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mercoledì 27 maggio 2015

kheer ganga - day 3




Nella solitudine dell'alba
La leggerezza dell'aria primitiva tra le dita
La maestosa corona delle montagne nei miei occhi
Un fiume che è Dio a scavare la valle
A precipizio
Sotto di me

Mentre il cielo si fa luce
La foresta coi suoi animali a insidiarmi le spalle
I fumi delle acque termali a emergere dal buio
Colline impreviste si adagiano tra picchi e crepacci
                                                       
Cercando calore nella bellezza selvaggia
Mi ritrovo circondato da un branco di cani
A fissare insieme la speranza del giorno che verrà

sabato 19 luglio 2014

acqua sotto i ponti




L'aereo sbarca a Pisa che è buio già da tempo. All'uscita non c'è nessuno ad aspettarmi.
Io e il mio trolley ci spostiamo fuori, nella notte toscana. Compro il primo biglietto d'autobus per Firenze e dopo quasi un'ora sto cullando i miei sogni su un pullman diretto nel passato.
Arrivati a Santa Maria Novella chiedo all'autista se non gli spiaccia lasciarmi a Novoli prima di ricominciare il turno dall'aeroporto di Peretola. E così a mezzanotte mi ritrovo di fronte al colossale tribunale di Ricci, in una zona che conosco fin troppo bene.
Poco più avanti un'auto mi sta aspettando. Ti saluto e ci dirigiamo alla tua nuova casa, dove pizza e birra ci aspettano per cena all'una di notte. Mangiamo voraci seduti sulle poltrone del soggiorno, mentre sullo schermo scorrono immagini di un giovanissimo Keanu Reeves e dalle nostre parole riemergono scene del passato universitario. Gli amici, gli esami, le uscite, le vecchie e nuove famiglie. Le persone disperse e quelle presenti. Poi la stanchezza ha la meglio e sopraggiunge il sonno.

La mattina, dopo aver fatto colazione al bar dei cinesi, ti saluto e mi dirigo con il mio trolley verso il centro. Attraverso il parco di Gabetti&Isola, via Terzani, lo studentato, l'aera Belfiore.
Torno ad essere un turista in una città che per tanti anni è stata mia. Macchina fotografica a tracolla e bagaglio a seguito come il più tipico degli stranieri. Duomo, Repubblica, S. Lorenzo, Oblate, S. Croce, Ciompi e poi Santa Maria Novella dove mi raggiunge un altro vecchio amico. Ci arrostiamo le chiappe sulle assurde panchine in acciaio della piazza e ci salutiamo, io diretto al mio treno tu alla tua famiglia.
E così si torna, un'altra volta, a casa.

lo que haces




L'edificio che avevo adocchiato il giorno precedente è la Biblioteca Escuelas Pias, un'antica chiesa riconvertita magistralmente in biblioteca. Mattoni e pietra si alternano ai nuovi interventi in legno, dando vita ad uno spazio di una sacralità diversa: quella intellettuale.
Rampe di scale rettilinee in cemento risalgono sulla parete esterna della chiesa e portano ad una terrazza sul tetto da cui si può godere del famoso cielo di Madrid.

Il MediaLab del Prado è un interessante progetto. Due navi industriali sono state unite da un volume centrale per la distribuzione verticale. Mentre l'esistente è stato ripulito lasciandolo nudo, impianti e partizioni a vista e ridotte al minimo, il corpo scale è un curioso oggetto che si ritorce su se stesso, neutro all'esterno e flash all'interno.

Approfittiamo delle ultime ore per visitare l'interno del CaixaForum. Scorriamo velocemente la mostra sulla Pixar, rimanendo incantati dallo "zootropio", una scultura che dimostra il principio dell'animazione. Dopo aver commentato gli interni del Caixa, il vuoto centrale e perfino i bagni, ci dirigiamo verso la stazione di Atocha. I saluti sono rapidi ed increduli come quelli del mio arrivo.
Hasta muy pronto, Esme.

