mercoledì 23 ottobre 2013

verso me stesso



Il Pellegrino,
il pellegrinaggio e il cammino:
nient'altro che me
verso me stesso.

Farin Addir Attar, XII secolo, Persia

terapista verbale



Non c'è dubbio che era una situazione sufficientemente stravagante per attirare la mia attenzione.
Invitati da una degna rappresentante della Rimini bene, accompagnati da un autista privato che non fa altro che vantarsi dei miliardi e miliardari che ha fatto transitare oltre dogana negli ultimi anni, ci presentiamo ad un incontro di "terapia verbale". Il grande cancello è aperto e ci inerpichiamo per il podere che circonda l'albergo, con tanto di viale di accesso sorvegliato dalle statue. L'edificio, un casermone grande ma senza pretese di qualità, è evidentemente di proprietà della curia, come dimostrano le sculture e le raffigurazioni sacre. All'interno però, accanto alle solite stampe di quadri classici a sfondo religioso, trovo alcune riproduzioni di Klimt dove le nudità sono tutt'altro che celate. Che la Chiesa, arrivata in paradiso (fiscale), si conceda un po' di mondanità?
La sala è gremita, tanto che gli organizzatori ci fanno portare appositamente altre sedie. Il pubblico è composto da una grande maggioranza di donne, per lo più oltre la cinquantina.
La dottoressa Mereu, laureatasi a Sassari e poi in medicina olistica a Urbino, parla con un cipiglio vagamente dittatoriale, sebbene il suo sguardo rimanga per lo più fisso sopra le teste dei suoi ascoltatori. Racconta come le malattie siano spesso frutto di scompensi non fisici ma mentali, psicologici. Cortocircuiti nei nostri schemi di pensiero, nei nostri rapporti interpersonali, nel nostro modo di vedere noi ed i nostri genitori, ingenerano patologie fisiche. La soluzione della medicina è, normalmente, quella di reprimere il sintomo chimicamente ingolfando il manifestarsi di problematiche che vedono il corpo solo come veicolo finale. In molti casi svelare l'arcano, rendere palese il complesso o la paura che ha generato la situazione patologica, è sufficiente per guarire il paziente.
Affascinante. Il potere della mente che distrugge e cura il corpo. E trovarne la chiave significa spesso approdare ad una vita se non più semplice sicuramente meno invasa da prodotti farmaceutici.
Le persone si alzano dalle loro sedie, prendono il microfono e raccontano i loro problemi. La dottoressa li osserva, ascolta come parlano, di cosa parlano, fa domande che mi ricordano gli omeopati, tangenti rispetto al problema, vagamente spiazzanti per chi non conosce il trucco. E poi sfodera la sua diagnosi. La comparsa di macchie a forma di farfalla sulle caviglie simboleggiano il sentirsi imprigionata di una donna sposata, e la sua voglia di volare. Le secrezioni cutanee di un ragazzo sono dovute al rapporto ancora troppo morboso con la madre. Un orzaiolo incurabile guarito istantaneamente quando, su suggerimento della dottoressa, la moglie ha scoperto il tradimento che non voleva vedere.
Non dubito che queste analisi, misto di psicologia e naturopatia, possano essere veritiere e sollevare nodi nascosti. E di sicuro i fiori che vengono proposti sempre come cura hanno meno effetti collaterali dei preparati delle case farmaceutiche. Eppure l'atteggiamento da Oracolo del Sud, la poca sintonia con il paziente (che viene spesso trattato quasi fosse un bimbo viziato che non vuol vedere quel che è palese) mi rendono questa donna istintivamente antipatica.
La mia antipatia cresce quando un ragazzo si alza per raccontarle dei vari problemi di cui soffre e la dottoressa, squadrandolo e mostrandolo alla platea quasi fosse un animale curioso, dice "Ma non vedete? È chiaro qual è il suo problema. Quanti anni hai?"
"Trenta", risponde il ragazzo.
"Trenta ma ti senti ancora un bimbo, vero? Guardatelo. Con i pantaloncini di jeans e quella maglietta così brutta. L'hai comprata tu o la mamma?"
E così avanti, smontandolo, dimenticando i sintomi che, con grande coraggio, il ragazzo aveva esposto di fronte agli sconosciuti.
Dopo qualche minuto a subire lo show del suo curatore e carnefice, il ragazzo torna mesto a sedersi.
È ora la volta di un signore anziano. Prende il microfono e comincia a raccontare che ha cominciato ad avere una serie di problemi e, pensandoci, tutto pare essere cominciato quando gli hanno trovato il diabete.
"Ma lei stava male?" lo interrompe la Mereu.
"No", risponde l'uomo dopo averci pensato un po'.
"E allora perchè si è fatto fare gli esami?"
L'uomo è incredulo e sulle prime non sa cosa rispondere. "Per tenermi controllato", risponde infine con titubanza.
"Ma se lei non si sente male è inutile che vada a fare le visite!"
E qui parte una filippica contro le procedure degli ospedali e dei medici che ogni anno abbassano la soglia dei parametri ritenuti normali di modo che sempre più gente risulti diabetica o celiaca o chissà che altro.
A questo punto mi alzo ed esco dalla stanza. Non riesco proprio più a sopportarla. Mi piazzo sul pianerottolo delle scale di emergenza e guardo in alto dove svettano, contro il cielo stellato, le tre torri illuminate.
Non è tanto il contenuto di quel che dice a lasciarmi insoddisfatto (il ragazzo poteva effettivamente aver  problemi di autorità ed indipendenza con sua madre e l'uomo non avere un effettivo diabete), quanto il modo. Una dottoressa che sostiene di curare le persone verbalmente, utilizzando quindi le parole come strumento della sua terapia, non può esporre i pazienti a sessioni pubbliche così annichilenti. Il porsi così palesemente al di sopra degli assistiti, autoeleggendosi maestro e guru, ed infliggendo ferite, seppur solo nell'animo e causate dalle parole, è un atteggiamento che non sopporto. E poi con quale autorità incita le persone a non controllarsi, a non tenersi monitorate?
Che sia coscientemente la strategia che la dottoressa adotta per una terapia shock? Perchè la rimozione del blocco sia più efficace e profonda? In ogni caso è una mancanza di empatia che non approvo.

