mercoledì 21 settembre 2011

thank you for smoking


Si appoggia coi gomiti alla struttura che sostiene il bilanciere e mi guarda. I bicipiti gonfi, il fisico massiccio di un sollevatore di pesi professionista. Eppure il viso è quello di un uomo buono, glielo puoi leggere negli occhi e nella dolcezza dei lineamenti.


Sono ingegnere meccanico, dice. Ho fatto il dottorato e poi ho trovato lavoro in una piccola ditta che commerciava principalmente con gli Stati Uniti. Ma dopo l’undici settembre è arrivata la crisi e sono falliti. Adesso lavoro per una compagnia più grande, siamo una delle due al mondo che producono macchine per impacchettare sigarette. Lo so, lo so. Creiamo macchine che producono morte, come i produttori di armi. Ma, cosa vuoi, bisogna pur portare a casa i soldi. Poi, per lavarci la coscienza, doniamo un reparto all’ospedale S. Orsola o al Rizzoli, e ci sentiamo un po’ più a posto.

domenica 11 settembre 2011

il Nulla - la storia infinita


- Perché Fantasia muore?

- Perché la gente ha rinunciato a sperare, e dimentica i propri sogni. Così il Nulla dilaga.

- Che cos’è questo Nulla?

- È il vuoto che ci circonda. La disperazione che distrugge il mondo. Ed io ho fatto in modo di aiutarla.

- Ma perché?

- Perché è più facile dominare chi non crede in niente. E questo è il modo più sicuro di conquistare il potere.

martedì 6 settembre 2011

ospitalità


Entrate, entrate.

Pensavamo che fossero muratori che ci offrivano di condividere con loro la pausa pranzo, un panino sotto un albero, e invece guarda cosa ci riserva il cammino di oggi.

Appoggiamo gli zaini ingombranti di fianco al camino di pietra e ci sediamo sulla panca, al centro della tavolata. Davanti a noi si siedono i figli, sei ragazzi trai tredici e i ventiquattro anni. Carnagione scura, lineamenti meticci, capelli crespi, quasi africani, occhi nerissimi, tutti vagamente bassi di statura. Le ragazze ci servono le pietanze per primi facendo la spola tra la cucina e la tavola, mentre i ragazzi chiacchierano con noi di università e viaggi.

Ci osservano con tranquillità, senza tradire stupore o timidezza. Ma mentre le ragazze controllano che non ci venga a mancare nulla, i maschi hanno uno sguardo falsamente disattento. Ogni gesto o frase lievemente anomala richiama, infatti, istantaneamente la loro attenzione, e accende quegli occhi di ossidiana. È il bagliore tipico dell’animale che studia chi è entrato, fortuitamente, nella sua tana.

Ad un capo della tavola siede quello che sembra essere il padre. Un uomo magro e alto, siciliano emigrato qua, sull’Appennino Romagnolo, neppure ventenne. Fratello, a quanto dice, di un famoso imprenditore del milanese. Parla a voce bassa, col tono sommesso e lento di chi ha poca istruzione e troppa fede. La preghiera che inaugura il pranzo è un misto tra un’invocazione contadina e un rito da pastore americano.

All’altro capo, in silenzio, intento a mangiare, siede quello che a quanto pare è un cugino. Un ragazzo con qualche anno meno di noi, che si è unito alla famiglia per aiutarla coi lavori edili nel cortile di casa.

Di fianco a noi si siede quella che, a questo punto, dovrebbe essere la madre. Una signora peruviana tracagnotta, alta meno di un metro e mezzo, con una rastrellata di capelli bianchi a trasformarle la chioma e darle un’età. Col caratteristico accento ispanico, mischiando l’idioma andino a quello nostrano, ci racconta del suo passato a Lima, dei suoi viaggi a Cuzco, dei suoi trasbordi a dorso di mulo o sui cassoni dei camion.

Le pietanze sono evidentemente quelle di una famiglia povera, ma con l’abbondanza di una piccola festa. Quella di avere due ospiti inattesi.

lunedì 5 settembre 2011

tel aviv


La guardo negli occhi, forse realmente per la prima volta. Quegli occhi che mi fissano da una cornice di piccole rughe, sentenza evidente della sua età, pedaggio dei quaranta.

Non c’è fretta né timore in loro, non c’é entusiasmo. Forse è un’ombra indelebile di noia quella che vi leggo dentro, forse stanchezza. Seduta sulla sedia pieghevole, spalle alla valle e ai suoi trulli, si muove con lentezza, come se avesse un altro peso. Si porta addosso, con silenziosa dignità, quel principio di disadattamento che caratterizza i viaggiatori inquieti.


Hai viaggiato tanto, le dico pensando alle sue origini fiamminghe, alla sua attuale residenza a Tel Aviv, ai suoi trascorsi in Italia e Francia. È a Tel Aviv che vuoi vivere?

La risposta arriva nuotando nel suo magnifico accento francese.

Tel Aviv non è male. Ma non so. Non la considero casa mia. Non più di altre almeno.

Ma c’è un posto che ti sembra possa essere casa tua? Un luogo dove, quando sei arrivata, hai pensato che sarebbe stato bello rimanere?

In questo momento no. Casa è dove qualcuno ti aspetta, ed io ora non ho nessuno che mi aspetta.

Lo dice con un sorriso privo di tristezza, come una constatazione anonima.

Non escludo di avere più case. Una a Tel Aviv e una a Parigi. E di lavorare in giro per il mondo. E poi se succederà che vorrò fermarmi da qualche parte mi fermerò.


La osservo. E più che uno sguardo è un abbraccio visivo.