venerdì 29 ottobre 2010

dia 6: amer



La Via Verde risale lungo il corso del fiume fin dove le nuvole si fanno più nere.

Ed è all’ingresso di Amer che si incontrano.

Il primo passo sul selciato antico del paesino viene battezzato da uno scroscio del cielo. Ancora una volta, come un’amichevole pacca sulle spalle, come se si fosse trattenuta appositamente fino all’ultimo, la pioggia cade su di noi a sera, sugli ultimi chilometri della giornata.

Sul bordo dell’abitato un tetto a ponte tra due edifici copre la stradina. Ci ripariamo un attimo ed entriamo in paese. La piazza principale, un bell’esempio di spazio porticato in pietra, circondata da edifici signorili, è gremita di gente. Stasera è la serata conclusiva della feria, la sagra di paese, e tutti sono in fibrillazione. Ci rechiamo in Comune per vedere se ci possono ospitare, ma i preparativi e l’imprevisto pioggia hanno totalizzato l’attenzione dell’unico funzionario. Facciamo quattro chiacchiere con la mezza dozzina di ragazzi che si trovano lì, incuriositi da questi due occhialuti cenciosi, che si presentano alla loro porta con zaini e tenda a seguito, e poi ci rechiamo alla pensione.

Doccia, cena e letto. E le voci della festa si spengono sotto lenzuola stirate e coperte di lana.

giovedì 28 ottobre 2010

dia 6: melodie sospese


Dopo aver raccolto le acque della regione vulcanica della Garrotxa e del basso Pireneo il Ter scende verso il mare. Una sessantina di chilometri prima di vedere l’alba nel Mediterraneo abbandona le valli strette e si adagia in una larga e fertile lingua di terra, un declivio che serpeggia verde e rigoglioso fino alla periferia di Girona. È qui che, senza preavviso, ci ritroviamo nell’America coloniale.

Mentre camminiamo attraverso una ricca ed alta vegetazione, ancora frastornati fisicamente e mentalmente dalla quantità di chilometri macinati il giorno prima, delle visioni oniriche spazzano le nostre retine dagli ultimi ricordi urbani. A lato del sentiero battuto,appena oltre un cordolo di terra e sacchi che canalizza l’acqua del fiume intorno agli orti, crescono piantagioni di neri. Nel sole del sabato mattina, avvolti nei loro abiti tradizionali, si aggirano per gli orti, raccolgono le loro verdure in carrelli dei supermercati, su mountain bikes, in passeggini. Colorati e silenziosi si piegano a raccogliere il frutto della terra. Ed è un attimo aspettarsi un canto, intonato dal lontano Ottocento e mai spento. Un canto di gloria e sofferenza, una melodia malinconica intonata da sorrisi d’avorio.

E invece niente.

Evidentemente la civiltà ha colpito anche loro, epidemia necessaria ed inevitabile del vivere moderno.

centimetri quadri


Sono lì che cerco di affogare il tempo con il solito inutile schema, che non ha mai portato a nulla di buono ma che continua a prendere possesso di me quando abbasso la guardia. Guardo lo schermo e le mie azioni sono al rallentatore. Il timoniere della mia nave a quanto pare è andato a sbronzarsi da qualche parte ed io son rimasto qua, a manovrare da solo sartie e issare vele senza saper dove andare. E gli occhi non mentono. Spenti e fissi, appoggiati su un orizzonte molto vicino.

È in quest’apatia che un pensiero, forse nascosto nella stiva, naufrago reduce da chissà quali avventure, si insinua nella mia mente, scalzando il vuoto, chiudendo la porta dietro di sé.

Ecco perché essere nomadi aiuta. Ecco perché sento il bisogno di tornare a viaggiare quando le insoddisfazioni si ammucchiano, calcificandosi.

Perché non avere nulla da difendere, nulla da proteggere rende più obiettivi. Quando non si ha paura di perdere qualcosa è facile essere onesti. Onesti e semplici.

E allora, almeno per un momento, vedo queste 4 righe che cerco di disegnare da ore per quel che sono. Vedo finalmente le mie mani, fuori dalle icone virtuali. Le facce intorno a me, assorte e concentrate. La luce che penetra il policarbonato rendendo lattiginosa l’aria dello stanzone a doppio volume. Vedo, senza occhi, i tetti delle case, il Comune, la stazione. Vedo colline, boschi e cieli. Vedo improvvisamente tutto quello che non è qui, l’immensità del reale. E poi torno sullo schermo. Ed è un sorriso quello che spazza il cuore.


“Se sei pronto a lasciare il padre e la madre, e il fratello e la sorella, e la moglie e il figlio e gli amici, e a non rivederli mai più; se hai pagato i tuoi debiti, e fatto testamento, se hai sistemato i tuoi affari, e se sei un uomo libero, allora sei pronto a metterti in cammino.”

“Vorrei, nei miei vagabondaggi, far ritorno a me stesso.”

H. D. Thoreau

lunedì 18 ottobre 2010

dia 5: girona



Ancora una volta persi. È da 3 ore che vaghiamo nell’assolata terra della provincia di Girona in cerca di un segnale ufficiale del cammino, di un cartello. E invece non riusciamo a far altro che rimbalzare da un paese all’altro, approssimativamente vicini al percorso ufficiale.

