domenica 26 maggio 2013

rosso


Le piogge dei giorni scorsi hanno fatto il loro lavoro ed i corsi d'acqua sono colmi. Il canale è ora un fiume, largo e irruento, di un verde limaccioso. Solo l'odore fetido è rimasto lo stesso.
Mi addentro per il sentiero che lo costeggia, accovacciandomi al di sotto di alberi franati al suolo, scavalcandone altri. E poi, poco prima di Corticella, ecco che l'argine si rifà ampio e compaiono piccole costruzioni provvisorie, baracche e strutture di giunchi a sostenere reti da polli. Raggruppati trai recinti di un orto scorgo alcuni ragazzi di chiara origine andina che stanno consumando il loro pasto domenicale di riso e carne alla brace.

Erano giovani. Tanti non arrivavano ai venti, qualcuno poco più. E qui, su questo sperone a strapiombo sul calanco, su questo trampolino che dà le spalle all'Appennino e guarda in faccia la città felisnea, vennero fucilati. I corpi rotolarono a valle, scaraventati dagli aguzzini, trascinati dalla neve e dalle piogge primaverili.
Qui, in questo luogo affascinante e carico di dramma, si trova il memoriale di Sabbiuno. Una parete in cemento alta come un uomo, fucili smaltati puntati verso la valle. Un groviglio di filo spinato rosso rotola verso il fondo valle, per decine di metri, tracciando l'ultimo viaggio di quei ragazzi, di quei corpi. Fino alla grande croce bianca.

sabato 25 maggio 2013

questa non è una storiella



E io: "Cosa intende dire?"
E a questo punto depose il libro. E mi guardò. E disse: "La vita non è giusta, Bill. Quando diciamo il contrario ai nostri figli, facciamo un grosso errore: non solo è una bugia, è una bugia crudele. La vita non è giusta, non lo è mai stata e non lo sarà mai". [...]
Questo libro dice "la vita non è giusta" e io vi prego, una volta per tutte, di crederci. Ho un figlio grasso e viziato che non conquisterà la donna più bella. E che sarà sempre grasso anche se diventerà pelle e ossa e sarà viziato per sempre e la vita non basterà a renderlo felice, e forse è colpa mia (datemi tutta la colpa, se volete). Il punto è che non veniamo creati uguali, la vita non è giusta. Ho una moglie fredda. È intelligente, stimolante, fantastica. Non c'è amore. Il che può anche andar bene purchè non continuiamo ad aspettarci che tutto in qualche modo si sistemi per noi prima che moriamo.
State a sentire (e gli adulti saltino questo paragrafo). Non voglio dire che questo libro abbia un finale tragico, ho già detto nella prima riga che è il mio libro preferito. Ma c'è del brutto in arrivo, alle torture siete già preparati, ma c'è di peggio. È in arrivo la morte, ed è meglio che afferriate questo punto: muoiono le persone sbagliate. Siate pronti. Questa non è una storiella.

William Goldman - La principessa sposa

giovedì 23 maggio 2013

piuttosto che fare



E quella industriosità anaffettiva che ci riduce a manovali ciechi, cani di pietra, formichine laboriose e incoscienti che non sollevano il capo. Pietre sul greto della storia che si fanno levigare senza opporsi.

Che le cose siano così, non vuol dire che debbano andare così. Solo che, quando si tratta di rimboccarsi le maniche e incominciare a cambiare, vi è un prezzo da pagare, ed è allora che la stragrande maggioranza preferisce lamentarsi piuttosto che fare.
Giovanni Falcone

martedì 21 maggio 2013

contadino



"Guardi Luisa, questa mattina sono venuti .. saranno stati in 5, tutti della mia età. Vengono da me e mi chiedono se ho le pere. Ma io dico, come si fa? In che mondo siamo finiti? Figli di contadini. Perchè quando ero piccolo io in Italia eravamo tutti figli di contadini, chi non era contadino? Io capisco se mi viene un giovane, uno che ha studiato e magari non ha mai visto un pero in vita sua - dice riferendosi a me, in un insulto senza offesa- e mi chiede delle pere a maggio, ma un contadino, un contadino! Vuol dire essere proprio fuori dal mondo. Non lo sanno che le pere si cominciano a raccogliere da metà giugno? Se le vogliono adesso arrivano dall'Argentina. Che mi va bene, va benissimo la varietà. Ma che venga da me, un produttore imolese, di prodotti tipici, a chiedere delle pere a maggio..."