lunedì 14 luglio 2014

candela




Entriamo nel Candela dopo che un uomo all'ingresso ha controllato che i nostri nomi fossero sulla lista. Il bar è composto da un'unica sala stretta e profonda, l'ingresso su uno dei lati corti, il palco sull'altro. Un lungo bancone, al quale sono già accalcati diversi avventori, copre quasi completamente la parete senza finestre. Il resto del locale è occupato da sedie di legno, disposte in file ordinate e strettissime. I muri una volta bianchi sono ora nascosti da una moltitudine di foto, poster, locandine ed articoli che riguardano i ballerini di flamenco che sono passati di qui. L'atmosfera è quella di un bar andaluso, anche se vagamente ripulito.
Amelia, la stella della serata, viene a salutarti e ci presentiamo velocemente: una donna piccolina, dallo sguardo furbo ed intenso, i capelli nerissimi raccolti sulla nuca ed un vestito strettissimo.
Con i nostri botellines in mano prendiamo posto ed aspettiamo l'inizio dello spettacolo. Mentre tu chiacchieri con la tua amica della fila davanti, io faccio la conoscenza della mia vicina. Anche perchè è così vicina che quasi condividiamo la stessa sedia. Originaria di Istanbul, mi racconta di essere venuta a Madrid perchè qui ci sono le migliori scuole di flamenco del Paese. Ed io che pensavo che fossero nel sud. Mi spiega che il ballo si originò in Andalusia ma poi la sua diffusione è stata legata negli ultimi anni ad insegnanti che risiedono nella capitale. Mentre si prodiga in spiegazioni, al suo lato il padre resta seduto composto osservando benevolo lo strano folclore che lo circonda senza capire una sola parola.
Dopo una rapida presentazione del proprietario del locale, sul palco sale un uomo vestito con pantaloni e maglia scuri, capelli brizzolati pettinati all'indietro, chitarra classica al seguito. Il cantante, stivale in pelle nera e camicia nera aperta sul petto, ci introduce il ragazzo più giovane della compagnia: pizzetto ed imbarazzante bandana nera da rapper in testa, ma a quanto pare un ottimo violinista flamenco.
Il chitarrista è un prodigio, come si conviene. Il violinista si inserisce con accenti striduli ed il sopracciglio sollevato. Il cantante, uomo di mestiere, si lamenta con stile. Poi entra il ballerino in nero. Si dimena con grazia non eccessiva, ma con arte sul piccolo palcoscenico. Pesta il legno che lo sostiene, frusta l'aria, afferra il furore. Ma è quando entra Amelia che lo spettacolo si fa tale. Il dramma scritto in faccia, raccolta in un vestito che la risucchia a dovere e ne esalta le forme senza la minima volgarità, anzi, con un tocco di funereo rispetto. I tacchi castigano il palco con percussioni potenti, le palme ad afferrare e schiaffeggiare uno spirito che solo lei riesce a vedere, la gonna a tracciare traiettorie disattese.
Poi è tutto un climax. I ballerini escono, e rimangono i suonatori a rimpallarsi melodie zigane con virtuosismi da star. Si inserisce il canto, esplicitando con gli strani gorgheggi il debito che questa musica ha con la tradizione araba. Ed infine, insieme al ballerino, torna la regina in un vestito rosso fuoco. In preda a raptus sempre più intensi, si dimena fino a perdere progressivamente tutti i fermagli che le tengono in posizione la capigliatura. Nel momento di coinvolgimento massimo Amelia si ferma, ansimante. Il pubblico applaude, i suonatori si alzano in piedi continuando a suonare e tutti quanti scendono dal palco cantando, ballando, e battendo le palme per infilare la porta laterale e le scale che portano nell'interrato, dove lo spettacolo continua solo per pochi intimi.

venerdì 11 luglio 2014

sognare




Garcia Lorca mi guarda coi suoi occhi di bronzo, plaza Santa Ana a fargli da quinta. I turisti gli sfilano a fianco, si fermano a farsi le foto, quasi fosse uno dei tanti mimi in circolazione. Mentre Federico continua a fissare la colomba che dalle sue mani non riesce a spiccare il volo, seduto su un cubo di porfido lucido, spalle al Teatro, fronte al Reina Victoria, parlo silenziosamente col poeta che mi risponde con la sua immobilità. Il tempo passa attorno a noi, statue inanimate ognuna a modo suo.

Al margine di Plaza Àngel un giardino splende del sole meridiano. Un chiosco in ferro e vetro lascia vedere al suo interno il negozio di fiori più antico della città, un secolo di esperienza in sensazioni vegetali. Il tempo è passato, il tetto in legno è stato rinnovato, le colonne in ghisa ripulite ed il negozio accuratamente cosparso di oggetti di uno studiato stile vintage. Seminascosto da alberi e fronde, un grande cartello campeggia all'ingresso: "non smettere di sognare".

Passeggiando arrivo a Lavapiés. I gruppi di nordafricani sono sempre più numerosi, il modo di vivere la strada sempre più da piccola comunità, da luogo in cui quel che succede viene controllato da tanti occhi. Arrivato davanti ad un vecchio edificio, un'antica chiesa riconvertita in qualcosa di moderno, decido di fermarmi e godermi un po' di sole in una piazzetta laterale, poco più bassa della strada, dove non c'è nessuno. Con calma scruto la rugosa parete centenaria in mattoni scrostati ed il nuovo edificio nascerle sotto pelle. Ampie vetrate dietro a fornici antichi, una grande terrazza sull'attico dal quale si vedono sporgere ombrelloni e mani abbracciate a cocktails. Mentre lascio che il matrimonio tra antico e nuovo depositi in me i suoi semi, un ragazzo attraversa la piazza, mi vede e mi chiede se ho da accendere. Ovviamente no. Lui si ferma e si avvicina con nonchalance. Mi chiede se aspetto qualcuno, cosa faccio da queste parti, si inventa che gli sto simpatico. Capelli rasati, bracciale d'oro a grosse maglie, ray-ban con finiture dorate, mi chiede se non ho da dargli qualche spiccio. Rispondo in maniera cordiale cercando di evitare di creare tensioni. Il ragazzo si avvicina e si siede sempre più vicino sulla panca. Solo uno stupido non si accorgerebbe che sta cercando in quale delle mie ampie tasche dei pantaloni si trova il portafoglio. Mi alzo, dicendo che si è fatto tardi e che devo andare. Lui si alza con me e chiede perchè non voglio chiacchierare con lui. "Facciamo un ballo, qui in piazza" dice, trovando così il pretesto per prendermi per la vita ed infilare una mano nella tasca. Fortunatamente riesco a svincolarmi in tempo e a tornare sulla via principale. Gli altri ragazzi del suo gruppo, appoggiati di spalle al muretto, non fanno una piega, e lui continua ad attraversare la piazza come se niente fosse. Questa volta gli è andata male, ma non gli importa più di tanto.

venerdì 4 luglio 2014

ultimo sole




Usciamo dal bar e lasciamo liberi i piedi di scorrazzare per la città. Il centro è ricco di attività creative: gallerie d'arte, studi di comunicazione, sale di coworking,laboratori di restauro, negozi di recupero di oggetti vintage. Si percepisce una movida culturale creativa che cerca con l'inventiva di superare una crisi economica che dura ormai da troppo tempo.

