martedì 31 marzo 2009

a un passo dal mare


Chiudo la porta e porto a spasso il mio corpo nella notte. Un vento caldo mi incoraggia soffiandomi alle spalle, mi passa sulla testa, e porta con sé le grida scomposte di un qualche uccello notturno. Evidentemente non sono l’unico che non riesce a dormire stanotte.
I miei passi risuonano felpati in questa esposizione dell’assenza dell’uomo. Case a riposo, luci stradali a rischiarare il vuoto, stelle annoiate in attesa del mattino.
Il vento mi accompagna, come sempre, al mare. Le nuvole grigiastre ritagliano brandelli di cielo nero, mentre sotto il mare mi accoglie con fusa fragorose, con sorrisi di spuma. L’acqua sale al di sopra della passerella per le navi, infrangendosi e mandando alti spruzzi nell’aria. Poi si ferma, con onde elastiche, a breve distanza dai miei piedi.
E lì, cullati da quell’eterno fluire che lava le menti, da quel rumore bianco nel buio, i miei pensieri tornano a correre.
Non sarebbe nulla, in fondo, se la notte non trasformasse la solitudine in tristezza.

domenica 29 marzo 2009

la fabbrica


Non era neppure tanto lontano.
Si trovava alla fine del villaggio creato decenni prima da un gruppo di hippies europei. Avevano deciso di popolare le sponde del fiume senza urbanizzarle, godendo nello stesso modo dello splendore della natura e delle sue insidie. Avevano costruito abitazioni rozze ma accoglienti, assurde e divertenti. Colorate.
E fu proprio nelle menti di quel manipolo di pazzi che venne partorita questa assurdità.
Dare al cielo colore e alla terra sollievo. Un volto al vento e un riparo alla luce.

Là, dove il canale svoltava leggermente verso nord, nascosta dalla fitta vegetazione, proprio là si trovava la fabbrica.
La fabbrica delle nuvole.

martedì 24 marzo 2009

Enjoy the silence - Depeche Mode


Words like violence /Break the silence
Come crashing in /Into my little world
Painful to me /Pierce right through me
Can't you understand/ Oh my little girl

All I ever wanted /All I ever needed /Is here in my arms
Words are very unnecessary / They can only do harm

Vows are spoken /To be broken
Feelings are intense /Words are trivial
Pleasures remain /So does the pain
Words are meaningless /And forgettable

All I ever wanted /All I ever needed /Is here in my arms
Words are very unnecessary /They can only do harm

Enjoy the silence

grumi di male


A volte i pensieri si inceppano. Una sorta di indigestione mentale. Si raggrumano, contorcono, annodano. Si creano dei boli di incomprensione dietro la retina. E non ci sono parole che riescano ad esprimerli, non ci sono razionali spiegazioni che ci possano venire in aiuto.
Allora, a volte, è il corpo a parlare direttamente. Quando la lingua è inutile e il cervello resta stupido di fronte alla vita, allora, forse, la pelle può esprimere quel disagio che non ha logica. Lo scempio che facciamo di noi stessi, del nostro tempio, è questo che vuole affermare: il bisogno di cicatrizzare un dolore sulla pelle, di dare consistenza fisica a un grumo nero di incomprensibilità che ha sede solo dentro di noi.
Curiamo l’indigestione espellendo ciò che non è stato assimilato, vomitiamo angoscia e ne vogliamo portare i segni su di noi.

