti di una routine così rigida e miope che li porterà inevitabilmente all’insoddisfazione, al rimorso, alla rabbia e poi alla violenza. Non ti spieghi dove abbiano perso la loro giovinezza, con cosa abbiano barattato la luce che avevano negli occhi.

E poi basta poco. Basta qualche anno con loro, qualche mese di lavoro, un tempo di stenti morali senza respiro e succede. Succede che guardi la sera prima e la condanni con poca forza, sapendo che non è altro che un gradino della serie. Guardi il tuo cervello appoggiato dietro al monitor senza rabbia, in attesa di spegnere tutto e tornare a casa. Coltivi la solitudine, annaffiandola ogni sera con distillati di ore inutili.

E ti scopri esattamente come loro.

mercoledì 24 novembre 2010

dia 13: manresa



Al di sopra ombrelli di fronde nascondono il cielo, fagocitano la luce, comprimono l’aria.
Sotto le gambe terra umida, humus fertile, erba a tratti.
Intorno tronchi, cespugli, erbacce. Un doppio portico in pietra, un edificio medio novecentesco. Poi un portico di viti, un edificio in metallo, un laboratorio di cucina sperimentale. Il selciato in cemento, il centro congressi extralusso, i padiglioni moderni.
E lontano, cuore di tutto, il monastero di San Fruitos de Bages.
Nella calura soffocante del primo pomeriggio non possiamo far altro che trovare riparo qui, sotto gli alberi di questo complesso di classe. Sdraiati al suolo, con la schiena sugli zaini, le gambe imperlate di sudore a contatto con la terra, sciami di zanzare a banchettare su di noi che ormai neanche più ce ne curiamo.
Respiriamo piano. Limitiamo la comunicazione. Un goccio di acqua (rubata dai bagni del centro congressi) ogni tanto. Aspettiamo che il sole smetta di far cuocere questa terra per ripartire.

giovedì 18 novembre 2010

dia 12: artès



Seduti guardiamo la luce del tramonto scolorare le colline a nord di Artès. Dietro di noi stanno i resti di un terrazzamento murario, contrafforti e archi. Al di sopra una piazza spoglia.

La vecchia piazza di Artès domina il paese dalla sommità della collina. Ai lati le case si diramano scendendo le pendici che portano verso sud. Ma sono case senza vita. Le tapparelle sono forate, sporche, rotte. I vetri in frantumi, le facciate coperte di polvere e scrostate. Uno spazio nobile che ora non è altro che il retro di un paesino alla periferia delle città catalane.

E a incarnare tutto ciò ci pensa il campanile della chiesa.

La bandiera catalana campeggia oziosa sulla punta del timpano, mentre al di sotto due lunghe aperture espongono le campane ai quattro venti. Più sotto non resta che un affascinante muro, modulato da una piccola porta e dal principio di un arco.

Austero e cieco il campanile si stira nelle luci crepuscolari dell’orizzonte, guardiano di una cattedrale di sogni che non c’è più.

domenica 14 novembre 2010

riduca la velocità


E così via. Piccoli inutili drammi quotidiani che rotolano sui fogli del calendario, giorno dopo giorno. Finesettimana che si alternano come parentesi di lucidità e allegria, troppo corti e costretti per essere realmente liberi.

E poi, inevitabile come il libro dopo il prologo, arriva il danno. Come se tutta questa polvere alzata non fosse stato altro che un’introduzione al disastro vero. Alla mattanza morale.

E ci si domanda se prima, quando tutte le inezie eran nell’aria, pulviscolo cosmico araldo di cataclismi futuri, non era il caso di ripulirli. Di spolverare un po’ questa vita prima che ci desse l’allergia.

sabato 13 novembre 2010

dia 11: l'estany



L’abside del monastero di Santa Maria de L’Estany è una sorta di miraggio dopo chilometri di boscaglia e assenza di paesaggio antropizzato.

Ci attende una signora che dovrebbe fornirci, per conto dell’arcivescovato di Vic, un posto dove dormire per la notte. Apre il portone sul retro della chiesa, saliamo due rampe di scale e poi apre un’altra porta. Nel cuore del monastero Trecentesco, a pochi centimetri dal transetto, quello che ci aspetta è un monolocale completamente nuovo. Cucina che si apre con una finestra, un foro nella muratura ciclopica, sul giardino absidale, tavolo rotondo in legno sbiancato, divano-letto, bagno e soppalco in legno d’abete con grande letto matrimoniale. Due lucernari zenitali portano la luce nel soggiorno e sul soppalco. Allucinante. Non potevamo chiedere di meglio.

La signora si offre inoltre di portarci qualche verdura dall’orto, visto che siamo a corto di provviste.

E così, dopo un rapido giro per il paesino e una doccia bollente, ci prepariamo a mangiare.

Sul tavolo una favolosa zuppa di verdure calda, sei birre e le nostre credenziali, mentre fuori, come se ormai fosse diventato un rito, la pioggia scende a portare la notte.

dia 10: vic



La Plaça Major di Vic è un rettangolone perimetrato da eleganti edifici porticati dove strette finestre gotiche si alternano a loggiati e facciate di epoche successive. Ciò che incuriosisce non è però la stratigrafia delle facciate quanto l’anomala semplicità della piazza in sé.

Essa è costituita da un anello pavimentato che borda il grande spazio poligonale centrale in terra battuta. Ossia. Ciò che comunemente viene valorizzato, ciò che si tenta di esaltare soprattutto in uno spazio dalla composizione così focalizzata come nel caso di una piazza rettangolare, il centro, è proprio l’unico elemento su cui l’uomo non ha imposto le sue trasformazioni. Un corollario di colonne e archi, pietra e vetro, luci e ombre, costituisce il merletto di un centrotavola non ricamato. Un buco nella piazza che mostra un mondo primigenio costituito di terra.