Le parole fanno il loro mestiere. Sollevano il morale, annullano la fatica e riscoprono attimi del passato come profumi, riportandoci ad un mondo di serenità e gioia che non c'è più, annegato nelle complicazioni. I piedi ci portano senza premeditazione di fronte al Palacio Real ed alla cattedrale de la Almudena proprio mentre il sole prova lentamente ad inabissarsi trai rilievi all'orizzonte. Attraversiamo il ponte dei suicidi e, birra in mano, ci sediamo sulle erbose pendici della ripida collina puntando lo sguardo a ovest, oltre Casa de Campo. All'ombra dell'ultimo sole ci lasciamo cullare dalla musica della terrazza dietro di noi, mentre ci accendiamo per la storia di Gainsbourg, per il suo carattere e la sua estetica, per sua moglie e le sue canzoni. Intorno, gruppo di ragazzi confidano perle di vita e banalità alla loro bottiglia, confondendo il fiato con i fumi della marijuana.

Dopo un rapido passaggio da casa ci infiliamo in un cinema del centro. Seduti nelle ultime poltrone di una sala stranamente asimmetrica e dai soffitti stuccati, aspettiamo che si spengano le luci per poterci sparare i nostri panini e le nostre birre. Il film di Wes Anderson è affascinante, un'ambientazione dalla strana atmosfera, al limite tra il poetico ed il comico. Ma sono troppi giorni che non riposi e la poltrona è un richiamo troppo invitante.

mercoledì 2 luglio 2014

està que arde




La mattina comincia lenta, senza fretta. Come fosse domenica e questa fosse casa mia. Il Rastro è grigio e la colazione prevede tostada con miele e frutta secca.
Mi chiudo la porta alle spalle e comincio il mio vagabondaggio urbano. Ricordo ancora qualcosa di questa città, quando ci venni con Gaelle, e poi a visitare Claire. I luoghi dove eravamo stati insieme come una costellazione vaga nella nebulosa della geografia metropolitana. Osservo la cartina alla fermata dell'autobus di Ronda de Toledo, ne traccio una mappa mentale e parto in direzione di Tirso de Molina e Paseo del Prado. Dopo una breve tappa al Caixa Forum per scroccare la rete e fissare un pranzo alle quattro, incappo in una piacevole novità. Nascosto tra le pieghe del tessuto urbano, un lotto inaspettatamente vuoto è stato trasformato in un parco provvisorio a disposizione dei cittadini. Spartani ma ordinati orti, un laboratorio di restauro di mobili, un anfiteatro di pallet annegati nella terra, una lavagna per i più piccoli, una rastrelliera per le bici. Tavolini, panche, sedie e amache sono sparsi ovunque per favorire relazioni sociali non previste. Mi siedo nell'anfiteatro a ridosso della parete in mattoni antichi ed entro a far parte della scena. Un giovane padre, apparentemente disoccupato, cerca telefonicamente di stabilire un appuntamento per qualche lavoretto artigianale, mentre di sottecchi sorveglia la figlia che gioca nella terra polverosa. Un quarantenne si infratta trai giunchi per rollarsi uno spinello e, poco più in là, tre ragazze stanno sedute in silenzio a fumare, godendosi i pochi raggi di sole. Sotto questo cielo grigio è bello che ci sia un posto verde di tutti, anche se non curato come ce lo si aspetta. Un luogo mutevole e provvisorio.
Mentre varco il cancello per uscire un piccolo gruppo di bimbi delle elementari arriva accompagnato dai maestri e comincia a scorrazzare liberamente.

Con nonchalance inforco l'entrata della Casa Encendida, saluto la persona all'ingresso e salgo ai piani superiori. Mi godo una piacevole mostra sull'Estremo Oriente che mostra foto, disegni ed oggettistica delle forme di abitare tradizionali del Giappone, coi loro magnifici giardini artificiali che ricreano paesaggi in miniatura, surrogati del monte Fuji e delle foreste.  Mi affaccio all'accattivante caffetteria e poi risalgo i vari piani passando per  la mediateca, la radio, la piattaforma televisiva. La terrazza sul tetto, luogo affascinante anche se poco panoramico, è occupata da alcuni cineoperatori che stanno intervistando un ragazzo, una qualche forma di artista direi dai modi e dal vestire.

Alle quattro passate ci sediamo al Verbena, dove ci aspetta il nostro menù. Un bell'ambiente, stile accogliente, e noi che ci perdiamo in chiacchiere mentre il sole comincia lentamente la sua parabola discendente sulle strade di Tribunal.