prima vera festa di sant'ellero


Usciamo dalla stazioncina e ci incamminiamo lungo la strada che si insinua sul pendio. Girata la curva, dietro un cartello con un elefantino rosso, ci appare la nostra meta, in tutta la sua iconica bellezza da Mulino Bianco.
La collina sale lieve davanti a noi, pettinata dai tanti rasta disciplinati della vigna. Al di sopra, sul crinale, illuminata dall’ultimo sole di una gelida giornata tardo-invernale, si affaccia la cascina. Come riesumata dall’immaginazione collettiva dei bambini che siamo stati, la cascina sembra incredibilmente bidimensionale, con il tetto a doppia falda e le quattro finestrelle al di sotto. Separato dal cortile si trova il fienile, un'altra casupola, un po’ più piccola. E alla sua destra, a completare il disegno, un albero. Uno solo, con la chioma alta e folta.
Qui vivono in 13. Ragazzi e ragazze che han deciso di abbandonare gli agi della città per tornare alla semplicità della vita comunitaria. Non ci sono recinti a proteggere la casa, non ci sono chiavi nelle porte. La vigna Frescobaldi costituisce l'ingresso al cortile. Non ci sono termosifoni. Ogni stanza è fornita di una stufa e la legna viene tagliata nel bosco che si trova al limite del campo.

Seduto in un angolo, col profilo leggermente arrossato dalla luce che illumina la parete, Martino sta leggendo. Sopra di lui, appeso, impiccato o consacrato come un dio pagano, sta il telaio di una bici da corsa. Una splendida carcassa cromata a pulita. A fare da quinta a tutto ciò è la polverosa e pietrosa stalla dove noi siamo seduti, alla rinfusa, su tronchi di legno, poltrone sfondate, sedie da campo. Il freddo entra dalla sbilenca porta in legno e dai vetri rotti della finestra. Una ragazza-donna apre una lattina di birra, mentre con l’altra mano sorregge un bambina di pochi mesi, avvolta nella sua salopette termica.

Poi Stefano si alza, prende la parola. È impacciato. Racconta brandelli di storia tentando di tracciare la deriva di una vita improvvisamente sfrattata e gettata in strada. Tentando di scrivere nelle nostre menti la traiettoria di 4 anni passati su un destriero meccanico per sottrarsi all’inumanità dei centri per i senza tetto. Vola, Stefano, sulla sua bici, con la sua casa appresso. Vola nei racconti senza sapere dove andrà a finire né cosa non dirà.

È l’ora della pizza. Di fronte al gigantesco forno a legna della rimessa i pizzaioli fanno il loro lavoro mentre la gente si raduna in attesa del cibo, fa la fila per il vino, si scalda di fronte al bidone di latta che brucia nel cortile, o intorno alla banda dei Fiati Sprecati.

mercoledì 18 marzo 2009

borse sotto gli occhi e valige dentro


Sarà l’età. Sarà che avevo cominciato a dare un ordine a un po’ di cose.
Sarà che ero praticamente certo di partire per i ghiacci e mi ritroverò ad arrostire nel deserto.
Sarà che le persone volute e conquistate è più difficile abbandonarle di quelle semplicemente incontrate.
Saranno tante cose.
Fatto sta che stasera uno strano gorgo vuoto mi gira intorno e chiede di essere saziato solo dal silenzio.
E già preparo le valigie nei miei occhi, carichi di addii. Così tanti che ormai stanno cominciando a perdere significato. Così tanti che ti fanno chiedere, poi, se abbia senso dire ogni volta addio.

mercoledì 11 marzo 2009

utopia del tempo libero


Non sono più la natura o la strada che costituiscono luoghi di divertimento popolare ma la televisione poiché, per la maggioranza delle popolazioni che abitano nelle città, il consumo visivo della natura esige dai più poveri spostamenti onerosi. Poiché gli spettacoli della televisione sono gratuiti, il loro consumo è senza limite, e il fatto che essi non implichino sforzo personale o collettivo dà loro un vantaggio enorme rispetto alle altre attività pubbliche gratuite che richiedono sforzi intellettuali. […] La diffusione massiccia dello spettacolo attraverso la televisione […] fa una grande concorrenza alle attività socializzanti.
[…] Non si tratta di rimpiangere il passato ma capire che non è per mancanza di tempo che gli individui non socializzano e restano solitari: è perché le tecniche ludiche disponibili esercitano la loro attrattiva sulle scelte individuali. Perché inventare e dar prova di spirito creativo quando un prodotto dà a domicilio l’illusione di vivere con il mondo?
[…] Uno spettacolo alla televisione è gratuito; un concerto, un posto al cinema, al teatro, un posto in uno stadio sono inaccessibili per coloro che hanno i redditi pià bassi poiché il mercato è il più efficace sistema di selezione del divertimento.
(Daniel Mothé – L’utopia del tempo libero)