Finchè non arriviamo all’ennesimo cantiere dell’alta velocità. Un grande viadotto appiana la depressione fra due colline con una linea netta e precisa di cemento armato.

E allora non può non tornarmi alla memoria “Il sentiero degli Dei”. Ancora una volta le grandi opere cancellano i piccoli sentieri, il cemento disperde i viandanti, una velocità impensabile azzera la naturalezza di un passo che ha il ritmo del respiro ed il tempo del pensiero. E ciò che resta, traccia glabra sulle curve naturali, è una lingua disboscata di terra che le piogge han trasformato in un pantano inattraversabile.

Mentre intorno cresce lo sconforto per la rotta persa, per il caldo cocente e le ore di cammino che prevedibilmente ci porteranno in città disfatti a tarda sera, dentro cresce un senso ancora maggiore di disfatta. Quella di chi si sente privare di bellezze naturali, di un patrimonio collettivo vivo, in nome del progresso.

martedì 12 ottobre 2010

dia 4: pontòs



Acqua. Acqua. Acqua acqua.

Pioggia battente ed incessante da ore e ore sulle nostre teste. Non abbiamo un solo lembo di corpo o di vestiti che non grondi sotto questo cielo grigio. E poi fango, strade sterrate, occhiali appannati. Tutta questa pioggia ci sta fiaccando più che nel fisico nel morale.

È da pranzo che ha cominciato a piovere. All’inizio ci siamo riparati sotto il tendone del bar di Figueres, poi dentro la cattedrale, mentre un fiume scorreva rapido per il selciato e metteva in fuga la folla in coda per il museo Dalì. È stato lì che, approfittando della sosta forzata, siamo riusciti ad ottenere le ultime 2 credenziali disponibili prima di arrivare a Girona. Ripreso il cammino, appena attraversato il quartiere industriale un diluvio si è abbattuto su di noi. Intorno non c’era un riparo. Un terrazzo, una pensilina, un albero. Niente. Quello che restava erano campi, una rotonda ed un filare di case sulla sinistra. È stato lì che, appiattiti con lo zainone alla parete della casa, insperatamente ci è stata aperta la porta di un androne e siamo stati invitati a entrare. Quattro chiacchiere con un simpatico signore, qualche indicazione per non perderci e poi via, nuovamente sotto la pioggia battente. E così dal primo pomeriggio stiamo camminando in questi campi, continuando a dubitare ogni qualvolta i segnali scompaiono per qualche tempo.

È ormai tardi e sta scendendo la sera dietro le nubi quando ci perdiamo per l’ennesima volta poco prima di entrare nel paesino che dovrebbe accogliere la nostra pensione, a Pontòs. Stremati ed inzuppati rasentiamo le pareti del paesino, tentando di capire come arrivare alla statale ed alla nostra meta. Anche perché in paese non c’è un’anima viva, né tanto meno qualche negozio aperto. Mentre sfiliamo come gatti di cellophane per la strada principale intravedo qualcosa e d’istinto mi fiondo dentro a una porta illuminata. È l’Ayuntamento, il Comune, stranamente aperto a quest’ora tarda. Ormai senza più remore appoggio lo zaino zuppo al suolo e salgo al piano di sopra. Qui mi viene incontro un funzionario e mi chiede chi cerchiamo. Gli spiego che siamo pellegrini e che vorremmo sapere se ci sono pensioni aperte in paese. Lui mi guarda di traverso e mi dice: “Non ci sono pensioni in paese”. Eppure la guida diceva che la pensione Sant’Anna … “Sì, ma quella sta molto fuori dal paese, almeno un’altra ora di cammino. E poi, in ogni caso, l’hanno chiusa qualche anno fa. Non ci trovereste niente”.

Silenzio. Il morale è finito a far compagnia ai calzetti, zuppo e sporco anche lui.

Ma tanto ormai non abbiamo niente da perdere.

“Voi non avete un posto qui in comune dove poter ospitare 2 pellegrini?”. La domanda sembra sorprendere tanto lui quanto me. “Veramente … Ma volete dormire qui?” “Guardi, non ci sono altri paesi per almeno altre 2 ore di cammino e siamo senza tetto né cibo. Se ci poteste dare un posto dove non piova…”

È così che, dopo una mezz’ora, veniamo portati in una casa-colonia. Qui un certo numero di famiglie non proprio benestanti portano i figli a passare l’estate. Accettiamo al volo il prezzo che ci propongono per la sestupla a castello, i bagni in comune, la cena e la colazione.

Dopo aver fatto una bella doccia bollente e aver messo in lavatrice calzetti e magliette, scendiamo a cenare nel grande salone dove ci aspetta una cena degna di un re. E mentre addentiamo la carne esausti e felici come non mai, dalle finestre penetra una strana luce arancione. Un tramonto sereno all’orizzonte che preannuncia una notte altrettanto serena e al caldo.

giovedì 7 ottobre 2010

dia 3: peralada




Le previsioni della guida dicevano che mancavano pochi chilometri alla meta, eppure i cartelli lungo la statale non indicano nessun paesino conosciuto. Probabilmente abbiamo perso qualche bivio, penso, e per questo stiamo camminando da diversi chilometri lungo il ciglio della strada nazionale, a lato di automobili e camion.