lunedì 20 maggio 2013

sposiamoci



"Io sono il tuo Principe e tu mi sposerai" disse Humperdinck.
Buttercup mormorò:"Io sono la tua serva e rifiuto".
"Io sono il tuo Principe e non puoi rifiutare".
"Sono la tua serva fedele e l'ho appena fatto".
"Rifiutare significa morire".
"Uccidimi, allora".
"Sono il tuo Principe e non sono così male ... Come puoi preferire la morte piuttosto che sposarmi?"
"Perchè" replicò Buttercup "matrimonio significa amore, e non è il mio passatempo preferito. Ci ho provato una volta e mi è andata male e ho giurato che non amerò nessun altro".
"Amore?" disse il Principe. "E chi ha parlato di amore? Io no di sicuro. Ascolta: deve esserci sempre un erede maschio al trono di Florin. Adesso sono io. Una volta morto mio padre, non ci sarà più un erede, ma un re. Sono ancora io. Quando succederà, mi sposerò e proverò ad avere figli finchè non arriverò un maschio. Quindi hai due possibilità: sposarmi e diventare la donna più ricca e più potente nel raggio di mille miglia, regalare tacchini per Natale e darmi un figlio, o morire tra strazi e tormenti, in un futuro molto prossimo. A te la scelta".
"Non ti amerò mai".
"Non saprei che farmene, del tuo amore".
"Va bene, allora sposiamoci".

La principessa sposa - William Goldman

mercoledì 15 maggio 2013

la prossima volta



Certo, avrei potuto dirti che andavamo verso i monti, verso il freddo, verso la neve. Ma dopo come avresti fatto ad arrabbiarti?

Nel paesino non c'era un'anima. Le prime ore del sabato pomeriggio annunciavano bufera, l'aria carica d'inverno pronta a scatenarsi. Tutti erano rintanati dietro spessi portoni, al riparo di camini fumanti.
Noi, seduti sulle doghe in legno del teatro all'aperto, consumavamo i nostri panini combattendo il freddo con una birra gelata.
Infilammo la porta della rocca che fuori cominciava lo spettacolo. Una tormenta coi fiocchi (propriamente) si riversava sul basso Appennino romagnolo sbiancando campi e tetti, cristallizzando uliveti e pinete. Percorremmo il cammino di ronda sferzati dal vento e dalla neve, attenti a dove poggiavamo i piedi. Sullo sperone di roccia di fronte a noi si trovava la torre dell'orologio, la sua immagine raspata dal bianco si confondeva, scompariva a riappariva in una corrente di fiocchi di nebbia.

Ed è da qui, dalla sommità del torrione di Brisighella, in una valle spatolata da una nevicata improvvisa e muta, che penso che effettivamente il piumino ci poteva stare. Magari la prossima volta te lo dico prima.

una mano lava l'altra



L'aria è calda nel primo pomeriggio domenicale. Le strade vuote, nuvole di pollini si sollevano per poi tornare a terra. In questa afa embrionale ci trasciniamo per la ChinaTown bolognese ed entriamo in un bar. Mentre aspettiamo il nostro caffè ci diamo un'occhiata intorno. Una signora non proprio anziana, tiene una piccola bimba dalla faccia lunare sulle sue gambe. Non la culla, non ci gioca, non le parla. Semplicemente la tiene in grembo. Un gruppo di giovani seduti al tavolo fuori stanno giocando a mahjong. Ribaltano grandi tessere che somigliano a quelle del domino e le spostano. Alle mie spalle un accento napoletano discute con un accento cinese.
Per la signora in qualche giorno dovremmo riuscire ad avere tutti i documenti - afferma serenamente la Campania.
D'accordo, e invece come facciamo per la ragazza ed i suoi figli? - si informa l'altro.

Lecito o no, non lo sapremo mai. Ma sembravano tanto due mafie che si davano una mano.