martedì 22 ottobre 2013

attesa - giorno 5



Finalmente è uscito nuovamente il sole e, per riposarci un po', decidiamo di sederci ad uno dei bar della zona vecchia. Appena fuori rispetto alla via principale si trovano una serie di piazzette completamente circondate di negozi e bar che si sono appropriati, con le loro mercanzie ed i loro tavolini, dell'intero spazio. Noi stiamo seduti al sole, spalle alla parete in legno scuro del locale. Le panche sono ricoperte con cuscini dai tessuti orientaleggianti, gli sgabelli sono quelli ottomani e, spesso, i tavolini in legno o metallo riprendono gli arredi delle popolazioni nomadi, smontabili con un solo gesto.
Arriva il nostro caffè turco, dentro all'ibrik, l'inconfondibile bricco in ottone. Come ormai abbiamo imparato, visto che viene preparato versando la fine polvere di caffè direttamente nell'acqua bollente, bisogna avere cura di non berlo fino in fondo per evitare di ingerire lo spesso strato costituito dai fondi.
Poi ci facciamo portare il narghilè con il tabacco aromatizzato. Dai tavoli vicini si alzano nuvole aromatiche simili alle nostre ed i ragazzi chiacchierano mentre fumano sdraiati sui divani, passandosi l'un l'altro il beccuccio.
Rosolati nel sole del primo pomeriggio, con fumo e caffè, nessuno ha più voglia di alzarsi nè di far altro. Le uniche proposte sollevate riguardano spedizioni per recuperare un po' di regali e souvenirs dai negozietti.
Il mio demone interiore si risveglia rapidamente e decido che è arrivato il momento di prendermi del tempo per me, di solitudine ed esplorazione di questa città, che mi pare nasconda tanto di interessante. Molto più di quello che si può trovare in un negozio.
Guardo la mappa. Il centro storico è stretto e allungato, circondato dalle colline su tutti i lati e lambito dal fiume a ovest. Direi di puntare verso l'alto.