Che poi questa venga eclissata sotto le infinite mercanzie dei bazar settimanali, delle folle manifestanti o delle rievocazioni storiche è cosa di poco conto.

Ciò che ci affascina, mentre tramonta il sole, è un foro nel cuore del mondo civile.

dia 9: cantonigròs



Sdraiato sul prato di fronte alla chiesa guardo il cielo ed il sole rovente del primo pomeriggio. “Ci sono luoghi che valgono tutto un viaggio”, penso.

Il cammino è cominciato dopo l’alba ripercorrendo la Via Verde per una decina di chilometri verso sud, e poi abbiamo risalito di colpo centinaia di metri per abbandonare la Vall de Bas. Una serie infinita di tornanti su un sentiero asfaltato immerso nel bosco. Un’ora di salita ripida col sole a ricordarci che è agosto. Poi finalmente abbiamo scollinato e non vedevamo l’ora di trovarci di fronte al piccolo paesino dove poter trovare un forno per approvvigionarci. E invece no.

Dietro l’ultima curva, superata la cresta, il sentiero torna ad essere di polvere e sassi, bordato di staccionate per il bestiame. All’orizzonte si vede la sagoma delle prime costruzioni del nucleo abitato. Due grandi case in pietra su due piani, una stalla e la tozza chiesa col suo campanile.

Entrati in paese, affamati e pronti a fiondarci su qualsiasi fonte di ristoro, aggiriamo la casa del fattore e guardiamo verso valle. E quello che vediamo sono campi. Campi, sole e vegetazione rigogliosa.

Il paese non esiste. Il presidio umano su questo picco che domina le vallate circostanti è costituito dalla casa degli allevatori con i suoi campi e la sua stalla, e dalla splendida chiesa abbandonata di Sant Pere de Falgars. Punto.

È in questi momenti che lo sconforto si trasforma in risorsa inaspettata di meraviglia. La distruzione di un’aspettativa avviene per mezzo di un luogo così splendido e senza tempo che l’unica risposta che il fisico provato riesce a dare è lo stupore. Ed una felicità fisica ebete.

Ci sediamo all’ombra del vecchio casolare su un soffice manto d’erba. Alla nostra destra un basso muro di pietra incornicia il cancello in metallo con la croce. Ai suoi lati, pochi passi più in là, due alti cipressi fanno da guardia al portone in legno della chiesina.

Davanti a noi, dietro una staccionata bianca tirata tra la parete della chiesa e il nulla, i campi scendono lievi verso nord. Poi improvvisamente si inabissano in un profondo dirupo ed una stretta gola, oltre la quale si stende la Vall de Bas fino ad Olot.

E qui, su questo disco di terra verde che sembra galleggiare sul vuoto delle valli circostanti; qui, dove la civiltà non arriva se non come rudere e memoria, come tradizione antica e millenaria del coltivare e allevare; qui, dove tutto ciò che esiste è una casa e una chiesa, proprio qui, tra lo steccato e il nulla, dorme un piccolo cimitero. Assurdo, a pensarci. Eppure unico monumento degno del silenzio e della pace di questo luogo.

A proteggere la tomba del fondatore coi suoi cipressi gemellati, sta un alto muro con un cancello in metallo. Ai lati due prismi in pietra serena recitano muti un pensiero lapidario.

“Venite a giudizio”.

venerdì 12 novembre 2010

dia 8: olot


Finalmente appoggiamo il culo per terra e tiriamo il respiro. Come se avessimo cercato a lungo un posto degno per farlo. E questo, senza dubbio, lo è.

Certo, la fageda, l’esteso faggeto che si estende a sud-est di Olot ricoprendo le pendici dei suoi vulcani inattivi, era ricca di fascino. Verde brillante, la sua terra ricoperta di erba e muschio, l’Irlanda in trasferta. Alti e svettanti i suoi faggi, tanto fitti da nascondere completamente la luce del sole, creando un articolato tetto vegetale. Un dedalo i sentieri che vi si addentrano, senza punti di riferimento né segnali.

Ma è sul Motsacopa che il mio animo segue il fisico e decide di sedersi.

Sul lato nord-ovest del nucleo antico di Olot, a poche centinaia di metri, si trovano le pendici troncoconiche di tre dei numerosi vulcani ormai spenti che circondano la cittadina. Quello centrale, più piccolo degli altri, si alza al di sopra della Plaça Major. È il Motsacopa.

Un cammino di ronda passa sul perimetro del cratere mentre al di sotto un bacino verde rigogliosissimo costituisce il cuore del vulcano. È proprio qui, nell’erboso centro del bacino, che le nostre stanche membra si posano al tramonto. Mentre intorno si alza il vento freddo delle sere d’estate e il cielo si copre di nubi, protetti dalle fauci del vulcano guardiamo in controluce la chiesa costruita sulla bocca del cratere.

Le mani toccano l’erba, gli occhi fissano il cielo e le parole scorrazzano libere per queste terre.

martedì 2 novembre 2010

dia 7: olot



Ed eccomi finalmente solo.

Davanti a me un nastro di terra si snoda per una trentina di chilometri verso nord, distaccandosi dal letto del Ter e risalendo la Vall d’en Bas fin dentro alla regione vulcanica della Garrotxa.

E' già mattino tardi quando lascio il paese con passo spedito, fagocitando il paesaggio al silenzio ritmato dei miei passi e del respiro. Intorno il bosco si fa più fitto, si alza su pareti di roccia lasciando sotto il solco del sentiero, l'antico tracciato del treno.

I calendari dentro le case dicono che è domenica di Ferragosto e il cammino è praticamente deserto. Eppure mi sento tutt’altro che solo. Lo ero molto di più i giorni scorsi, quando eravamo in due a tracciare scie sulle cartine della Catalogna. La solitudine ed il silenzio, la natura tutt'intorno, la leggera bruma che sale ancora dalle ombre selvatiche mi fanno sentire parte di tutto questo che mi circonda.