giovedì 19 giugno 2014

la deriva




Il mio primo pranzo in città arriva intorno alle sei del pomeriggio ed è costituito da patate e crocchette, oltre all'immancabile caña. Sto già un po' meglio. Appoggiata la valigia ci incamminiamo verso il concerto.
Le parole corrono lungo i marciapiedi del Rastro tentando di trovare un loro ritmo. Mentre risaliamo la collina in direzione di Plaza Mayor il passato riemerge dagli angoli della città e si sovrappone al presente. Una piazza che ancora non aveva conosciuto gli Indignati, sulla quale regnavano i mimi e gli artisti di Noviembre. L'ostello "Dolce Vita" e le sue camere colorate, una diversa dall'altra, le lampade a forma di stella. Una testa sconosciuta che dorme sulla mia spalla in un bus notturno. Chueca coi suoi abitanti, i suoi bar alla moda, la sua irriverenza. Il Dmystic ed i sottobicchieri con la spirale, una maglietta troppo corta, un bagno da applausi. La musica nella notte. I "100 montaditos", la cintura che ancora porto, un'intervista sul tetto della Casa Encendida, nostra insperata scoperta. La facciata verde del Caixa Forum non ancora terminato. Cibele che guarda a sud dall'alto del suo carro e Atocha, la grande serra verde che custodisce le arterie metalliche della capitale.
Ubriacato da tante immagini scorro il presente con una strana malinconia che tento di ricacciare indietro.
Plaza Mayor è rosa. Una moltitudine di ragazze e donne di tutte le età ha occupato quasi metà della piazza e, radunate di fronte ad un palco dove 4 ragazzi si dimenano, si muovono simultaneamente a ritmo di salsa.
In Puerta del Sol, nonostante il nome, non c'è ancora la porta e non c'è più il manifesto gigante di Gasol.
Ci dirigiamo verso ovest, direzione Manzanares e, birra in mano, decidiamo di dimenticarci del gruppo spalla.
La Riviera sembra un edificio abbandonato, un ammasso di volumi e tetti a spiovere da cui fuoriescono i nidi metallici degli impianti. Dentro il buio fa il suo dovere, nascondendo palme di plastica, soffitti rimediati, ballatoi di dubbia utilità.
I Vetusta Morla , illuminati da sei grandi lampade, suonano la carica e predicano di non arrendersi alla situazione presente. La carica è assicurata e noi proviamo a perdere la voce cantando dall'inizio alla fine.
Habrá que inventarse una salida / Que el destino no nos tome las medidas / Hay esperanza en la deriva.

Salutiamo i nostri compagni musicali e torniamo a solcare i marciapiedi nella notte madrileña fino a La Latina e poi al Rastro. La notte ed il sonno mi inghiottono in breve, nuovo cittadino di una nuova città.

sabato 7 giugno 2014

aria di festa



La signora è agitata e mi taglia la strada, finendo così per inciampare nella mia valigia. Qualcuno dovrebbe dirle che correre non la farà arrivare a Madrid prima di noi.
Il portello anteriore finalmente si chiude e tutti ci allacciamo le cinture.
- Buongiorno signore e signori - dice la voce all'altoparlante - e benvenuti su questo volo Ryanair con destinazione Barcellona.
Gli occhi nei 189 passeggeri del Boeing 737 si alzano angosciati a guardare lo stuart.
- Scherzavo. Con destinazione Madrid.
Sospiri e risa di sollievo percorrono la cabina mentre i corpi tornano ad appoggiarsi agli schienali.
- Vi preghiamo di prendere posto e di depositare i bagagli a mano nelle cappelliere, mentre borse e dispositivi elettronici dovranno essere collocati al di sotto dei sedili. Da questo momento i telefoni cellulari dovranno essere messi in modalità "volo". Se il vostro telefono non ne fosse munito ... beh, è ora che ve ne compriate uno nuovo, perchè in ogni caso non potrete usarlo.
Tra le risa generali mi lascio abbracciare da Morfeo e le parole in castigliano sfumano nelle mie orecchie mentre ci alziamo al di sopra delle nuvole.

- Signore e signori, per favore vorrei avere la vostra attenzione solo per qualche minuto - sento nel dormiveglia.
- Ehi! C'è nessuno sveglio? Non è possibile. C'è solo una ragazza attenta in tutto l'aereo? Dai, non fate così che mi sento solo. Vi immaginate se doveste scendere dall'aereo con un milione di euro? Cosa ci fareste? Pensateci. Potreste finalmente comprarvi la macchina nuova, il nuovo computer, la barca. Potreste salutare il vostro capo ed andare in vacanza per un anno. Oppure potreste mandare in viaggio vostra suocera. Magari insieme al vostro capo... So che vi sembrerà impossibile, ma qualcuno non ha voglia di vincere tutti questi soldi. Ora io e i miei colleghi passeremo trai sedili coi biglietti della lotteria. E non fate come al solito che cercate ogni scusa per non comprarli. Come quelli che fanno finta di dormire appena passiamo, o guardano ostinatamente fuori dal finestrino. O quelli che leggono intensamente le riviste. Tanto sono in inglese, e non le capite. 
Poi lo stuart prova a riassumere in italiano:
- Buongiorno signore e signori, mi chiamo Javier, in italiano penso che sono Saverio. Quindi, se doveste vincere il premio della lotteria, ricordatevi di questo nome. Saverio. Saverio. Saverio...

L'aereo sobbalza vistosamente nel suo avvicinamento a terra. Sento voci preoccupate dietro di me, la signora cinese al mio fianco sembra debba portarsi via i braccioli come souvenir, qualcuno pensa di aver bisogno di un sacchetto.

Saluto la hostess e poggio il piede sulla scaletta metallica.
Spagna. Dopo tanti anni, finalmente, nuovamente, Spagna. E poi, dopo tanti anni, Madrid.
Scendo i gradini bianchi provando a recuperare la lucidità che il sonno mi ha tolto. Cerco, dentro, i pensieri in castigliano ma per quanto frughi, insensatamente, tutto ciò che trovo è solo un farfugliante inglese.
E così il mio primo passo sul suolo reale suona ridicolo come quello di un goffo Gagarin che non sa più che dire.

lunedì 27 gennaio 2014

chalet




Lasciata Città di Castello ci dirigiamo verso sud ed una ventina di minuti dopo attraversiamo Trestina. Compriamo pollo arrosto, patate e vino all'unica rosticceria aperta e ci dirigiamo verso ovest, verso l'interno. L'abitato scompare frastagliandosi in nebulose di piccoli borghi; la strada sale, attraversa la piccola Lugnano e continua ad inerpicarsi. Dove la curva stringe a gomito riportandoci fronte alla valle, lì si trova parcheggiata una cinquecento gialla.
Steve è un inglese sulla cinquantina che ci accoglie calorosamente e si informa subito del tuo accento dall'aroma londinese nel quale ritrova il suo passato. Poi si carica gli zaini in macchina e ci dà istruzioni per arrivare a destinazione.
Il sentiero scende verso valle tra campi di ulivi e boscaglia incolta, zigzagando su lastre di pietra, finchè dopo un quarto d'ora gli alberi si diradano e lo vediamo.

