domenica 28 settembre 2008

lars e una ragazza tutta sua


Un film delicato e toccante su come, a volte, i desideri siano così forti da cambiare il nostro modo di vedere la realtà.

sabato 27 settembre 2008

invece di andare a teatro


C’è una cosa che voglio dire.
Ed è che a volte siamo proprio ostinati. Pensiamo il futuro e lo incastriamo. Osserviamo la situazione, analizziamo i dati e ipotizziamo dove porteranno. Meglio. Decidiamo dove porteranno. Siamo così incredibilmente testardi che non importa se le situazioni cambiano, i dati variano e il presente ci smentisce. Non importa. Ormai abbiamo deciso e così sarà. Come una fatalità.
Come quando decidiamo (decidiamo) lucidamente di abbandonare qualcuno, stabiliamo che non è possibile nessuna reale amicizia là dove siamo, imponiamo che questo non sia il nostro posto, aspettando un altrove. Non ci accorgiamo neppure che facciamo di tutto per far sì che tutto vada nella direzione della nostra ipotesi-decisione. Non pensiamo che se solo agissimo con più fiducia, lasciando per lo meno spazio all’imprevisto, smettendo di remare costantemente contro … non ci pensiamo. Perché abbiamo deciso che sarà così, e così sarà. Perché abbiamo bisogno di dimostrarci che il nostro star male dipende dalle condizioni e non da noi. Perché riversare sull’intorno un’incapacità a ricercare ciò che desideriamo ci fa sentire meno sbagliati.
E allora continuiamo così. A dimostrare con il nostro malessere la veridicità del nostro verdetto. Con la nostra mancata felicità la nostra diversità.
Continuiamo ad autopunirci, a evitare il confronto con ciò che sembra impedirci di stare bene.
Continuiamo a stare di fronte a ‘sto cazzo di monitor, questa sera, invece che andare a teatro.

venerdì 26 settembre 2008

il mondo a distanza monitor


Alzo gli occhi roventi dal monitor e li appoggio sulla finestra. Fatico perfino a mettere a fuoco cosa c’è oltre il balcone, a una distanza che non sia quella di un 15 pollici. A quanto pare fuori è arrivata un’altra stagione.
Rinchiuso e recluso nella mia cella personale, come un monaco o un carcerato, non ricordo quando è stata l’ultima volta che ho messo il naso fuori da questa casa. Il sole fa il suo mestiere, là fuori, facendo girare i fogli sul calendario. Sulla mia scrivania la luce da tavolo rende eterno il tempo del lavoro, come un perenne flusso di impegno. Sono riuscito ad azzerare le funzioni vitali, biologiche e sociali. La sensazione di stanchezza e di fame, di freddo e di socialità.
È incredibile come la decisione (e una buona dose di incoscienza di sé o miopia) riesca a cambiare quello che sembra indispensabile, come il cervello riesca a disporre del fisico, delle sue necessità e desideri.
Ti fa sentire quasi onnipotente, il poter disporre della macchina del tuo corpo fino ai suoi limiti estremi. E, volendo, anche un po’ più in là.


Finchè non crolla. Il cervello o il fisico.

sabato 20 settembre 2008

che non è giusto


D’accordo. So che non è giusto.
So che l’ho rinnegata. L’ho rinnegata e la rinnego, tutt’ora, con forza.
La sto lasciando, con rabbia e sdegno, non degnandola neppure di uno sguardo.
Eppure so che mi mancherà.
So che mi mancherà il casino che tanto odio. La confusione che trasforma un’ora morta in una goccia di stranezza. L’entropia che regna sovrana e che porta sempre novità e volti imprevisti. Le notti e i giorni che si susseguono con un calendario imprevedibile, incalcolabile.
È strano dare l’addio ad una cosa che si abbandona con cattiveria.
Ma ancora più strano è darle un secondo e imprevisto addio. Mesi dopo.
È come se tutto ciò che di minimamente buono c’era, in questa casa, fosse sbocciato, nella mia testa ed ora stesse fiorendo qui, davanti ai miei occhi. Come se quel che non sopporto fosse finito in fondo, e quasi non contasse più.