opzioni di ricarica



Appena alzati ci eravamo spostati al trullo, dove ci aspettavano i due maestri. Saliti sul tetto avevamo cominciato a fare yoga seguendo le loro indicazioni mentre il sole, già alto, rosolava i nostri corpi. Era una versione casalinga del Bikram Yoga, una pratica che consiste nel realizzare gli esercizi in un ambiente ad alta temperatura. Disciplina nella quale erano specializzati i nostri amici.
Dopo oltre un'ora scendemmo, tonificati e riposati, e ci andammo a sedere intorno al grande albero che domina il cortile del trullo. Qui ci avrebbero trasferito l'energia, ci dissero gli yogi. Partendo dall'alto passavano le mani a pochi centimetri dalla nostra testa, procedendo verso il basso, generando una sorta di elettrizzazione della pelle. Ovviamente, dopo la preparazione dovuta agli esercizi, la sensazione fu evidente.
- Abbiamo fatto un corso, in India - ci dissero mentre procedevano da uno all'altro - per attivare questa capacità di transfert energetico. Non si tratta di trasferirla da noi a voi, ma da ciò che ci circonda a voi. Non facciamo altro che canalizzarla. Ed ora, grazie a questo, ad una giornata e pochi euro, siamo in grado di rigenerarvi ed infondervi nuova energia.
Dentro me la ridevo. Mi sentivo un po' truffato, come se il mio benessere fosse assimilabile ad una tariffa telefonica. Mi bastava pagare qualche euro per avere l'autoricarica, attivare nel mio corpo l'"opzione trasferimento energia" e diventare un canale.
Non era, anche questo, mercato? Non si sarebbe potuti arrivare allo stesso senza dover pagare a qualche ente l'autorizzazione a praticarlo? Non si sarebbe giunti comunque allo stesso risultato semplicemente praticando e sperimentando?

lunedì 21 ottobre 2013

stari grad - giorno 6



Avevamo notato Jenny la sera prima: mangiava della roba indefinibile da un contenitore di plastica mentre stava sdraiata sul divano dell'ostello in shorts e canotta. La sua capigliatura rossa, poi, non la lasciava passare inosservata. Il pavimento della stanza (un'ottavupla) era per metà colonizzato dalla sua valigia, aperta di fianco al letto, e dai suoi vestiti sparsi tutt'attorno.
La mattina seguente decidemmo di visitare insieme il centro di Sarajevo. Il tempo non era certo quello che ci si aspetta ad agosto, con basse nuvole grigie e qualche scroscio di pioggia. Visitammo velocemente Stari Grad, il centro antico, partendo dalla parte più caratteristica, quella di influenza ottomana. Il bazar, la moschea, la madrasa (scuola coranica) con l'annessa nuova biblioteca, i resti del caravanserraglio (il corrispettivo di un antico ostello, ci tenne a sottolineare una ragazza turca che passava di lì) e soprattutto i vicoli con le loro piazzette segrete, i tavolini alla turca fuori dai locali, il profumo del narghilè e quello dei ćevapčići. Tutto molto curato, molto affascinante e molto turistico. Ci spingemmo poi sulle pendici a nord dove i segni della guerra si facevano più evidenti e le facciate di alcuni edifici avevano l'intonaco eroso da raffiche di proiettili.
Nel frattempo Jenny ci raccontava di lei. Nata 26 anni prima in un paese dell'Australia, si era trasferita a studiare a Melbourne e lì aveva trovato lavoro. Dopo pochi mesi era passata a lavorare per la Guardia Forestale ma, come affermava lei stessa, c'erano troppe donne ed il clima era difficile. Gli scontri con la sua capa erano diventati sempre più frequenti fino a quando aveva deciso di lasciare tutto. Aveva fatto le valige ed era partita per l'Europa con lo zaino in spalla. Era ormai in giro da mesi, seguendo un itinerario estemporaneo attraverso il vecchio continente. Westminster, Stonehenge, Glasgow, Edinburgo, Scozia, Irlanda, Amsterdam, Bruges, Repubblica Ceca, Cracovia, Praga, Varsavia, Berlino, Croazia e Sarajevo ( il suo viaggio sarebbe poi continuato verso Istanbul, Cappadocia e oltre).
Dietro di noi Nathan ti stava raccontando dei matrimoni gitani in Romania, del deserto della Giordania, degli amici di Amburgo.
Mentre mi lasciavo impregnare dalle vite altrui cercavo con gli occhi assiduamente qualcosa che mi attirasse, qualcosa che incarnasse l'anima della città più che la semplice visita ai monumenti simbolo. E sempre più si sollevava il mio demone interiore, quello che aveva bisogno di solitudine e silenzio, di camminare e lasciarsi trasportare dall'intuito urbano. Essere spugna per gli edifici, le strade. Scovare la storia là dove le parole altrui te la celerebbero. Assaporare la città perdendosi e lasciandosi sorprendere da quel che si può trovare quando non si cerca nulla di specifico.