mercoledì 8 maggio 2013

hamami ancora - day 5



Ci dirigiamo a passo spedito in direzione del Gran Bazar. È tardi e tra poche ore dovremo fiondarci all'aeroporto, ma prima c'è una cosa che dobbiamo fare. Ci fermiamo in un piccolo negozietto che straripa frutta sulla strada, prendiamo un succo di melograno ed una spremuta d'arancia fatti al momento, due dolci e ci sediamo su una panchina a fare colazione. Intorno a noi la città si prepara per tornare ad essere quella galassia di mercati che è ogni giorno.
Entriamo nel Hamami Cemberlitas, uno dei bagni turchi più famosi ed antichi della città. L'edificio, progettato dall'architetto Sinan alla fine del XIV secolo, si offre con una corte coperta intorno alla quale corrono 3 piani di ballatoi in legno. Paghiamo e ci dividiamo. Io infilo la scala che mi porta alle piccole cellette vetrate al primo piano. Qui mi spoglio e vesto il telo tipico. Ridiscendo al piano terra ed entro da una grande porta. Immediatamente gli occhiali si appannano e tutto si immerge in una nebbiolina calda. La sala è molto ampia e su ognuno degli otto lati che la compongono si aprono nicchie con piccole fonti. Una maestosa cupola sovrasta lo spazio centrale lasciando penetrare la luce attraverso alcune piccole feritoie a forma di stella. Al di sotto della cupola una grande piattaforma ottagonale in pietra occupa il centro della sala. Mi ci sdraio, respirando affannosamente. La pietra è caldissima, al limite del sopportabile. Come prima cosa devo sudare, mi pare di aver capito da chi mi ha indirizzato qui dentro. E questo lo so fare.
Appoggio gli occhiali e mi rosolo su entrambi i lati lasciando che il pensiero vaghi per le nebbie e le ombre della stanza. Di fianco a me due ragazzi parlano tra loro in una lingua a me sconosciuta.
Poi entra il mio massaggiatore. Prende un guanto di crine e comincia a rasparmi mentre cerca di comunicare in un inglese basilare, al quale rispondo a monosillabi, tramortito dalla manipolazione. Mi sento un po' impacciato, sbattuto in ogni dove mentre un uomo che potrebbe essere mio babbo mi insapona. Said ha il fisico nerboruto e asciutto, il volto ricoperto di rughe, e lavora al hamami da 35 anni. Dopo avermi insaponato mi fa sedere di fianco ad una fonte e comincia a versarmi sulla testa secchiate di acqua bollente da togliere il respiro.
Finito il massaggio torno nella mia celletta e me ne rimango un quarto d'ora in contemplazione del soffitto. Caravanserraglio, madrassa, hamami, moschea. Cerco di immedesimarmi nella grande cultura che permeava l'impero ottomano, a cavallo tra fascino e ripugnanza dell'Occidente. Di certo anche loro, come i romani, sapevano rilassarsi.
Mi siedo trai tavoli della grande corte coperta ed osservo le altre persone passeggiare ai piani superiori, altri turisti come me che non sanno dove andare. Asciugamani vengono stesi ai fili e poi riposti con cura.
Quando mi raggiungi la tua faccia rasenta l'iconografia della visione mistica. E mi racconti del mondo che si trova dentro l'hammami femminile. Delle grandi donnone che ti manipolavano, delle pozze di acqua calda e fredda, dell'aroma, delle ragazze che dal nulla hanno cominciato a dimenarsi in un'improvvisata danza del ventre proprio sopra la grande pietra ottagonale, sotto la scena della cupola. Una visione di altri tempi.

martedì 7 maggio 2013

zeki - day 4



Risaliamo nuovamente la collina per poi ridiscendere in direzione del nostro hotel. Sfiliamo per queste vie silenziose che abbiamo imparato a conoscere, il passo sicuro sotto le stelle. Scolliniamo e ci ritroviamo sul palcoscenico della città, nel giardino dove Aya Sofia e la Moschea Blu si fronteggiano da secoli, silenziose. La fontana è in funzione e lancia nell'aria spruzzi colorati che si stagliano contro il cielo ed i volumi plastici delle due moschee. Gli ultimi reduci della notte, qualche coppietta ed alcuni irriducibili venditori ambulanti presidiano le panchine che circondano lo specchio d'acqua. Ci sediamo a goderci lo spettacolo, consci che domani tutto questo sarà solo un ricordo. I richiami dei muezzin che scandiscono le ore della giornata, come una volta le campane delle chiese. Gli uomini sempre indaffarati a vendere qualcosa, ovunque e qualsiasi tipo di merce, in questa città perennemente in vendita. Le donne intraviste nei quartieri poveri, nei parchi pubblici o in qualche bazar, intente ad arginare l'esuberanza di bambini cenciosi, a tenere insieme case decrepite, a lavorare nell'ombra. I dolci, bombe caloriche ad alta densità, l'onnipresente tè che viaggia per le vie della città su splendidi vassoi in metallo, l'aroma di narghilè, il cibo, ottimo ovunque lo abbiamo mangiato. E mentre ripasso mentalmente quello che questa città ci ha svelato di sè, dal cielo cominciano a scendere le prime gocce, ad interrompere il mio commiato ideale. Lentamente ci alziamo e procediamo sfilando sul lato della Moschea Blu. Lasciandomi alle spalle il parco Sultanahmet mi torna alla mente quando, per andare a casa, dovevo passare tra duomo e battistero, nelle notti fiorentine, sorprendendo la mole ricca e imponente di Santa Maria del Fiore assopita. E la meraviglia era un po' la stessa che provavo guardandoti, mentre dormivi al mio fianco.
Scartiamo tutti gli altri locali tipici e ci fiondiamo nei bassi fondi del nostro quartiere per l'ultima sera sotto l'egida della mezzaluna. La parete gialla e tanti piccoli vasi colorati appesi ci danno il benvenuto al bar reggae. Ci sediamo su poltrone fatte di copertoni e tavoli ricavati da botti in legno. Un ragazzo si avvicina tranquillamente e ci chiede cosa può portarci. Cappello da Indiana Jones, occhialetti, bretelle, torna verso il bancone non prima di averci lasciato la piacevole sensazione di essere in un posto accogliente.
Le birre si inseguono, il narghilè fomenta i pensieri e le parole, le patatine alimentano le disquisizioni notturne. E passiamo in rassegna tutto, passato e futuro, andando alla deriva sulle note di Elvis. Ed è un po' come ritrovare qualcosa, forse qualcosa che non si è mai avuto o che si è sempre temuto. Chissà. Tutto è confuso e sereno, ed i pensieri si fondono alle canzoni.
Zeki, così si chiama, ci chiede di fare una foto con lui e di lasciargli uno schizzo per il bancone. In preda al furore tracciamo visioni oniriche e scritti criptici, riversando sulla carta il manifesto desiderio di tornare qui, un giorno. Come se avessimo trovato un amico.