Negli anni Novanta Steve si era stancato del nord. Non sopportava più di stare con quei buzzurri di Leeds che non aveva mai realmente sfangato e comprò due case antiche e decrepite, una a fianco all'altra, nel cuore dell'Italia. Case di contadini, fatte di pietre sbozzate, con i tetti sfondati dal tempo. Assoldò una squadra di operai polacchi e cominciò a sistemare la prima delle due. Non avendo altro posto dove dormire, i muratori si costruirono una casetta di legno a poca distanza dalla casa principale. Una stanza con la cucina e la stufa a legna, due camere e un bagno.


Vent'anni dopo Steve ci accoglie nel suo chalet in legno. Vive in una magnifica casa a tre piani affacciata sulla Toscana, circondata dal bosco, insieme ai suoi sette gatti. Conosce i sentieri ed i cacciatori che li percorrono in cerca di selvaggina. Conosce i cani della casa più vicina, quattro chilometri più avanti, dove è meglio non fermare la macchina. Conosce il tempo che farà. Ci rifornisce di legna e ci garantisce che, per questa settimana, non dovrebbe nevicare.

sabato 16 novembre 2013

raccordi - giorno 7



La famosa colazione preparata "appositamente" per noi è in realtà per tutti gli ospiti. Sul tavolo esterno ci ritroviamo a mangiare uova, pane e tè insieme ad un ragazzo canadese ed un'inglese, ognuno pronto ad iniziare la sua giornata di tour per i dintorni. Nathan, confermando le sue scarse capacità organizzative, si è aggregato alla nostra vacanza ormai da tre giorni ed ancora non ha deciso come fare per arrivare ad Amburgo. Continuando a procrastinare ha pensato di farsi trasportare in macchina da noi ancora per un po', in direzione nord. Carichiamo le sue pesanti valige, salutiamo e prendiamo la via del ritorno.
L'autostrada corre parallela alla bella costa croata senza che riusciamo però a vederla.
Al bivio autostradale tra Zagreb e Rijeka, all'esterno della curva di raccordo, vediamo da lontano un ragazzo con un cappello di paglia ed il dito alzato. "Fermati!" mi fai, ed io accosto rapidamente.
- Ciao. Dove devi andare?
- Voi dove andate?
- Verso l'Italia. Dobbiamo essere a Bologna in serata.
- È bella Bologna?
- Sì, una città universitaria.
- Ok. Per me va bene.
Baptiste ha 22 anni, i capelli castani, gli occhi azzurri ed un'espressione felice e spensierata. Finito il primo anno di filosofia, a luglio è partito dalla Normandia deciso a viaggiare unicamente in autostop. Sui sedili altrui, ospitato in case occupate, equipaggiato con zaino e sacco a pelo, ha attraversato la Germania, l'Austria, i Balcani, fino ad arrivare in Turchia. Ora sta tornando verso l'Italia dove ha un appuntamento tra una settimana con un suo amico. Dove non si sa. Gli accordi sono che il primo che entra in Italia avvisa l'altro.

Attraversata la frontiera chiamo a casa per avvisare che avremo ospiti. Prima di mezzanotte siamo tutti seduti, collezione improbabile di umanità di origini ed età diverse: Svezia, Francia, Stati Uniti, Polonia, Bulgaria, Italia. Tutti riuniti per una notte, tutti sconosciuti.

mostar - giorno 6



L'ingresso a Mostar mi ricorda quello ad un paesotto campano nel secondo dopoguerra. Uomini vestiti coi loro stracci migliori sono appostati agli incroci strategici pronti a fiondarsi sulle macchine dalla targa straniera per offrirsi come guide, procacciatori di alloggi, di cibo, di curiosità. Ci divincoliamo dal nostro nuovo grande amico e circumnavighiamo la città vecchia. Attraversiamo il fiume, a sud del ponte vecchio, e ci infiliamo in una piccola via che punta verso la collina. Qui troviamo una signora che affitta una camera da otto persone. Fortunatamente ha ancora posto per noi tre.
Quando entriamo ci dice che è contenta che siamo italiani, che gli italiani sono stati i primi a mandare loro aiuti e cibo dopo la guerra civile. È per questo, continua, che ha imparato un po' della nostra lingua e, per dimostrarci la sua gratitudine ci porta in camera delle bibite fresche e, ci assicura, la mattina successiva ci preparerà appositamente la colazione. Commossi e un po' intimoriti da questo improvviso ed opportunistico senso patrio, ci gettiamo sui soffici letti della stanza seminterrata.
Lo Stari Most di Mostar è un bel ponte a schiena d'asino che congiunge le due parti della città separate dalla profonda faglia del fiume Narenta. Ricostruito da pochi anni con il contributo dell'Unesco, ora ospita ragazzini minorenni che si lanciano dalla sommità nelle fredde acque del fiume (un volo di oltre 24 metri) per pochi spicci offerti dai turisti che si affrettano a stringere loro le mani e ad immortalarli in questi suicidi controllati.
Tu non hai ancora perso le speranze di tuffarti nonostante quello che ti hanno raccontato in camera. Per lanciarsi, infatti, bisogna fare un corso (a pagamento) di una giornata provando vari tuffi da altezze inferiori (10 metri) per fare pratica. Precauzioni molto severe, a quanto pare, ma a volte neppure questo è sufficiente. La settimana scorsa due ragazzi australiani sono stati portati al pronto soccorso con lesioni alla schiena e alle gambe per aver effettuato un ingresso in acqua non preciso. Per non parlare del polacco.
- Che è successo al polacco?
- L'anno scorso un ragazzo polacco voleva tuffarsi ma non aveva intenzione di pagare il corso. Ha aspettato che passasse il tramonto, quando c'era meno gente, e si è tuffato. L'hanno recuperato 4 giorni dopo diversi chilometri più a valle.