crocevia - giorno 5



Già i primi passi mossi nella capitale ci danno l'impressione di un bel posto. Protetta a nord dalla catena montuosa che ci ha stregato, alla città si arriva dall'alto, costeggiando il fiume lungo il cretto che ha scavato nella roccia, fino a giungere al centro antico. Un cuore ottomano, ricco di vicoli, moschee, minareti, bazar, bar. A fianco si trova via principale di stampo europeo, asburgico, dove trovano spazio i negozi che hanno colonizzato ogni capitale. Un'occhiata alle colline e vi troviamo le distese bianche dei cimiteri islamici, le vecchie ville dalle decorazioni geometriche, le nuove case dei poveri. I grattacieli ed i condomini della città nuova.
Una ricchezza incredibile sembra pervada questa città. Non certo economica, ma identitaria. Religioni, etnie, stili ed influenze diverse in ogni dove. Questa è stata la ricchezza che ha portato Sarajevo dall'Età della Pietra fino al XX secolo ad essere un crocevia culturale. E proprio quello che l'ha portata, poi, alla guerra civile. 

domenica 20 ottobre 2013

prospettive



L'uomo dice che il tempo passa.
Il tempo dice che l'uomo passa.

Detto indiano

monteacuto



Il sentiero sale ripido dentro al bosco di faggi finchè, senza preavviso, muore di netto. La terra diventa un selciato di pietre, il cielo riemerge dalle fronde e davanti a me si staglia una fila di case contro l'alto e grigio orizzonte. Svolto a destra sulla via di pietre levigate dagli anni, fiancheggiato da basse case di paese, le une strette alle altre nell'antico tentativo di proteggersi vicendevolmente dalle invasioni e dalle intemperie. Oltrepassato uno slargo con la fontana ed il monumento ai caduti, la strada mi porta ancor più verso l'alto, dove deve trovarsi la chiesa la cui campana sento riecheggiare per le valli intorno. Una piazza in salita, una balaustra massiccia sulla sinistra che protegge dallo strapiombo. All'orizzonte si vedono le montagne che delimitano la valle a nord e, in lontananza, il Corno alle Scale, con la sua vetta fagocitata dalle nubi.
Montacuto delle Alpi è un paesino perso tra i boschi ancora lussureggianti dell'Appennino emiliano, ad un passo dal confine con la Toscana. Dalle valli profonde e verdi si erge la ripida conformazione rocciosa sulla quale dal Duecento sta assiso l'avamposto umano costituito da tre file di case disposte lungo due strette vie parallele. Due vie che poi sono, in realtà, sempre la stessa stretta ad anello. In queste tre file di casupole abitano ufficialmente le 29 anime che mantengono ancora vivo questo baluardo di antichità appollaiato sul crinale.
Il cielo è plumbeo, l'aria silenziosa non sa se dar sfogo alla tempesta rimanendo, nel frattempo, minacciosa. Intorno le valli annegano nelle nuvole basse nascondendo alla vista anche i pochi paesini e lasciandomi l'illusione di essere solo per chilometri e chilometri. Prima di imboccare nuovamente il sentiero mi trovo sulla destra una bassa costruzione di poco più di una stanza che si presenta come museo del quarzo. Al tavolino di fronte all'ingresso sta seduto un uomo tutto intento a lavorare con il suo MacBook Air bianco. Sulla parete leggo una targhetta incorniciata in plexiglass: per gentile concessione di una società di Reggio Emilia il paese è dotato di una rete wi-fi che gli permettere di non essere, nonostante tutto, completamente escluso dalla modernità.