Poi un passo emerge dall'assenza di suoni artificiali. Dietro di me le parole di qualcuno che si congeda e poi, rapidamente, si incammina nella mia direzione. Dopo qualche minuto i passi mi hanno raggiunto e allora sento: “Que buen paso llevas”. Mi volto e vedo un signore in tuta sportiva avvicinarsi amichevolmente. “Già – rispondo – bisogna che mi muova se voglio essere a Olot per sera”. “Beh, di questo passo non avrai molti problemi”.

Più di un’ora dopo, fermandomi alla chiesa di Les Planes d’Hostoles per una piccola merenda, saluto il mio amico occasionale. Seduto a cavalcioni del parapetto del nartece, con il sole in faccia, non posso fare a meno di pensare a come la solitudine in certi casi generi società più di quanto faccia un gruppo. In tutti i giorni precedenti in due non abbiamo conosciuto un solo abitante. Ora, una manciata di minuti dopo essere partito in solitaria, ecco arrivare il primo compagno di viaggio. Insperato.

La condivisione della stessa solitudine ci ha avvicinati. E la parvenza di uno stesso cammino.

venerdì 29 ottobre 2010

dia 6: amer



La Via Verde risale lungo il corso del fiume fin dove le nuvole si fanno più nere.

Ed è all’ingresso di Amer che si incontrano.

Il primo passo sul selciato antico del paesino viene battezzato da uno scroscio del cielo. Ancora una volta, come un’amichevole pacca sulle spalle, come se si fosse trattenuta appositamente fino all’ultimo, la pioggia cade su di noi a sera, sugli ultimi chilometri della giornata.

Sul bordo dell’abitato un tetto a ponte tra due edifici copre la stradina. Ci ripariamo un attimo ed entriamo in paese. La piazza principale, un bell’esempio di spazio porticato in pietra, circondata da edifici signorili, è gremita di gente. Stasera è la serata conclusiva della feria, la sagra di paese, e tutti sono in fibrillazione. Ci rechiamo in Comune per vedere se ci possono ospitare, ma i preparativi e l’imprevisto pioggia hanno totalizzato l’attenzione dell’unico funzionario. Facciamo quattro chiacchiere con la mezza dozzina di ragazzi che si trovano lì, incuriositi da questi due occhialuti cenciosi, che si presentano alla loro porta con zaini e tenda a seguito, e poi ci rechiamo alla pensione.

Doccia, cena e letto. E le voci della festa si spengono sotto lenzuola stirate e coperte di lana.

giovedì 28 ottobre 2010

dia 6: melodie sospese


Dopo aver raccolto le acque della regione vulcanica della Garrotxa e del basso Pireneo il Ter scende verso il mare. Una sessantina di chilometri prima di vedere l’alba nel Mediterraneo abbandona le valli strette e si adagia in una larga e fertile lingua di terra, un declivio che serpeggia verde e rigoglioso fino alla periferia di Girona. È qui che, senza preavviso, ci ritroviamo nell’America coloniale.

Mentre camminiamo attraverso una ricca ed alta vegetazione, ancora frastornati fisicamente e mentalmente dalla quantità di chilometri macinati il giorno prima, delle visioni oniriche spazzano le nostre retine dagli ultimi ricordi urbani. A lato del sentiero battuto,appena oltre un cordolo di terra e sacchi che canalizza l’acqua del fiume intorno agli orti, crescono piantagioni di neri. Nel sole del sabato mattina, avvolti nei loro abiti tradizionali, si aggirano per gli orti, raccolgono le loro verdure in carrelli dei supermercati, su mountain bikes, in passeggini. Colorati e silenziosi si piegano a raccogliere il frutto della terra. Ed è un attimo aspettarsi un canto, intonato dal lontano Ottocento e mai spento. Un canto di gloria e sofferenza, una melodia malinconica intonata da sorrisi d’avorio.

E invece niente.

Evidentemente la civiltà ha colpito anche loro, epidemia necessaria ed inevitabile del vivere moderno.

centimetri quadri


Sono lì che cerco di affogare il tempo con il solito inutile schema, che non ha mai portato a nulla di buono ma che continua a prendere possesso di me quando abbasso la guardia. Guardo lo schermo e le mie azioni sono al rallentatore. Il timoniere della mia nave a quanto pare è andato a sbronzarsi da qualche parte ed io son rimasto qua, a manovrare da solo sartie e issare vele senza saper dove andare. E gli occhi non mentono. Spenti e fissi, appoggiati su un orizzonte molto vicino.

È in quest’apatia che un pensiero, forse nascosto nella stiva, naufrago reduce da chissà quali avventure, si insinua nella mia mente, scalzando il vuoto, chiudendo la porta dietro di sé.

Ecco perché essere nomadi aiuta. Ecco perché sento il bisogno di tornare a viaggiare quando le insoddisfazioni si ammucchiano, calcificandosi.

Perché non avere nulla da difendere, nulla da proteggere rende più obiettivi. Quando non si ha paura di perdere qualcosa è facile essere onesti. Onesti e semplici.

E allora, almeno per un momento, vedo queste 4 righe che cerco di disegnare da ore per quel che sono. Vedo finalmente le mie mani, fuori dalle icone virtuali. Le facce intorno a me, assorte e concentrate. La luce che penetra il policarbonato rendendo lattiginosa l’aria dello stanzone a doppio volume. Vedo, senza occhi, i tetti delle case, il Comune, la stazione. Vedo colline, boschi e cieli. Vedo improvvisamente tutto quello che non è qui, l’immensità del reale. E poi torno sullo schermo. Ed è un sorriso quello che spazza il cuore.


“Se sei pronto a lasciare il padre e la madre, e il fratello e la sorella, e la moglie e il figlio e gli amici, e a non rivederli mai più; se hai pagato i tuoi debiti, e fatto testamento, se hai sistemato i tuoi affari, e se sei un uomo libero, allora sei pronto a metterti in cammino.”