acqua sulle pietre


La sveglia suona prima dell’alba. Ancora una volta. Mi vesto, prendo zaino e chitarra e sono fuori.
La stazione di Pordenone ci aspetta sotto una penombra che annuncia il mattino. Saliamo sul treno e inforchiamo i nostri lettori mp3. Apro il libro e mi affondo in una terra straniera, il Giappone di una ventina di anni fa. Fuori intanto il mondo cambia. Il sole sorge, le montagne lasciano il posto alla pianura, la nebbia padana mura il mondo dietro una cortina pesante. Tutto mi passa sopra come acqua sulle pietre.
Scendo alla stazione di Bologna. Compro un biglietto per il primo treno che porti verso sud, non importa quando. Il tempo non ha più significato quando si è in questa condizione. Il cervello ha smesso di giudicare continuamente ogni stimolo e tutto passa attraverso, come in una sorta di fitodepurazione del mondo. Quel che resta è una sensazione atemporale, un’euforia contenuta che sorvola tutte le preoccupazioni. La mente ancora intorpidita dal sonno, dalla musica e dal Giappone, ogni cosa galleggia senza peso in un mare di irresponsabilità.

giovedì 5 marzo 2009

a piedi nudi nel mondo


Improvvisamente, mentre leggo Murakami, mi rendo conto che quella che è sempre stata una mia mania, un delirio incosciente dei momenti di vuoto, si rivela essere uno strumento di conoscenza più profondo del previsto. Ne avevo il presentimento, però mai era stato così lucido.
Il mio vagare per le varie città, camminando da solo, è stato un modo per “conoscere”. Baricco diceva che i suoi personaggi misuravano il mondo col compasso preciso dei loro passi, e anch’io mi sono spesso sentito così. Macinare strade e selciati al di sotto delle suole è un’esperienza di una semplicità e radicalità estrema. Il cervello come una spugna pronto a recepire i segnali che il mondo comunica. A farsi trascinare dagli odori per i vicoli, dalle luci, dai colori, dalla vegetazione, dai suoni. È il modo in cui l’animale metropolitano riscopre che il mondo può essere interpretato secondo segnali che non sono necessariamente quelli convenzionali ed espliciti, le insegne e le indicazioni. L’istinto sopito interpreta e prefigura scenari. Torniamo ad essere predatori urbani, riconoscendo in piccoli dettagli la possibile presenza di realtà nascoste e insperate.
È come se i piedi, con il loro fagocitare traiettorie, conoscessero senza aver bisogno di una risposta cosciente del cervello. È una risposta animale, quella che registriamo. Quella che la logicità della civiltà, che sostituisce il mondo con la sua spiegazione, ci ha atrofizzato. Quella che i lettori mp3 rendono sorda. Che i cartelli rendono cieca. Che i fast food annichiliscono e i mezzi di trasporto rendono una melma indistinta costituita di costellazioni di interesse collettivo e riconosciuto.
E forse Christiania in questo ha avuto il suo ruolo fondamentale.

norwegian wood - murakami haruki

Una scrittura leggera ed eterea, come tende al vento primaverile.


Quello che lei cercava non era il mio braccio, ma il braccio di qualcuno. Quello che cercava non era il mio calore, ma il calore di qualcuno. Mi sentivo quasi in colpa a essere io a occupare quel posto.

A nessuno piace la solitudine. Ma non mi faccio in quattro per fare amicizia. Così evito un po' di delusioni

Sono troppo abituato a me stesso per voler cambiare.