sabato 24 luglio 2010

puntina


Ci passi giorni su quella sensazione, come una puntina di grammofono su un disco incantato, senza capire bene cosa sta leggendo. Lo ripete, instancabilmente, una nenia da vecchio paranoico. Alla fine, a furia di non capire e di cantilenare gli stessi versi, è la puntina che si sente presa in giro dal disco, incastrata nel suo roteare circolare e infinito.

E così tu. Assorbito da una nube di sensazioni che non riconosci, che stanno dentro di te ma che non riesci ad interpretare, che ti prendono per la gola invece che per mano. Schiavo di un mancato linguaggio di conversioni tra il tuo corpo e te, tra il tuo io interiore ed il tuo io cerebrale.

È lì che ti chiudi nel silenzio, convinto che escludendo il resto, ripulendo l’aria dal rumore del mondo e concentrandoti sulla tua musica, quella musica che tale non è più, distillando le tue parole inespresse possa arrivare a capirle.

E non è che tu non le veda le facce di chi ti sta intorno, di chi ti guarda tentando di aiutarti a uscire da quel vortice, a decifrarti. Ma è un affare che non li riguarda. È un affare tra te e i tuoi demoni interiori.

È una sfida eterna, ancestrale e infinita.

giovedì 1 luglio 2010

boiler a pressione


Mi ricordo perfettamente.

La luce giallognola sulla mia testa, il tavolo aperto, grande nel piccolo tinello. La TV sul mobile, spenta, e fuori il buio invernale. Io stavo chino sul quadernone a righe. Impugnavo la penna con rabbia e frustrazione crescente. La sentivo salire dentro di me, montare fino a sibilarmi nelle orecchie. E allora sbottavo. Scoppiavo e lanciavo tutto per aria constatando l’esito delle mie follie riflesso nello schermo cieco del televisore.

Son passati anni. Tanti che quasi non riesco a crederci che ero io quel bambino seduto sulla sedia di paglia. Sembra la vita di qualcun altro che mi è stata raccontata e io mi ci sono immedesimato. Ricordando dettagli, colori delle penne, dimensione delle righe, taglio di capelli, atmosfera.

Son passati anni. Eppure certe cose non cambiano.

Cambiano gli oggetti, le parole, l’espressione eclatante dei gesti. Ma la base, la radice, quella è rimasta la medesima. La rabbia per ciò che mi fa sentire inadeguato, insoddisfatto, frustrato, che corre sotto pelle, paralizzando la lingua, inamidando il cervello. E cresce. Cresce in un fremito che presto non si può trattenere, sbuffa e scoppia spargendo intorno a se schegge di piccole violenze e brutalità.

Son passati anni. E sono ancora io. Quel bambino che faceva le elementari e chiedeva solo di stare al parco a tirar calci ad un pallone.