venerdì 3 maggio 2013

che pesci pigliare - day 4



Ancora una volta imbocchiamo la porta di un bar, piccolissimo, nei meandri di Galata. Davanti al bancone, un semplice e piccolo ripiano in legno,  l'unico tavolo è occupato da alcune ragazze presumibilmente canadesi. Ma non è questo ad averci attirato. Al di sopra del bancone si trova un tavolato in legno, un soppalco, e nascosto da mobili e cianfrusaglie d'epoca intravediamo un paio di sgabelli. Chiediamo di poter salire e l'anziano uomo ci dice che non c'è problema, ma che il tè dovremo portarcelo sù da soli. Per chiarirsi indica la scala: poco più che una scala a pioli.
I mattoni a vista e le voltine intonacate si sposano alla meraviglia con il tavolato inchiodato del soppalco, sul quale si trova il più piccolo bagno che io abbia visto: due pareti in perlinato appoggiate tra la scala ed il muro. Ed intorno a noi c'è un po' di tutto. Uno sgabello di reminiscenze romane, una cornice con un bassorilievo rappresentante un sole, una bandiera della Turchia, una credenza vetrata, scatoloni di ciarpame, bicchierini, tazzine e servizi da tè. Quando finalmente riesco a portare al nostro tavolo i chai, il barista mi urla da basso che lo zucchero lo trovo là, in alto sulla mensola, al di sopra della scala.

Facciamo ritorno nuovamente verso Sultanahmet, dove abbiamo in previsione di andare a mangiare in un ristorante con terrazza vista Mar di Marmara. Imbocchiamo la solita strada che ci porta fino al ponte di Galata ed al mercato del pesce. Il profumo di pesce alla brace che ci inonda è decisamente troppo allettante per ignorarlo e ci attardiamo per l'ennesima volta trai banchi. Una bancarella, una griglia ambulante, offre pesce arrostito. La tentazione è troppo forte e ne prendo uno. Il ragazzo sceglie un pesce cui ha già asportato testa e coda e lo appoggia sulla graticola. Con un arnese simile ad un attizzatoio comincia a spellarlo e poi, con perizia degna di un samurai, incide e spina il pesce senza tagliarlo, con mosse di una rapidità impensabile. Una volta pronto mette il pesce tra due fette di pane, lo guarnisce con insalata, verdure e salse varie e la mia cena è pronta. Per meno di cinque euro. Ottimamente spesi.
Oltrepassato il ponte vediamo la stessa scena sull'altra sponda, ma questa volta i pesci vengono cotti sulle barche attraccate, sorte di piccole imbarcazioni che sembrano uscite da un film su Singapore, ed i panini lanciati direttamente ai clienti che stanno sulla riva.