“Vorrei, nei miei vagabondaggi, far ritorno a me stesso.”

H. D. Thoreau

lunedì 18 ottobre 2010

dia 5: girona



Ancora una volta persi. È da 3 ore che vaghiamo nell’assolata terra della provincia di Girona in cerca di un segnale ufficiale del cammino, di un cartello. E invece non riusciamo a far altro che rimbalzare da un paese all’altro, approssimativamente vicini al percorso ufficiale.

Finchè non arriviamo all’ennesimo cantiere dell’alta velocità. Un grande viadotto appiana la depressione fra due colline con una linea netta e precisa di cemento armato.

E allora non può non tornarmi alla memoria “Il sentiero degli Dei”. Ancora una volta le grandi opere cancellano i piccoli sentieri, il cemento disperde i viandanti, una velocità impensabile azzera la naturalezza di un passo che ha il ritmo del respiro ed il tempo del pensiero. E ciò che resta, traccia glabra sulle curve naturali, è una lingua disboscata di terra che le piogge han trasformato in un pantano inattraversabile.

Mentre intorno cresce lo sconforto per la rotta persa, per il caldo cocente e le ore di cammino che prevedibilmente ci porteranno in città disfatti a tarda sera, dentro cresce un senso ancora maggiore di disfatta. Quella di chi si sente privare di bellezze naturali, di un patrimonio collettivo vivo, in nome del progresso.

martedì 12 ottobre 2010

dia 4: pontòs



Acqua. Acqua. Acqua acqua.

Pioggia battente ed incessante da ore e ore sulle nostre teste. Non abbiamo un solo lembo di corpo o di vestiti che non grondi sotto questo cielo grigio. E poi fango, strade sterrate, occhiali appannati. Tutta questa pioggia ci sta fiaccando più che nel fisico nel morale.

È da pranzo che ha cominciato a piovere. All’inizio ci siamo riparati sotto il tendone del bar di Figueres, poi dentro la cattedrale, mentre un fiume scorreva rapido per il selciato e metteva in fuga la folla in coda per il museo Dalì. È stato lì che, approfittando della sosta forzata, siamo riusciti ad ottenere le ultime 2 credenziali disponibili prima di arrivare a Girona. Ripreso il cammino, appena attraversato il quartiere industriale un diluvio si è abbattuto su di noi. Intorno non c’era un riparo. Un terrazzo, una pensilina, un albero. Niente. Quello che restava erano campi, una rotonda ed un filare di case sulla sinistra. È stato lì che, appiattiti con lo zainone alla parete della casa, insperatamente ci è stata aperta la porta di un androne e siamo stati invitati a entrare. Quattro chiacchiere con un simpatico signore, qualche indicazione per non perderci e poi via, nuovamente sotto la pioggia battente. E così dal primo pomeriggio stiamo camminando in questi campi, continuando a dubitare ogni qualvolta i segnali scompaiono per qualche tempo.

È ormai tardi e sta scendendo la sera dietro le nubi quando ci perdiamo per l’ennesima volta poco prima di entrare nel paesino che dovrebbe accogliere la nostra pensione, a Pontòs. Stremati ed inzuppati rasentiamo le pareti del paesino, tentando di capire come arrivare alla statale ed alla nostra meta. Anche perché in paese non c’è un’anima viva, né tanto meno qualche negozio aperto. Mentre sfiliamo come gatti di cellophane per la strada principale intravedo qualcosa e d’istinto mi fiondo dentro a una porta illuminata. È l’Ayuntamento, il Comune, stranamente aperto a quest’ora tarda. Ormai senza più remore appoggio lo zaino zuppo al suolo e salgo al piano di sopra. Qui mi viene incontro un funzionario e mi chiede chi cerchiamo. Gli spiego che siamo pellegrini e che vorremmo sapere se ci sono pensioni aperte in paese. Lui mi guarda di traverso e mi dice: “Non ci sono pensioni in paese”. Eppure la guida diceva che la pensione Sant’Anna … “Sì, ma quella sta molto fuori dal paese, almeno un’altra ora di cammino. E poi, in ogni caso, l’hanno chiusa qualche anno fa. Non ci trovereste niente”.

Silenzio. Il morale è finito a far compagnia ai calzetti, zuppo e sporco anche lui.

Ma tanto ormai non abbiamo niente da perdere.

“Voi non avete un posto qui in comune dove poter ospitare 2 pellegrini?”. La domanda sembra sorprendere tanto lui quanto me. “Veramente … Ma volete dormire qui?” “Guardi, non ci sono altri paesi per almeno altre 2 ore di cammino e siamo senza tetto né cibo. Se ci poteste dare un posto dove non piova…”

È così che, dopo una mezz’ora, veniamo portati in una casa-colonia. Qui un certo numero di famiglie non proprio benestanti portano i figli a passare l’estate. Accettiamo al volo il prezzo che ci propongono per la sestupla a castello, i bagni in comune, la cena e la colazione.

Dopo aver fatto una bella doccia bollente e aver messo in lavatrice calzetti e magliette, scendiamo a cenare nel grande salone dove ci aspetta una cena degna di un re. E mentre addentiamo la carne esausti e felici come non mai, dalle finestre penetra una strana luce arancione. Un tramonto sereno all’orizzonte che preannuncia una notte altrettanto serena e al caldo.

giovedì 7 ottobre 2010

dia 3: peralada




Le previsioni della guida dicevano che mancavano pochi chilometri alla meta, eppure i cartelli lungo la statale non indicano nessun paesino conosciuto. Probabilmente abbiamo perso qualche bivio, penso, e per questo stiamo camminando da diversi chilometri lungo il ciglio della strada nazionale, a lato di automobili e camion.

