sabato 24 aprile 2010

lontano dagli occhi


Certe cose non passano. La gente è convinta che se il sintomo scompare, lo stesso faccia il male. Beh, non è così. È come dimenticarsi che l’ombra esiste perchè esiste qualcosa che la crea. Però anche se l’ombra scompare l’oggetto continua ad esistere.

Quello che sembra un ritorno alla normalità non è altro che stanchezza. Stanchezza di noi stessi. Perché alla lunga non ne possiamo più di sentirci così infelici e allora sorridiamo. Qualche bellezza ci rapisce momentaneamente e tutti intorno sono convinti che la crisi sia finita.

Certe crisi non finiscono. Semplicemente ci entrano dentro e ci conviviamo. Assumiamo la dose di dolore provocata come un livello base, ci abituiamo e andiamo avanti. Non è che non faccia male, ma non fa più scalpore.

mercoledì 21 aprile 2010

uno specchio


A volte sono uno specchio. Una superficie riflettente sulla quale ognuno può riconoscere se stesso.

Adeguo il mio agire a quello che la gente si aspetta, mi travesto da ciò che mi immaginano essere.

Allegria, spensieratezza, ironia, profondità, professionalità, noia.

Non è per piaggeria, mancanza di carattere o superficialità. No, tutt’altro.

I camaleonti l’hanno capito tanti anni fa. Non è per compiacere la natura che si mimetizzano. È per nascondere se stessi dall’invadenza del mondo; per tenere alla larga chi dentro il nucleo duro e fragile non deve entrare.

In fondo è ancora un modo per fare della solitudine la propria arma di difesa.

lunedì 19 aprile 2010

due contro il mondo


Sono quelle sere in cui vorresti che fosse inverno, freddo e buio. Quelle sere in cui tutto ciò che desidereresti è della pietra dura e ruvida a ricoprire le pareti di casa, un grande camino a bruciare rabbioso, una bottiglia di whisky a lasciare aloni sul pavimento grezzo, qualche tappeto, un divano vecchio e scomodo, un po’ di polvere sulle mensole, una chitarra e un amico. Un vero amico.

Questo è tutto quello che richiedono queste sere. Il freddo pungente del mondo che si annulla nei silenzi e nelle parole di chi ti conosce bene.

sapori sonori


Mi stendo sul prato a godermi finalmente gli ultimi raggi con negli occhi il sapore nuovo di un luogo conosciuto e riscoperto da straniero. Mi stendo con il mio sacco a pelo come cuscino pronto a contemplare la sinfonia della natura e del caos umano in festa, ma quel che sento resetta dalla mia testa ogni immagine e sapore appena creato.

È un accento. Una risata, una melodia che conosco. Non con queste voci, ma con la stessa allegria, la stessa voglia di vivere, la stessa forza.

È un gruppo di spagnoli sdraiato a rosolarsi al sole e a trasformare il tempo in compagnia. Improvvisamente si apre il baule dei ricordi e vengo sommerso da immagini in fuga, polaroid del passato e colonne sonore dimenticate. Sono dipinti di spensieratezza, di vita di strada, di tempo rubato coi denti alla normalità, di viaggi, follie e solitudini curate sul campo. Sono suoni di cañas, profumi di chorizo, gli schiamazzi del Salvador, i flamenchi improvvisati delle stradine interne. Cene a base di parole e birra, e poi ancora più indietro, confondendo i ricordi con le sensazioni, i colori con i suoni.

E così, mentre intorno Boboli si gode la sua prima domenica di primavera, dentro di me uno strano magma agrodolce si culla al suono di una lingua straniera.

martedì 13 aprile 2010

lo sterminio di torri


Pensieri come vento che soffia tra le orecchie e non ti lascia dormire.

Pensieri di stupide classifiche di vita, di errori continui a condannarci, immagini e desideri di nuovi abbandoni, di nuovi addii, anche senza nuovi inizi.

Forse è la stagione. Forse l’età e forse la selezione naturale. Eppure certe torri, alte e solide sugli orizzonti della mia vita, stanno cominciando a sgretolarsi, franando a valle. E questa volta non so stabilire se è l’avvento di una nuova Era o l’avvicinarsi del Nulla.

domenica 4 aprile 2010

senza protezione nel vento


Sono le notti come queste, quelle che mi mancano ora. Quelle ore languide e infinite che nascono quando intorno tutto dorme, quando solo la flebile luce dietro di me resta a guardia del mio tamburellare sulla tastiera. Quando mondi di caratteri arrivano a descrivere quello che per pudore la lingua tace durante il giorno e che la mente si affretta a coprire alla luce del sole.

È questo spazio (qualcuno giustamente l’ha chiamato dEspacio) che mi culla come una coperta invernale nelle solitudini alle varie latitudini. Una sorta di conforto atopico, una porta che posso aprire da ogni dove per lenire le ferite. Silenzio, luce soffusa, ticchettare di pensieri, notte.

Ed è qui che i fili si tirano, i disegni si ricompongono, e l’arazzo torna al suo vecchio splendore, scintillante alla fine nella luce del giorno incipiente.


E capisco perché questi giorni di festa sono così faticosi.

La grande famiglia entra in sala, come il pubblico affettuoso alla recita della scuola. Entrano, si accomodano, si salutano. E mi guardano.

Già, perché sul palco ci sono io. Con quel vestito da pagliaccio che mi sono creato negli anni. Con quella cresta da Cantagallo ad afflosciarsi sotto i riflettori. Ed è come se mi soppesassero, mi valutassero, dissezionassero le pieghe del vestito, il timbro di voce e lo stato delle scarpe. È come se l’immagine dal palco dovesse render ragione di me, dovesse convincere il parentado che valgo, che il tempo non è passato invano, che da qualche parte qualcosa sto costruendo. Mi guardo le mani, sporche di terra e di nulla e comincio a rispondere deviando gli sguardi, evadendo le domande mute, alzando un muro di omertà a difesa del mio piccolo niente. E il palco si alza sempre più, crescono i merli del silenzio, le mura di impenetrabilità. Ogni arte è lecita per non far entrare il giudice di sangue.

Ed alla fine e sempre quassù che mi ritrovo.

In piedi sul cammino di ronda, guardo la città sotto, ricca di vicoli e viali, quel proliferare di case povere e sfarzose, quei nuclei che si raggrumano sulla rete della normalità. Sento il vento passare e li osservo. I loro percorsi lineari, quasi tracciati da sempre. Quel susseguirsi di eventi che aspettavano solo una data per accadere, quell’inevitabile percorso umano atavico e resistente all’usura dei millenni che li porta ad un’esistenza di ordinaria contentezza.

La guardo un po’ con invidia, quella scacchiera che si gioca da sola, con astuzia. Che trova in se stessa i giocatori per terminarsi. Eppure non riesco a desiderarla fino in fondo.

E mentre voglio credere che il vento sia venuto a raccontarmi che “la grandezza è esposta alle tempeste”, il cielo si spegne, milioni di lampade s’infuocano rendendo la città una spugna di esistenze, il formicaio delle vite altrui che si stendono oltre queste mura di cinta.

Un’altra notte è arrivata, e su questo vecchio castello non danzerà che una singola candela, priva di protezione, nel vento.