Il paese gravita attorno alla bellezza ardita del ponte, acceso dalla luce del tramonto, e circondato da negozietti e bar assolutamente turistici dove non vi sono problemi a pagare in euro. Nathan si aggira in cerca di una maglia souvenir (perchè le altre sono tutte sporche) e se ne esce con una che, al posto della scritta Coca-Cola, riporta Ćevapčići.

venerdì 15 novembre 2013

konjic - giorno 6



Dopo aver accompagnato Jenny in aeroporto (e dopo aver perso le chiavi della macchina, aver messo a soqquadro l'ostello, gli zaini, averle chiamato un taxi, aver dimenticato di ritirare i soldi per pagare il parcheggio) ci dirigiamo verso un paesino dove la signora inglese dell'ostello ci ha convinto a fermarci. A metà strada tra Sarajevo e Mostar, Konjic ospita il colossale bunker di Tito. Terminato alla fine degli anni '70 dopo quasi trent'anni di lavori, è costituito da oltre 600 mq di gallerie scavate 300 m in profondità nella montagna e poteva ospitare 350 persone per diversi mesi. Il costo esorbitante dell'opera, oltre 5 bilioni di dollari, doveva garantire la sopravvivenza del dittatore e della classe dirigente contro esplosioni ben più potenti rispetto a quella di Hiroshima.
Arrivati in paese decidiamo di concederci una colazione come si deve, divorati dai succhi gastrici attivati dall'alcol della sera prima. Lungo il fiume troviamo un bar al primo piano di un brutto edificio da periferia dove sono riuniti dozzine di giovani che, a giudicare dalle pagelle lasciate sui tavoli, stanno frequentando i corsi di recupero. Da bravi stranieri ordiniamo come seconda colazione pizza e tè. Di fianco a noi sta il ponte di Konjic, vecchia opera a dorso d'asino in pietra, completamente restaurato. Sull'altra sponda si intravede svettare qualche minareto, sebbene man mano che ci avviciniamo a Lourdes questi si facciano sempre meno presenti.
Terminato il nostro brunch ci rechiamo all'ufficio turistico per comprare il biglietto del bus che ci porterà all'Atomska Ratna Komanda (ARK), il famoso bunker. Peccato che l'unico bus della settimana sia partito venti minuti fa e noi, che pregustavamo la visita già da questa mattina, rimaniamo come degli allocchi a fissare la ragazza che ci dice che non possiamo raggiungerlo neppure in auto, in quanto il luogo è segreto. Allibiti per l'idiozia del nostro brunch, riprendiamo la macchina e puntiamo verso Mostar.

Le colline si fan montagne boscose e si aprono per lasciare spazio al lago di Jablaničko, sorta di gigantesca alga d'acqua che penetra negli anfratti e nelle gole della terra. Un ponte strallato ne congiunge i lembi mentre al largo, inspiegabile come una visione, una zattera con una copertura simile ad un tetto, vaga verso l'orizzonte confermandoci che forse, questi luoghi, hanno qualche forma di remota parentela con l'Estremo Oriente.

lunedì 11 novembre 2013

sarajevsko - giorno 5



Un po' di cultura, ogni tanto. Trascino tutti quanti a vedere una mostra che ci ha consigliato la signora inglese che sta nella nostra camera. Infilata la porta a lato della cattedrale, percorso un corridoio dipinto di nero, poi un altro, preso un ascensore, ci ritroviamo nella sala che celebra il massacro di Srebrenica. Una mostra fotografica con scatti dell'epoca ed alcuni del periodo del recupero dei corpi e, in fondo alla sala, alcuni video.
Una foto commovente, una mano di donna guantato di bianco che sorregge e sostiene una mano che emerge dal terreno, ci colpisce tutti e finisce furtivamente sulla pellicola di Nathan. Mi siedo su una delle lunghe panche in legno, a fianco di una ragazza vestita come nelle nostre campagne tanti anni fa, il velo a fasciarle il viso. Davanti a noi due ragazze vestite in nero, anche loro con il velo, non scollano gli occhi dallo schermo. Ci uniamo a loro, fagocitando i sottotitoli.
A metà degli anni '90 migliaia di mussulmani, rifugiati nella città che era allora sotto la protezione delle Nazioni Unite, vennero uccisi dalle truppe serbo-bosniache al comando del generale Mladić. Il più grande genocidio europeo dopo la seconda guerra mondiale. Sullo schermo le donne parlano dei figli strappati alle loro braccia, dei mariti catturati, di parenti separati e mai più tornati indietro.
Toccati profondamente dalla mostra, scambiamo le nostre impressioni mentre facciamo ritorno al quartiere ottomano. Ci domandiamo quale sia il senso di venire in questi luoghi a ricercare, con gusto feticista, i fori dei proiettili, gli edifici sventrati, i segni di una guerra che ha devastato una nazione, un popolo, e che per noi è oggi solamente un racconto, fonte di turismo alternativo. La ricerca voyerista del dramma altrui, guardare dentro al calderone della guerra ma solo una volta che questa è finita. Noi, generazione che la guerra non l'ha vissuta, intrappolati nel fascino amaro che essa porta con sè. Come rendere giustizia a questo magnifico paese e non sciacallarne semplicemente la memoria e l'economia terzomondista? Come fare di ciò che abbiamo visto una ricchezza per tutti invece che un argomento da bar?
Forse proprio così. Ricordandolo. Scrivendone. Sentendolo.