Mentre consideriamo di ignorare il ristorante per vagare ancora per i vicoli, ci infiliamo nella Moschea Nuova. Da poco i muezzin hanno chiamato a raccolta i fedeli ed il loro canto ha risuonato per tutta la città. Dietro di noi giunge un ragazzo in giacca e ventiquattrore, cammina spedito fino alla fonte. Si lava mani e piedi e poi si infila difilato nella grande sala della moschea. Noi restiamo nel cortile, a guardare le stelle fare capolino trai minareti e a discutere di prospettive. Gli occhi stanchi e contenti di tanto vedere, i piedi di tanto andare.

mercoledì 1 maggio 2013

venticinque aprile



Però, vedete, se voi desiderate prendere una lepre, che le diate la caccia con i cani o col falco, a piedi o a cavallo, resterà sempre una lepre. La libertà, invece, non rimane mai la stessa, cambia a seconda della caccia. E se addestrate dei cani a catturarla per voi, è facile che vi riportino una libertà da cani.

Wu Ming - Altai

narghilè - day 4



Scendendo per Soğuk Çeşme Sokak ci imbattiamo nuovamente in un microscopico bar che avevamo già notato in precedenza. Il chioschino di fatto consiste in un bancone ed una serie di terrazzamenti che seguono la pendenza della strada. Su ognuno di questi, panche in ferro battuto con cuscini ricamati da motivi orientaleggianti raccolte intorno a bassi tavolini. Il sole batte dolce sulle mura di cinta che fanno da scenario alla visione. Un richiamo ineludibile.
Dopo averci portato i consueti tè, il ragazzo ci fa odorare un composto e ci chiede se vogliamo provarlo. Attraversa la piccola stradina, armeggia al piano basso di una casa in legno diroccata e, guardando il gatto che sonnecchia sul divano di fronte a lui, avvicina la fiamma ossidrica per accendere il carbone. Poco dopo ritorna con il nostro narghilè e l'impasto di tabacco e mele comincia a spandere il suo aroma morbido nell'aria.
Un altro ragazzo si siede di fianco a noi sulla panca e comincia a chiacchierare mentre predispone davanti a sè una serie di piccoli recipienti in terra cotta. Ci racconta con un sorriso che questi dieci giorni sono pieni di lavoro, che tanta gente in Europa ha le ferie e viene a passarle a Istanbul. Mentre parla apre un pacco di cellophane, ne estrae il tabacco aromatizzato e comincia a riempire i piccoli contenitori. Li ricopre con abilità uno per uno con un foglio di carta stagnola, la fora leggermente, et voilà, i narghilè per il primo pomeriggio sono pronti.
All'improvviso di lontano si insinua un canto, seguito poi da tanti altri a fargli eco, vicini e lontani. I muezzin hanno cominciato a richiamare i fedeli alla preghiera in tutta la città. I ragazzi si avvicinano all'impianto hi-fi e lo spengono. Non penso siano particolarmente osservanti, non sembra, ma per tutto il tempo della preghiera la musica rimane spenta, mentre loro continuano a lavorare. Come consuetudine, continuano a riempirci i bicchierini di chai, il tè turco, almeno finchè non appoggiamo il cucchiaino di traverso sul bordo del bicchiere stesso. E così, storditi dal sole e dal tabacco, ci spostiamo in cerca di un posto dove mangiare qualcosa.
Risalendo nuovamente verso Aya Sofia adocchiamo un locale che ci ispira fiducia ed chiediamo due kebap da portare via. Mi volto per cercare la cassa e mi ritrovo una sorridente ed allucinata faccia dai lineamenti inconfondibilmente nipponici che mi domanda se abbiamo già ordinato. Gli rispondo di sì e lui, tutto felice, mi chiede se sono italiano. Sì, perchè? - mi informo incuriosito. Perchè solo gli italiani invece di dire yes dicono yeeeeeeeeeeeees. E ci facciamo quattro risate.

Il parco Gülhane si estende tra Aya Sofia, il palazzo Topkapi ed il Corno d'Oro. Giardini ben tenuti, erba rasata, grandi sempreverdi secolari a fare ombra ad aiuole disegnate da fiori sgargianti. Sugli alberi ancora spogli si intravedono le cicogne ed i loro nidi, mentre grandi merli e piccoli pappagalli ci volano intorno.
Ci sdraiamo nel sole finalmente caldo del primo pomeriggio e divoriamo i migliori kebap che abbiamo mai assaggiato, attorniati da gruppi di turchi e turisti che fanno lo stesso. Il tempo diventa labile, si scioglie il nodo del "fare" e compare uno strano senso di pace che non conosco. Prendo uno dei miei libri preferiti e comincio a leggere. E così, al di sotto del palazzo del Sultano, comincia a farsi strada nella mia mente una campagna lontana ed una fattoria, quella di Mato Rujo, che dimora cieca, scolpita in nero contro la luce della sera.