Abbandoniamo la carretera nacional all’incrocio con Garriguella, ormai certi di aver allungato il già lungo percorso della giornata. Percorso che era iniziato di buon ora sulle spiagge di Port de la Selva per inerpicarsi lungo la ripida boscaglia assolata che porta a Sant Pere de Rodes, monastero da cui ufficialmente inizia il cammino catalano. Una salita senza bagagli nell’afa del primo pomeriggio ci aveva portato in cima al castello che domina il monastero e tutto il golfo su cui si trova Port de la Selva, dai Pirenei al Cap de Creus. Poi la discesa nella calura pomeridiana, tra cespugli e bassi arbusti, con sentieri non segnalati, perdendoci una quantità incredibile di volte. Il bar dove avevamo fatto pranzo alle 5 del pomeriggio e da dove avevamo visto arrivare da dietro la catena montuosa nuvole minacciose e cariche di pioggia.

Ed ora eccoci qua. Dai rilievi di sud-ovest, alla nostra destra, avanza inesorabile una perturbazione nera, pesante, che si scioglie sulla pianura in scrosci diagonali. Dal mezzo di campi sconosciuti vediamo venirci incontro la tempesta, i fulmini crepare il cielo fino all’orizzonte, calare la luce della sera fin troppo presto.

Proviamo ad accelerare il passo, ma ormai le energie sono finite e le gambe procedono come automi all’unico ritmo che riescono a sostenere. La lingua è morta in bocca già da tempo ormai. Gli occhi, testimoni vigili e instancabili, continuano però a registrare tutto. La piccola collina che si innalza nel mezzo della piana, ulteriore fatica da superare. E sulle sue pendici il grande quartiere recintato con filo spinato, video sorvegliato, con polizia privata, ingresso regolato da scheda e codice. Un’enclave di ricchi raccolta intorno a quello che ai nostri occhi appare il nulla perso nei meandri dello sconosciuto.

Stiamo mettendo piede dentro il primo bar di Peralada quando il cielo comincia a scaricare intorno a noi raffiche di acqua. Privi di forze per riconoscere a parole la fortuna che ci ha assistito ancora una volta, ci sediamo ed ordiniamo una meritata birra, unico pasto della serata. Poi, rapidamente, il cielo torna fluorescente sotto le luci del tramonto. Ed il riposo è una soddisfazione fisica.

Non importa che poi Peralada risulti un paesino così ricco, turistico e d’elite, da non avere neppure una stanza libera. Non importa neppure che abbia ricominciato a piovere e che dovremo cercare un posto dove passare la notte sudati e appiccicati nel ventre della tenda. Perché ancora una volta qualcuno ci assiste e dietro l’abside di una chiesina fuori paese si trova un magnifico spiazzo in terra battuta coperto da platani, al confine tra la nazionale ed il fiume.

dia 2: cap de creus_2



Ok. Abbiamo calcolato male il caldo, la fatica, la distanza. Ma soprattutto una cosa. L’acqua.

È da ore che siamo in cammino sotto il sole cocente di agosto nella riserva naturale del Cap de Creus e non abbiamo ancora individuato il cammino ufficiale. Continuiamo a perdere la direzione, a vagare per brulli promontori che si fiondano in mare. Le segnalazioni sono praticamente assenti, il caldo ci cuoce le teste, gli zaini tirano sulle spalle, sulle clavicole. Non abbiamo cibo per ristorarci a pranzo, e l’unico centro abitato che incontreremo sarà la meta finale, stasera, a Port de la Selva. Una sorta di miraggio ancorato nella baia più grande prima della Francia.

Le borracce sono praticamente alla fine quando vediamo sull’approssimativa cartina turistica che se effettuiamo una deviazione di meno di un’ora possiamo raggiungere una piccola caletta in cui sembra ci sia una spiaggetta e la possibilità di bagnarci. Assillati dal caldo cocente e dal desiderio di refrigerio decidiamo di provare. La discesa lungo un sentiero non segnato verso una meta ignota che neppure fa parte del nostro cammino trasforma i nostri passi in una sorta di attesta speranzosa.

Finchè la vediamo. Una caletta cristallina di sassi chiari, con qualche motoscafo ancorato a pochi metri dalla riva. Buttiamo gli zaini a terra, togliamo le scarpe, le magliette e i pantaloni e ci fiondiamo finalemente in acqua.

Lo shock è istantaneo. L’acqua è ghiacciata. Freddissima e cristallina come acqua di fonte. Tanto da togliere il respiro. Un tuffo veloce e riemergiamo. Bagnati e contenti ci sediamo di fronte al mare e all’orizzonte. E mentre intorno a noi continuano ad arrivare turisti francesi che non si curano minimamente di due campeggiatori che fanno il bagno in mutande, pranziamo con i pandistelle rimasti dalla colazione.

domenica 5 settembre 2010

dia 2: cap de creus


Dev’esserci qualche forma ancestrale di feeling che si ripristina, una specie USB biologica che ci ricollega a quando il ritmo della Terra era il nostro. Perché altrimenti non mi spiego come mai i miei occhi si aprano da soli, improvvisamente lucidi dopo una notte breve passata sugli scogli, e lo facciano proprio al momento giusto. Apro la porta della tenda e guardo verso est le rocce scendere a bagnarsi nel mare. Sull’orizzonte, dove le acque sono una linea, è seduta un’aurora di pesca. Faccio qualche passo verso la riva, come se la bellezza dipendesse dalla distanza.

È allora che sorge. Silenzioso e maestoso. Piccolo spicchio all’inizio che rapidamente abbandona il mare per divenire un cerchio di luce.

Ci avviciniamo all’acqua, fredda e cristallina, mentre le pietre riprendono lentamente il loro colore. Qualcuno scende lungo le creste rocciose, si libera di ogni vestito, e si tuffa.