domenica 13 ottobre 2013

profondamente locale



Bisogna descrivere qualcosa di molto locale, di molto circoscritto, qualcosa che si conosce benissimo, per poter essere capiti da tutti. Io mio sono convinto che devo essere parrocchiale, nel senso di profondamente, religiosamente legato alla mia realtà, per poter essere universale.

Fernando Botero

la fantasia



Il villaggio di Derisanamscope era un posto incantato: il più insolito, uno dei più interessanti, certo il più sereno e pacifico in cui sono stato in India. Ma che non si vada nessuno, credendo di trovare quel che ci ho trovato io, perché ognuno fa di ogni cosa - un posto, una persona, un avvenimento - quello che vuole, quello di cui, in quel momento, ha bisogno. E niente, niente come la fantasia aiuta a vedere la realtà.

Tiziano Terzani, Un altro giro di giostra

giovedì 10 ottobre 2013

bosniac intro - giorno 5



La pioggia è battente sul nastro d'asfalto. Grumi di case emergono sporadici dalla vegetazione a dar senso ai cartelli che recano i nomi di piccoli villaggi. Lesnica, Loznica, Banja Koviljaca, Donja Borina.
Zvornik si trova sul lato bosniaco del fiume Drina, poco prima che questo, sancendo il confine trai Serbia e Bosnia, si decida finalmente a diventare lago incuneandosi tra le montagne. Un ponte pedonale in ferro collega le due sponde, un controllo di passaporti ad ogni estremo.
Ci fermiamo in centro di fronte alla moschea e compriamo un paio di baklava a testa, tanto per fermare la fame. Dolcissimi, come sempre, e buoni. Ci sediamo poi all'unico tavolino di un piccolo alimentari dove per accompagnare i burek, torte salate con ripieno di carne macinata, la signora ci propone di bere l'ayran, una sorta di yogurt liquido salato.
Infiliamo la porta del primo bar ed ordiniamo un espresso. La macchina è italiana e reca, ben visibile, un italianissimo slogan serigrafato sulla plancia metallica.
Salutiamo il paese di frontiera e filiamo in direzione della capitale, puntando verso le montagne.
Ha smesso di piovere, il cielo s'è pulito, l'aria è ancora carica di tensione, la luce tagliente. In queste condizioni cominciamo a risalire i monti, fiancheggiamo di lontano il lago Zvornik, per poi ritrovarci in una delle più belle terre che mi sia capitato di vedere. Le pendici dei monti si coprono di boschi, alberi affusolati si stirano verso il cielo, grandi abeti fanno ombra sul nostro cammino. Finchè, improvvisamente, la montagna si fa altopiano, spariscono le foreste lasciando il posto ai pascoli. Lungo la strada risalgono mandrie di vacche pezzate, le pecore brucano nei campi, le case isolate somigliano sempre più a rifugi montani, a malghe. Il sole scende lungo sull'orizzonte rendendo cristallina l'aria, inquadrando nelle nostre retine uno spettacolo emozionante. Degna e potente introduzione al nostro ingresso nella capitale.