Nella mia discesa trai cimiteri verso il centro avevo incontrato una stradina con un paio di bar che facevano al caso nostro. Ed è così che ci ritroviamo a passare la serata ai margini della città vecchia, seduti al nostro tavolino a tracannare birra Sarajevsko, rakia e altri alcolici locali. Jenny domattina partirà con l'aereo alla volta di Istanbul ed ha deciso di dare il meglio di sè, cantando terribilmente, imitando Ray Charles, imitando il nostro pessimo accento ed azzerando il nostro orgoglio.
Il ritorno all'ostello è un addio lento e trascinato, ricco di stanchezza e leggerezza. 

giovedì 7 novembre 2013

al calar del sole - giorno 5



Sarajevo ha cimiteri candidi sdraiati sulle pendici dei colli. Un prato di lapidi bianche, un bosco di bambù di pietra, una mandria di steli massicce si alzano verso il cielo, le scritte a guardare la città. Ed il tramonto è il loro momento.

martedì 5 novembre 2013

perdersi - giorno 5



Perdersi. Perdersi e seguire i sensi. Non già per ritrovare la strada, per tornare là dove sappiamo dove ci troviamo, ma per continuare a perdersi con maggior intensità, con maggior trasporto, dentro al meraviglioso sconosciuto. Assaporare il nascere dell'inaspettato, la gioia della scoperta senza preavvisi, la sorpresa dei lati nascosti della realtà. Riempirsi le narici di nuovi profumi, tracciarne gli aromi, denudare la piccola magnificenza delle periferie, le opere del tempo, artigiano instancabile, sulla natura, sugli uomini, sulle loro case, sui loro sogni. Osservare il quotidiano altrui, renderlo scena del nostro personale teatro, tramutarlo in romanzo universale, scoprire attraverso i suoi occhi l'essenza delle cose, il barlume di un senso e di una speranza.
Riempirsi. Gonfiarsi come una spugna assorbendo l'atmosfera, sorridendo il paesaggio, gli occhi straripanti del tutto che ci circonda. Le orecchie sorde a furia di ascoltare senza gerarchie. La mente finalmente placata, tornando a collocare la nostra esistenza al suo posto, microscopica sedia nel banchetto universale.

E allora la periferia collinare, il passato che riemerge in moschee di legno quasi fossero baite, villini di crema misti di oriente e occidente, le alte torri di vetro, le rose dei proiettili che solcano i marciapiedi, gli intonaci, i ricordi. Il fiume e la povera esistenza di chi sopravvive a lato dei benestanti, qualche passo più in là. I cimiteri islamici che si rosolano sulle pendici guardando in faccia il sole morente, il baluardo nordest come osservatorio al tramonto. Tutto è conforto inaspettato e profondo.

martedì 22 ottobre 2013

attesa - giorno 5



Finalmente è uscito nuovamente il sole e, per riposarci un po', decidiamo di sederci ad uno dei bar della zona vecchia. Appena fuori rispetto alla via principale si trovano una serie di piazzette completamente circondate di negozi e bar che si sono appropriati, con le loro mercanzie ed i loro tavolini, dell'intero spazio. Noi stiamo seduti al sole, spalle alla parete in legno scuro del locale. Le panche sono ricoperte con cuscini dai tessuti orientaleggianti, gli sgabelli sono quelli ottomani e, spesso, i tavolini in legno o metallo riprendono gli arredi delle popolazioni nomadi, smontabili con un solo gesto.
Arriva il nostro caffè turco, dentro all'ibrik, l'inconfondibile bricco in ottone. Come ormai abbiamo imparato, visto che viene preparato versando la fine polvere di caffè direttamente nell'acqua bollente, bisogna avere cura di non berlo fino in fondo per evitare di ingerire lo spesso strato costituito dai fondi.
Poi ci facciamo portare il narghilè con il tabacco aromatizzato. Dai tavoli vicini si alzano nuvole aromatiche simili alle nostre ed i ragazzi chiacchierano mentre fumano sdraiati sui divani, passandosi l'un l'altro il beccuccio.
Rosolati nel sole del primo pomeriggio, con fumo e caffè, nessuno ha più voglia di alzarsi nè di far altro. Le uniche proposte sollevate riguardano spedizioni per recuperare un po' di regali e souvenirs dai negozietti.
Il mio demone interiore si risveglia rapidamente e decido che è arrivato il momento di prendermi del tempo per me, di solitudine ed esplorazione di questa città, che mi pare nasconda tanto di interessante. Molto più di quello che si può trovare in un negozio.
Guardo la mappa. Il centro storico è stretto e allungato, circondato dalle colline su tutti i lati e lambito dal fiume a ovest. Direi di puntare verso l'alto.