Intorno regna il silenzio ritmato dal respiro del mare, dalle traiettorie solitarie dei gabbiani.

il mattatoio


Un bagliore ambrato esce dalle viscere di un edificio davanti a noi ritagliando dalla tenebra l’apertura di un capannone di campagna e, di fronte, uno spicchio di fienile. Il resto è buio cui gli occhi stentano ad abituarsi.

Il capannone ha fagocitato alcuni giovani che, seduti all’ingresso, aspettano l’arrivo della gente per dare inizio alla festa. Dentro il “mattatoio” è ancora come quando veniva utilizzato, con le separazioni basse e le rastrelliere per gli animali. Un’architettura senza pregio se non quello della vita che ci si è consumata dentro, fino alla fine.

Sotto la lunga copertura di un altro edificio stanno delle tende, montate e pronte per la devastazione imminente ed il collasso previsto al mattino, dopo una notte di fine estate all’insegna di musica elettronica, alcool e fumo, luci al neon e sballo assicurato.

Faccio quattro passi nella notte, mentre una parte selezionata del popolo della Riviera comincia a radunarsi, accorrendo come api intorno ad un miele caldo e luminoso. La valle è quasi completamente nera, a stento si riconosce il confine tra le colline e il cielo senza luna. Il profumo di fieno stipato nei dintorni inebria i sensi e la tentazione di mettersi a correre nel silenzio per tuffarsi nel nulla cresce. Di lontano, sulla collina di fronte, scorgo le luci intermittenti di un’altra festa privata e il basso persistente della musica house rimbalzare fin quassù, tra le pareti del fienile e della porcilaia.

È lì che penso a quanto tutto questo affanno, tutti questi tentativi goffi e violenti di mordere la vita, non abbiano altro esito che allontanarci, renderci iene gli uni per gli altri, sciacalli di una felicità fatta di autodistruzione. Saranno forse gli occhi del vecchio che cominciano a farsi strada in una giovinezza mummificata, ma ciò che ho intorno somiglia sempre più ad un grido che, prosciugate le lacrime, cerca di soffocarsi nella notte. E’ un baratro aperto ad un passo dalla consolle.

Respiro forte e rientro.

Mentre scavalco la soglia dell'oscurità è Thoreau a parlare per me: “Quando ho bisogno di ricreare me stesso vado in cerca della foresta più buia, della palude più fitta e più impenetrabile e, a occhi cittadini, più tetra. Entro in una palude come in un luogo sacro, come in un sancta sanctorum”.

sabato 28 agosto 2010

dia 1: il faro



Guardo fuori il cielo diventare scuro e l’acqua farsi minaccia senza fondo; i Pirenei tuffarsi all’orizzonte nel Mediterraneo.

Intorno muri da montagna, aria di rifugio. Tavoli, panche, bancone, pareti tutto è in legno chiaro, intagliato, artigianale. Eppure il nostro rifugio ha un’identità ben diversa. È il faro che protegge la punta più orientale di tutta la penisola iberica. L’unico elemento della presenza dell’uomo nel Cap de Creus, riserva naturale in cui promontori che vorrebbero essere montagne risalgono dalle acque cristalline e ricche di vita del mare per arenarsi sul continente.

Sorrido, pensando all’ironica ciclicità degli eventi. A come l’anno scorso abbia cominciato a camminare da un punto a caso, nel centro del Paese , per concludere poi sull'Oceano, sotto il faro che presidia il capo più a ovest della penisola iberica; oggi mi ritrovo invece a cominciarne un altro, di Cammino, proprio sotto al faro est per terminare poi nel continente.

Sul nostro tavolo, tra cartine del parco, del Cammino, della provincia, arriva una teglia da forno con un branzino grosso come un braccio. Tutto intorno un prato di patate e pomodori.

Usciamo e ci dirigiamo verso la punta estrema, lungo i promontori rocciosi a forma di croce che danno il nome a questo luogo. Piove leggermente e questo ci autorizza, agli occhi delle eventuali autorità, a ripararci, accamparci. Scendiamo verso la massa scura del mare e piantiamo la tenda in un luogo riparato dal vento, con l’apertura rivolta all'ipotetico est. Il vento risale il pendio scuotendo la tenda nella notte, mentre la pioggia tamburella il suo blues sulle nostre teste.

E il sonno arriva, senza fatica né paura.

venerdì 27 agosto 2010

dia 0: taxi driver


La piazzola di fronte all’aeroporto è deserta. Gli altri passeggeri stanno tutti salendo sull’ultimo aerobus che li aspettava per portarli a Barcellona. Il nostro, a quanto pare, non è stato altrettanto clemente. Il prossimo parte tra 4 ore, alle 5 del mattino. Provo a proporre un accampamento istantaneo nel piazzale, in attesa del primo bus, ma la proposta viene rifiutata.

Due ragazzi, le uniche altre sagome all’esterno dell’aerostazione, stanno fumando davanti all’ingresso, evidentemente indecisi anche loro sul da farsi. Ci avviciniamo e domandiamo dove vadano e se vogliono dividere con noi il prezzo del taxi. Il ragazzo ci guarda con occhio di scusa e risponde che parla solo catalano. Allora si fa avanti la ragazza e dice che la loro meta è Figueres, ma che volendo possiamo chiedere di fare una deviazione su Girona. In quel momento si materializza alla fine della strada un taxi che ci si ferma davanti. Dopo un rapido scambio di battute in catalano piazziamo i bagagli in macchina e partiamo.

L’auto sfreccia nella notte, si infila nelle strade del centro e ci lascia in Plaça de Catalunya, una piazza a ponte sulle acque del Ter. Paghiamo più del dovuto ed infiliamo finalmente la porta dell’ostello. Considerato che il check-in chiudeva alle ore 23.00 e sono le 2.00 il ragazzo dietro il bancone non fa una piega, snocciola in uno spagnolo stentato le poche norme del luogo e poi ci porge in inglese le lenzuola per la notte.