mercoledì 9 ottobre 2013

l'arte povera è per i ricchi - giorno 5



Imbocchiamo l'autostrada nuovamente verso Novi Sad per poi abbandonarla poco dopo Ruma e puntare verso sud lungo una strada che si insinua tra paesini e lande disabitate. Il nastro d'asfalto è bordato da quella collezione di umanità che già abbiamo imparato a conoscere, un catalogo di quasi miseria, di degna povertà, un compendio di neorealismo. Case bifamiliari si susseguono senza tessuto nè disegno, l'una dopo l'altra. Le presidiano guardiani impolverati di strada, giovani e anziani ugualmente vecchi nell'animo, rassegnati ad esporre quel poco avanzo che produce il loro campo. Sui carri stanno i loro frutti, le loro verdure, merce di nessun prezzo per pagare la sopravvivenza di chi la produce. Monatti di vegetali, espongono i loro carretti come gli storpi i propri moncherini.
E noi, voyeur odierni, feticisti di quel poco di verità che ancora ci riserva il mondo del mercato globale, li osserviamo, li fotografiamo, ne scriviamo, ci commuoviamo. Ci riempiamo gli occhi della loro presenza, le memory card delle loro immagini, e ce ne andiamo lasciandoli morire dietro di noi.

venerdì 4 ottobre 2013

parte del tutto



Non ci sentiamo in alcun modo parte del tutto. Al contrario. Ognuno si vede come un'entità separata, a sè; ognuno si sente forte del proprio ingegno, delle proprie capacità e soprattutto della propria libertà. Ma è proprio questo sentirci liberi, disgiunti dal resto del mondo, a causarci un gran senso di solitudine e di tristezza.

Tiziano Terzani, Un altro giro di giostra

quartier generale - giorno 4



Ci riproviamo. Torniamo verso i due grandi edifici collassati su se stessi, quelli che avevamo intravisto il giorno precedente sotto l'acquazzone. Attraversiamo il centro antico, percorriamo strade larghe fiancheggiate di edifici monumentali, pomposi, e ci fermiamo su Kneza Miloša. Ci armiamo ognuno della sua macchina fotografica e cominciamo a scattare. Gli edifici sono effettivamente 3, i due grandi stecconi gradonati ed un piccolo edificio ad un solo piano sollevato da terra. Attraverso la strada, mi avvicino, scatto foto degli interni vuoti, dei ferri ossidati nel cielo minaccioso, le auto che corrono di fronte a queste rovine. Dopo poco mi si avvicina il militare che avevo notato ieri. Lo saluto e continuo a cercare una buona angolazione, ma lui non smette di osservarmi. Lo sento dirmi:
- Fai pure tutte le foto che vuoi, che dopo tanto le cancelliamo.
 Lo guardo con aria sinceramente stupita e lui, con sguardo rassegnato e comprensivo, mi risponde:
- Non mi chiedere perchè, è così.
- Cioè, vuoi dirmi che tu stai qui, a sorvegliare un edificio vuoto da una decina d'anni, dentro cui non è rimasto nulla, per impedire ai turisti di scattare foto?
- Era il vecchio quartier generale dell'esercito, e gli ordini sono di evitare che se ne diffondano le immagini.
- Ma è un edificio del centro, è praticamente un monumento..
La risposta è un'educata alzata di spalle.