lunedì 21 ottobre 2013

stari grad - giorno 6



Avevamo notato Jenny la sera prima: mangiava della roba indefinibile da un contenitore di plastica mentre stava sdraiata sul divano dell'ostello in shorts e canotta. La sua capigliatura rossa, poi, non la lasciava passare inosservata. Il pavimento della stanza (un'ottavupla) era per metà colonizzato dalla sua valigia, aperta di fianco al letto, e dai suoi vestiti sparsi tutt'attorno.
La mattina seguente decidemmo di visitare insieme il centro di Sarajevo. Il tempo non era certo quello che ci si aspetta ad agosto, con basse nuvole grigie e qualche scroscio di pioggia. Visitammo velocemente Stari Grad, il centro antico, partendo dalla parte più caratteristica, quella di influenza ottomana. Il bazar, la moschea, la madrasa (scuola coranica) con l'annessa nuova biblioteca, i resti del caravanserraglio (il corrispettivo di un antico ostello, ci tenne a sottolineare una ragazza turca che passava di lì) e soprattutto i vicoli con le loro piazzette segrete, i tavolini alla turca fuori dai locali, il profumo del narghilè e quello dei ćevapčići. Tutto molto curato, molto affascinante e molto turistico. Ci spingemmo poi sulle pendici a nord dove i segni della guerra si facevano più evidenti e le facciate di alcuni edifici avevano l'intonaco eroso da raffiche di proiettili.
Nel frattempo Jenny ci raccontava di lei. Nata 26 anni prima in un paese dell'Australia, si era trasferita a studiare a Melbourne e lì aveva trovato lavoro. Dopo pochi mesi era passata a lavorare per la Guardia Forestale ma, come affermava lei stessa, c'erano troppe donne ed il clima era difficile. Gli scontri con la sua capa erano diventati sempre più frequenti fino a quando aveva deciso di lasciare tutto. Aveva fatto le valige ed era partita per l'Europa con lo zaino in spalla. Era ormai in giro da mesi, seguendo un itinerario estemporaneo attraverso il vecchio continente. Westminster, Stonehenge, Glasgow, Edinburgo, Scozia, Irlanda, Amsterdam, Bruges, Repubblica Ceca, Cracovia, Praga, Varsavia, Berlino, Croazia e Sarajevo ( il suo viaggio sarebbe poi continuato verso Istanbul, Cappadocia e oltre).
Dietro di noi Nathan ti stava raccontando dei matrimoni gitani in Romania, del deserto della Giordania, degli amici di Amburgo.
Mentre mi lasciavo impregnare dalle vite altrui cercavo con gli occhi assiduamente qualcosa che mi attirasse, qualcosa che incarnasse l'anima della città più che la semplice visita ai monumenti simbolo. E sempre più si sollevava il mio demone interiore, quello che aveva bisogno di solitudine e silenzio, di camminare e lasciarsi trasportare dall'intuito urbano. Essere spugna per gli edifici, le strade. Scovare la storia là dove le parole altrui te la celerebbero. Assaporare la città perdendosi e lasciandosi sorprendere da quel che si può trovare quando non si cerca nulla di specifico.

crocevia - giorno 5



Già i primi passi mossi nella capitale ci danno l'impressione di un bel posto. Protetta a nord dalla catena montuosa che ci ha stregato, alla città si arriva dall'alto, costeggiando il fiume lungo il cretto che ha scavato nella roccia, fino a giungere al centro antico. Un cuore ottomano, ricco di vicoli, moschee, minareti, bazar, bar. A fianco si trova via principale di stampo europeo, asburgico, dove trovano spazio i negozi che hanno colonizzato ogni capitale. Un'occhiata alle colline e vi troviamo le distese bianche dei cimiteri islamici, le vecchie ville dalle decorazioni geometriche, le nuove case dei poveri. I grattacieli ed i condomini della città nuova.
Una ricchezza incredibile sembra pervada questa città. Non certo economica, ma identitaria. Religioni, etnie, stili ed influenze diverse in ogni dove. Questa è stata la ricchezza che ha portato Sarajevo dall'Età della Pietra fino al XX secolo ad essere un crocevia culturale. E proprio quello che l'ha portata, poi, alla guerra civile. 

domenica 20 ottobre 2013

monteacuto



Il sentiero sale ripido dentro al bosco di faggi finchè, senza preavviso, muore di netto. La terra diventa un selciato di pietre, il cielo riemerge dalle fronde e davanti a me si staglia una fila di case contro l'alto e grigio orizzonte. Svolto a destra sulla via di pietre levigate dagli anni, fiancheggiato da basse case di paese, le une strette alle altre nell'antico tentativo di proteggersi vicendevolmente dalle invasioni e dalle intemperie. Oltrepassato uno slargo con la fontana ed il monumento ai caduti, la strada mi porta ancor più verso l'alto, dove deve trovarsi la chiesa la cui campana sento riecheggiare per le valli intorno. Una piazza in salita, una balaustra massiccia sulla sinistra che protegge dallo strapiombo. All'orizzonte si vedono le montagne che delimitano la valle a nord e, in lontananza, il Corno alle Scale, con la sua vetta fagocitata dalle nubi.
Montacuto delle Alpi è un paesino perso tra i boschi ancora lussureggianti dell'Appennino emiliano, ad un passo dal confine con la Toscana. Dalle valli profonde e verdi si erge la ripida conformazione rocciosa sulla quale dal Duecento sta assiso l'avamposto umano costituito da tre file di case disposte lungo due strette vie parallele. Due vie che poi sono, in realtà, sempre la stessa stretta ad anello. In queste tre file di casupole abitano ufficialmente le 29 anime che mantengono ancora vivo questo baluardo di antichità appollaiato sul crinale.
Il cielo è plumbeo, l'aria silenziosa non sa se dar sfogo alla tempesta rimanendo, nel frattempo, minacciosa. Intorno le valli annegano nelle nuvole basse nascondendo alla vista anche i pochi paesini e lasciandomi l'illusione di essere solo per chilometri e chilometri. Prima di imboccare nuovamente il sentiero mi trovo sulla destra una bassa costruzione di poco più di una stanza che si presenta come museo del quarzo. Al tavolino di fronte all'ingresso sta seduto un uomo tutto intento a lavorare con il suo MacBook Air bianco. Sulla parete leggo una targhetta incorniciata in plexiglass: per gentile concessione di una società di Reggio Emilia il paese è dotato di una rete wi-fi che gli permettere di non essere, nonostante tutto, completamente escluso dalla modernità.