domenica 14 settembre 2008

respira


Abbasso gli occhi e premo il pulsante con le righe sulla plancia. Una leggera patina si sta formando sul parabrezza, avvolgendo il mondo in un crepitare di paiettes di luce colorata, mentre sull’asfalto lucido si legge distintamente un pensiero. L’estate è finita.
Le macchine camminano piano. Nessuno ha fretta in questa serata domenicale, e nessuno probabilmente ha una meta precisa. Questa notte è fatta solo per andare, lasciarsi trasportare e vedere il mondo passare. È fatta per viaggiare, farsi passare addosso il tempo e lo spazio, farsi passare i pensieri silenziosi come un mondo sotto la tempesta. Qualcuno cammina sotto la pioggia fina, spaesato e inutile. Rimini questa notte è una giostra ferma. È un mondiale cui la nostra nazionale non partecipa.
Chiudo la macchina e mi incammino lungo la banchina. Il mare è alto e le onde lambiscono il bordo del molo, schiaffeggiando i pali di sostegno, sbuffando e gorgogliando. Sopra il cielo è scomparso, liquefatto in una nebbiolina di luce. Il molo si incammina con me verso il cuore di quell’immensità oscura, di quella massa che questa notte sento respirare, sento gonfiare i polmoni, alzare ed abbassare la superficie come stesse caricandosi. Davanti a me gli spruzzi scavalcano il parapetto in cemento e si riversano sul molo. Esplodono, crepitano, scrosciano a terra. L’aria è satura di piccole goccioline, sospese nella luce dei lampioni che mi illuminano. Le onde più grosse esplodono da sotto il molo, attraverso le grate, in geyser di rabbia accompagnate dal fischio dell’aria che soffia nei tombini. Appoggio una mano sui fori della piastra metallica e lo sento. Forte, potente e incredibilmente vivo. Aspira l’aria, con ingordigia, e poi la sputa fuori prepotentemente. Dalle crepe del cemento l’acqua risorge spruzzando verso l’alto.
Verso la fine del molo ci sono due pescatori. Sotto il loro mantello cerato guardano le canne appoggiate ai parapetti e aspettano. Guardano le onde ingrossarsi e ruggirgli fin sotto i piedi.
Con un libro in mano ascolto il ticchettare rapido e leggero della pioggia sul tendone. Il mondo entra solo attraverso la voce della televisione, e racconta di un Valentino che corre, sperando che la pioggia non lo fermi. Osservo i proprietari che, tranquilli, non si curano dello spettacolo che si riversa fuori.

il torrone no(rd)


È vero. A volte è proprio dura da masticare questa vita.
Mentre punto la macchina verso sud penso che non voglio andare a dormire. Che voglio fare tardi. Si, questa notte voglio proprio fare tardi. Qualsiasi scusa è buona pur di non tornare presto a stendersi su quel letto che ormai sento sofferente. Vorrei prendere le rotonde su due ruote, penso mentre alzo il volume dell’autoradio. L’adrenalina mi sale alla testa e vorrei tanto che ci fosse il crucco, lui sì che saprebbe come risollevare le sorti di questa serata.
Vorrei tornare a casa che il sole è già alto, con il freddo del mattino autunnale nelle membra. Strappare la correttezza di questa serata e travolgerla fino a che il mondo, quello che ogni giorno ricomincia, riapra gli occhi. E allora, solo allora, dargli il cambio, e andare a letto senza salutare. Guardare gli occhi nello specchio e vederli rossi e crepati. Affogare il sonno nel cuscino.
In questi momenti la violenza su se stessi è un palliativo perfetto. Sentire di starsi facendo del male è confortante, produce una sorta di coscienza del nostro esserci, e del nostro essere carne e pensiero, umani. Come se il dolore potesse renderci più vicini al cuore delle cose e di noi stessi. Che poi, domani, quando conteremo le cicatrici un sorriso di soddisfazione taglierà la nostra espressione sconsolata.

martedì 2 settembre 2008

il torrione nord


Fuori c'è ancora l'aria dell'estate.
Ci sono le voci dei bambini nella notte, i rumori delle case che se ne escono dalle finestre aperte, i vestiti che lasciano nudo il tuo corpo. Nella tana del divertimento, nella capitale dello sballo estivo, nella giostra delle ore notturne, non sono le luci stroboscopiche a togliermi il sonno, ma il baluginare di una piccola abadjour da tavolo.
Già. Perchè questa estate è stata diversa dal solito.