La porta del terzo piano si apre su un corridoio colorato popolato di fantasie in bianco e nero che dormono sulle pareti. Appoggiamo gli zaini cercando di non svegliare i nostri compagni di stanza ma non riusciamo a trattenere un moto di disgusto quando vediamo il bagno: davanti a noi si erge un altare in pietra, ricavato in una profonda nicchia nel muro decorata con motivi geometrici dorati. Sul piano dell’altare è stato intagliato un bacino dal quale emerge il rubinetto del lavandino. Ci giriamo schifati e ci fiondiamo a dormire.

domenica 8 agosto 2010

meno uno


Queste partenze sono sempre più strane. Le ore che le precedono sono dei passaggi nel vuoto, dei respiri assorti prima dell’apnea. Come se fosse impossibile cambiare vita senza un’anticamera di silenzio. Pronti per il salto nel vuoto.
Perché davanti non ci sono che ipotesi di futuro pronte ad essere modificate, ricami ideali labili ed evanescenti come un’ombra tracciata al suolo. Solchi cancellati dalle maree.
Ciò che è certo è il desiderio di partire. Di tornare a scoprire l’essenza della nostra umanità e bestialità. Tornare a immergersi in quel mondo che l’eccesso di società cerca di annullare rendendolo sterile oggetto di mercato. Perché è proprio quando si torna allo stato di natura che si scopre che la supremazia del Creato ha ancora il potere di evocare l’Infinito.

sabato 24 luglio 2010

puntina


Ci passi giorni su quella sensazione, come una puntina di grammofono su un disco incantato, senza capire bene cosa sta leggendo. Lo ripete, instancabilmente, una nenia da vecchio paranoico. Alla fine, a furia di non capire e di cantilenare gli stessi versi, è la puntina che si sente presa in giro dal disco, incastrata nel suo roteare circolare e infinito.

E così tu. Assorbito da una nube di sensazioni che non riconosci, che stanno dentro di te ma che non riesci ad interpretare, che ti prendono per la gola invece che per mano. Schiavo di un mancato linguaggio di conversioni tra il tuo corpo e te, tra il tuo io interiore ed il tuo io cerebrale.

È lì che ti chiudi nel silenzio, convinto che escludendo il resto, ripulendo l’aria dal rumore del mondo e concentrandoti sulla tua musica, quella musica che tale non è più, distillando le tue parole inespresse possa arrivare a capirle.

E non è che tu non le veda le facce di chi ti sta intorno, di chi ti guarda tentando di aiutarti a uscire da quel vortice, a decifrarti. Ma è un affare che non li riguarda. È un affare tra te e i tuoi demoni interiori.

È una sfida eterna, ancestrale e infinita.

giovedì 1 luglio 2010

boiler a pressione


Mi ricordo perfettamente.

La luce giallognola sulla mia testa, il tavolo aperto, grande nel piccolo tinello. La TV sul mobile, spenta, e fuori il buio invernale. Io stavo chino sul quadernone a righe. Impugnavo la penna con rabbia e frustrazione crescente. La sentivo salire dentro di me, montare fino a sibilarmi nelle orecchie. E allora sbottavo. Scoppiavo e lanciavo tutto per aria constatando l’esito delle mie follie riflesso nello schermo cieco del televisore.

Son passati anni. Tanti che quasi non riesco a crederci che ero io quel bambino seduto sulla sedia di paglia. Sembra la vita di qualcun altro che mi è stata raccontata e io mi ci sono immedesimato. Ricordando dettagli, colori delle penne, dimensione delle righe, taglio di capelli, atmosfera.

Son passati anni. Eppure certe cose non cambiano.

Cambiano gli oggetti, le parole, l’espressione eclatante dei gesti. Ma la base, la radice, quella è rimasta la medesima. La rabbia per ciò che mi fa sentire inadeguato, insoddisfatto, frustrato, che corre sotto pelle, paralizzando la lingua, inamidando il cervello. E cresce. Cresce in un fremito che presto non si può trattenere, sbuffa e scoppia spargendo intorno a se schegge di piccole violenze e brutalità.

Son passati anni. E sono ancora io. Quel bambino che faceva le elementari e chiedeva solo di stare al parco a tirar calci ad un pallone.

venerdì 18 giugno 2010

vestite a festa


Ascolto parole il cui sapore riconosco. Parole che suonano familiari nella mia bocca. Parole che mi compiacciono. Parole di ambizione ed intraprendenza.
E le sento fastidiose, irritanti, scomode e vuote come falsità vestite a festa.
Il mio pensiero va ai giorni, alle settimane che scompaiono dietro di me rapide e invisibili, fagocitate dai carichi di lavoro e dalla smania di divorare la poca vita rimasta. Va agli attimi di respiro affannato e convulso in cui si tenta di assaporare tutto. E mi chiedo cosa vale.
Le lingue. Le città, le nazioni, le persone, le foto, le luci, i suoni, le chitarre, le canzoni, i cibi, gli alcolici, le notti, le ore insonni, i letti disfatti, le mattine da coglioni, i chilometri divorati, gli aerei, i treni, le auto, le bici, i piedi. I progetti. I desideri fuggenti e arraffati.
Cosa vale? Cosa? Quale pietra fonda la mia casa? Da che arco devo cominciare a decorare la mia vita?

garden state


-Sai quando arrivi a quel punto della tua vita in cui ti rendi conto che la casa in cui sei cresciuto non è più casa tua? Improvvisamente anche se hai un posto dove mettere le tue cose l’idea di casa non esiste più.

-Io sto ancora bene a casa mia.

-Vedrai, un giorno quando te ne andrai, di colpo non ci sarà più. Non potrai tornare indietro. Come avere nostalgia di un posto che neanche esiste.

Probabilmente è un momento di crescita. E non proverai più quella sensazione finché non ti creerai una nuova idea di casa per te, per i tuoi figli, per la tua nuova famiglia. Una specie di ciclo.

Non so, è il concetto che mi manca.