Abbandoniamo la carretera nacional all’incrocio con Garriguella, ormai certi di aver allungato il già lungo percorso della giornata. Percorso che era iniziato di buon ora sulle spiagge di Port de la Selva per inerpicarsi lungo la ripida boscaglia assolata che porta a Sant Pere de Rodes, monastero da cui ufficialmente inizia il cammino catalano. Una salita senza bagagli nell’afa del primo pomeriggio ci aveva portato in cima al castello che domina il monastero e tutto il golfo su cui si trova Port de la Selva, dai Pirenei al Cap de Creus. Poi la discesa nella calura pomeridiana, tra cespugli e bassi arbusti, con sentieri non segnalati, perdendoci una quantità incredibile di volte. Il bar dove avevamo fatto pranzo alle 5 del pomeriggio e da dove avevamo visto arrivare da dietro la catena montuosa nuvole minacciose e cariche di pioggia.

Ed ora eccoci qua. Dai rilievi di sud-ovest, alla nostra destra, avanza inesorabile una perturbazione nera, pesante, che si scioglie sulla pianura in scrosci diagonali. Dal mezzo di campi sconosciuti vediamo venirci incontro la tempesta, i fulmini crepare il cielo fino all’orizzonte, calare la luce della sera fin troppo presto.

Proviamo ad accelerare il passo, ma ormai le energie sono finite e le gambe procedono come automi all’unico ritmo che riescono a sostenere. La lingua è morta in bocca già da tempo ormai. Gli occhi, testimoni vigili e instancabili, continuano però a registrare tutto. La piccola collina che si innalza nel mezzo della piana, ulteriore fatica da superare. E sulle sue pendici il grande quartiere recintato con filo spinato, video sorvegliato, con polizia privata, ingresso regolato da scheda e codice. Un’enclave di ricchi raccolta intorno a quello che ai nostri occhi appare il nulla perso nei meandri dello sconosciuto.

Stiamo mettendo piede dentro il primo bar di Peralada quando il cielo comincia a scaricare intorno a noi raffiche di acqua. Privi di forze per riconoscere a parole la fortuna che ci ha assistito ancora una volta, ci sediamo ed ordiniamo una meritata birra, unico pasto della serata. Poi, rapidamente, il cielo torna fluorescente sotto le luci del tramonto. Ed il riposo è una soddisfazione fisica.

Non importa che poi Peralada risulti un paesino così ricco, turistico e d’elite, da non avere neppure una stanza libera. Non importa neppure che abbia ricominciato a piovere e che dovremo cercare un posto dove passare la notte sudati e appiccicati nel ventre della tenda. Perché ancora una volta qualcuno ci assiste e dietro l’abside di una chiesina fuori paese si trova un magnifico spiazzo in terra battuta coperto da platani, al confine tra la nazionale ed il fiume.

dia 2: cap de creus_2



Ok. Abbiamo calcolato male il caldo, la fatica, la distanza. Ma soprattutto una cosa. L’acqua.

È da ore che siamo in cammino sotto il sole cocente di agosto nella riserva naturale del Cap de Creus e non abbiamo ancora individuato il cammino ufficiale. Continuiamo a perdere la direzione, a vagare per brulli promontori che si fiondano in mare. Le segnalazioni sono praticamente assenti, il caldo ci cuoce le teste, gli zaini tirano sulle spalle, sulle clavicole. Non abbiamo cibo per ristorarci a pranzo, e l’unico centro abitato che incontreremo sarà la meta finale, stasera, a Port de la Selva. Una sorta di miraggio ancorato nella baia più grande prima della Francia.

Le borracce sono praticamente alla fine quando vediamo sull’approssimativa cartina turistica che se effettuiamo una deviazione di meno di un’ora possiamo raggiungere una piccola caletta in cui sembra ci sia una spiaggetta e la possibilità di bagnarci. Assillati dal caldo cocente e dal desiderio di refrigerio decidiamo di provare. La discesa lungo un sentiero non segnato verso una meta ignota che neppure fa parte del nostro cammino trasforma i nostri passi in una sorta di attesta speranzosa.

Finchè la vediamo. Una caletta cristallina di sassi chiari, con qualche motoscafo ancorato a pochi metri dalla riva. Buttiamo gli zaini a terra, togliamo le scarpe, le magliette e i pantaloni e ci fiondiamo finalemente in acqua.

Lo shock è istantaneo. L’acqua è ghiacciata. Freddissima e cristallina come acqua di fonte. Tanto da togliere il respiro. Un tuffo veloce e riemergiamo. Bagnati e contenti ci sediamo di fronte al mare e all’orizzonte. E mentre intorno a noi continuano ad arrivare turisti francesi che non si curano minimamente di due campeggiatori che fanno il bagno in mutande, pranziamo con i pandistelle rimasti dalla colazione.