E' stata molto diversa da come me l'aspettavo.
E ancora l'amaro non se n'è andato del tutto.

Ci sono momenti in cui i nostri castelli crollano. Come dice Baricco, non sai perchè, ma un bel giorno, come se l'avesse deciso molto tempo prima, come se un giorno si fosse messo lì, a stabilirlo, giorno e ora, un giorno il quadro cade. Così, allo stesso modo, le fortezze crollano.
Sei ancora lì che stai finendo di costruire il torrione nord, respirando la brezza serale, con negli occhi l'orgoglio per il tuo castello, quando ti accorgi che le mura stanno crollando.
Franando.

Sono colpi.
Ma a volte c'è di peggio.

Stai pascolando tranquillamente le tue pecore, seduto all'ombra di una grande magnolia con un filo d'erba trai denti. Ogni tanto fai volare qualche soffione nell'aria, dai un nome alle nuvole, racconti storie al tuo gregge. E non pensi d'essere contento. Non ti passa neppure per la testa di fartela questa domanda. Semplicemente lo sei.
Mentre sei lì, col tuo soffione che impollina il vento, arriva una contadina. Porta i capelli raccolti sulla testa e veste semplici abiti contadini. Si siede accanto a te e ti dice: Ti ho portato il pranzo. Colpito da tanta gratuità fai accomodare la ragazza e cominciate a mangiare. E, inconsciamente, le apri la prima porta. Il pranzo continua con vino, carne, dolci. Le parole si susseguono senza sforzo, fluide e attraenti. E le tue porte continuano ad aprirsi, una dopo l'altra. Cominci a pensare che non vorresti che se ne andasse. Ma proprio mentre questo pensiero prende forma dentro di te lei si alza, raccoglie la tovaglia con gli avanzi e ti dice: Ti aspetto questa sera al castello.
Il castello? Oh mio Dio, il castello! Non ci posso credere...
Mai avevi pensato di poter entrare dentro al castello e invece... e invece questa sera sei stato invitato alla festa del castello!
Con le interiora in rivolta ti prepari, selli il tuo somaro, lavi i tuoi piedi nel ruscello, metti la camicia che una volta era del nonno. Man mano che ti avvicini senti l'emozione salire e la testa riempirtisi di immagini. In realtà non sai nemmeno bene cosa aspettarti, visto che a castello non ci sei mai stato, ma sai che sarà meraviglioso.
Ecco.
Mentre sei lì, con un cuore che sta imparando a palpitare, con nella testa desideri che non erano tuoi, con nelle mani un'energia che non speravi e tra le ascelle una grande commozione, ecco che lo vedi. Vedi il muratore, lassù, sulla torre nord, sgranare gli occhi mentre ancora tiene in mano una grossa pietra sbozzata. Ti stai avvicinando e le vedi, di lontano. Le mura. Franare.

Non so se riuscite ad immaginarvi.
Non so se si riesce a intuire la violenza della delusione di desideri nuovi e non nostri.

Eppure.
Eppure quest'aria mi conforta questa sera. Mi fa pensare agli occhi devastati di un giovane allevatore di pecore. Mi fa pensare allo sconforto di un vecchio muratore.
Sì. Perchè i castelli crollano.
Passerà il tempo e il muratore sarà nuovamente lì, sul torrione est questa volta, a alzarlo nuovamente verso il cielo. Perchè? Forse perchè è un muratore, ed è per questo che è nato. O forse perchè chi sta sulle mura ancora non ha perso la speranza di poter risorgere dai suoi crolli.
Lasciare spazio allo sconforto, ma poi ricominciare a costruire.
L'importante è non smettere di crederci.

l'uomo che fu giovedì - g k chesterton


-Ecco là il vostro ordine prezioso, quel debole lampione di ferro, brutto e disadorno: ed ecco qui l'anarchia, ricca, vivente, capace di riprosursi, ecco l'anarchia splendente d'oro e di verde.
-Comunque - rispose pazientemente Syme - proprio in questo momento voi vedete l'albero soltanto in grazia della luce del fanale. Io mi domando quando mai potreste vedere il fanale alla luce dell'albero.