Forse una famiglia è proprio questo. Un gruppo di persone che hanno nostalgia di un posto immaginario.

martedì 8 giugno 2010

l'orecchia


Tutto scorre normale e fluido sulla lingua, mentre la serata avanza. Un ballo sinuoso di parole, una coreografia di gesti e pensieri. Tutto turbina e svolazza.

Finchè un dettaglio, un elemento da nulla, la piccola orecchia nel grande libro della vita, mi colpisce. E mi marca l’anima a fuoco.

Indietro non si torna. L’inganno è svelato e la superficie dei pensieri spazzata via con brutale efficienza. E il mondo torna un luogo solitario, malinconico e scuro.

domenica 30 maggio 2010

nella mia terra


- Quindi pensi di tornare in patria, prima o poi.

Lui mi guarda fisso negli occhi, e mi risponde tranquillo, senza un attimo di incertezza.


Intorno al tavolo si incrociano varie lingue, dando vita a musiche diverse. La colombiana che racconta del suo master in diritto penale a Bologna, l’infermiera di Jaen in vacanza, il turco che dopo l’Inghilterra e la Grecia si è stanziato in Andalusia, il mio ex-compagno d’appartamento di Granada, le ragazze pugliesi, la mia compagna d’appartamento iraniana che discute sulle sorti del suo Paese. Le voci si rincorrono sull’assolo dei Doors.

È allora che guardo gli occhi scuri e i capelli rasati del ragazzo turco e gli chiedo se pensa di tornare in patria, prima o poi.

- Non ho nessun dubbio. Voglio morire nella mia terra.

giovedì 27 maggio 2010

dune du pilat


La pineta improvvisamente si dirada, ma quello che scorgiamo trai tronchi non è il cielo all’orizzonte. Una parete immensa, altissima, senza sponde si staglia davanti a noi e alla macchia. Una colossale montagna di sabbia. Una gigantesca duna.

Una scaletta traccia debole la geometria umana su ciò che sembra non avere confini. Noi la percorriamo, salendo sul fianco della duna ed immaginando senza immagini la segreta parte di mondo che ci si aprirà di fronte.

E in cima lo stupore è assoluto.

L’immensa massa di sabbia degrada dolcemente in piccole dune per circa quattrocento metri fino a ricongiungersi con l’oceano gelido di cobalto. Una secca, un’isola intermittente, embrione di una nuova duna, si espande con forme organiche nell’acqua. Alla nostra sinistra si innalza in colline disegnate dal vento, sconfinata, fino all’orizzonte, la grande massa di arena.

Le distanze non esistono, quello spazio privo di ogni oggetto si sottrae alla possibilità di ridisegnarlo nella mente per cercare di definirlo, dimensionarlo. Quello che resta nella retina è una sequenza continua di sfumature di sabbia sotto al sole, solcata qua e là da qualche passo presto cancellato dal vento.

Osservo l’orizzonte lontano e vedo la cima della duna nebulizzarsi nell’aria, disgregarsi nel vento e ridisegnarsi poco più in là. Tutto quello che ho intorno non è nient’altro che onde solide in movimento, incoerenza sedimentata.

Poi mi giro. E resto catturato da un colpo di fulmine animale. Una superficie omogenea, antica e verde, un tappeto folto di pini occupa tutto il campo visivo fino a dove l’entroterra diventa orizzonte. Una presenza tale da bloccarmi in cima al crinale ad osservarla: una massa imperiosa che nasce nell’infinito e muore soffocata sotto una gigantesca duna di sabbia.

martedì 25 maggio 2010

tras-bordeaux

- Ricordati bene. Le lingue sono una chiave, una chiave con cui puoi aprire molte porte. Ci pensi se non potessi esprimere quello che senti, quello che vuoi comunicare?

Lo guardo in faccia, mentre dietro di lui Bordeaux comincia a diventare una sequenza distinta di tetti e strade. Osservo i suoi capelli bianchi, corti e fini. La pelle olivastra, scaldata da molti soli. La lingua, con un accento lieve che non riesco a decifrare. Lo guardo e ancora non mi capacito di come questo sconosciuto sia riuscito a dribblare la barriera dell’indifferenza reciproca, sgusciare nei miei silenzi e cominciare a distillarmi la sua esperienza. A raccontarmi del luogo dove è nato, una splendida isola del Marocco vicina alle Canarie, dove il cibo veniva dal mare ogni giorno, in quantità sufficiente per tutta l’isola. Dei suoi figli, che volevano vivere in un luogo dove avere più possibilità di lavoro, e quindi della decisione di cercare una nuova casa in Italia. E poi i viaggi, gli spostamenti, le lingue: italiano, inglese, francese, arabo, spagnolo, cinese.

- Ho viaggiato tanto quand’ero giovane. Viaggiate. Voi che avete la possibilità, viaggiate. E conoscete. Le lingue sono una chiave con cui si possono aprire molte porte.

Lo ringrazio, con parole italiane, mentre le ruote ritrovano il contatto con la pista e il mondo torna ad essere fatto di prospetti.

- Se vuoi venire un giorno in Marocco fammi sapere. Ci sono tanti europei, tanti miei amici, che vengono e non se ne vogliono più andare. Ho girato tanto, ma ancora non ho trovato un posto che somigli al Paradiso più della mia isola. Chiamami, se vieni in Marocco. Lì hai una casa.

Buongiorno Bordeaux. Grazie per il benvenuto.

venerdì 21 maggio 2010

la ruota


Ancora una volta si parte.

La ruota gira, la Terra si sposta, e mi troverò in un altro luogo.

È come pregustare un pranzo succulento, scorgere la superficie mentre si risale dal profondo.


Ancora una volta si parte. Cambiano gli zaini, cambiano gli aeroporti, cambiano i compagni di viaggio e le mete, ma resta intatto l’unico grande desiderio della scoperta, dell’avventura. Dell’ignoto.