Aleksander è un ragazzo giovane, nato a Belgrado e vissuto qui anche durante la guerra. Parla un discreto inglese e si vede che è annoiato, stanco di far la guardia ad un ammasso di pietre recintate, ma adempie con scrupolo al compito che gli è stato assegnato. Mi dice di chiamare i miei amici e che dobbiamo cancellare, di fronte a lui, le immagini scattate.
- Ci sono telecamere che ci riprendono e non posso farvi andare via senza che le abbiate cancellate. O almeno che abbiate fatto vedere che lo fate - suggerisce.
Quando gli presentiamo Nathan, Aleksander sembra animarsi un po' e comincia a parlare degli Stati Uniti. Di come siano venuti a portare guerra nel suo Paese, di come si sentano potenti e non perdano occasione per mandare i loro marines in giro per il mondo. Nathan dice che non è stato lui a mandarceli, i militari in Serbia.
- Non hai forse votato per chi lo ha fatto?
Nathan è un personaggio molto tranquillo e non risponde alle accuse. Il serbo non ha intenzione di provocare, cerca solo un dialogo diverso dal solito per salvarsi dalla noia endemica di un compito francamente assurdo.
Nel frattempo la pioggia ha cominciato a farsi battente e ci ripariamo nuovamente sotto le impalcature del cantiere. Proviamo ad offrire un ombrello ad Aleksander ma lui sorride e dice che non può, non quando è in servizio. E si accende una sigaretta, quasi potesse, quella proteggerlo dall'acqua e dal freddo.
Il militare continua a raccontarci della povera Serbia, di ciò che pensa degli Stati Uniti (opinioni chiaramente nate dentro ad una caserma, anche se in parte condivisibili), di come ricorda la guerra quando aveva dodici anni.
È un ragazzo simpatico, peccato non lo si possa invitare a bere qualcosa e sentire di più di quel che ha da dirci. Sarebbe un bel modo per capire meglio la Serbia.
Dopo quaranta minuti la pioggia ci dà un po' di tregua e decidiamo di salutare il nostro momentaneo amico, ringraziandolo per le chiacchiere. Lui ci saluta e si accende un'altra sigaretta mentre le luci del tramonto si stanno spegnendo sul vecchio quartier generale.

una buona idea - giorno 4



Ci sediamo a due passi dalla cattedrale su sedie di vimini, ognuno con la sua birra. Il cielo minaccia pioggia, ancora una volta e ci prepariamo a tornare in ostello.
Nathan è originario della California ed un anno e mezzo fa è partito con la sua macchina fotografica alla volta dell'Europa. Da allora ha sempre viaggiato, spostandosi di Paese in Paese, immortalando paesaggi magnifici, realtà umane commoventi, parti di mondo ancora nascoste. Ha lavorato in Giordania in una ONG aiutando la gente del posto, viaggiando nell'interno, attraversando il deserto; si è trasferito poi in Romania a costruire case per i poveri, ha partecipato alla festa della vendemmia, ha visto matrimoni gitani, la povertà di un secolo fa. Ha visitato la Turchia, la Grecia. Ora sta cercando di raggiungere Amburgo, dove ha degli amici e dove ha lavorato per un certo periodo, così da poter lasciare i suoi bagagli pesanti e continuare a muoversi più agilmente. Dentro due grandi valige si trova il materiale dei suoi viaggi, i suoi hard disk, le sue foto, e portarle in aereo è troppo costoso. Così si mette a controllare se c'è un mezzo economico per andare verso nord. Tu gli dici che siamo in due, che abbiamo posto in macchina e che possiamo portarlo fino a Sarajevo se da lì è più facile trovare un biglietto. Lui ci pensa un po' e dice che è una buona idea.
Lasciamo il bar, attraversiamo il centro e raggiungiamo l'ostello un minuto prima che si scateni il diluvio.

giovedì 3 ottobre 2013

la casa dei fiori - giorno 4




La mattina, sul terrazzino dell'ostello, chiacchierano amabilmente due strani personaggi. Uno somiglia all'uomo dei fumetti dei Simpson, camicia sgualcita di jeans, pantaloni corti e sandalo crucco, coda di cavallo e berretto da subsonica, pure quello in jeans. L'altra è una bionda platinata che veste una canotta leopardata rossa dalla quale emergono le spalle da rugbista ricoperte quasi interamente di tatuaggi.
Dopo un'ora, non so bene come, ci ritroviamo tutti quanti nella nostra macchina. Delphine, la parigina, la stiamo accompagnando alla stazione; Cat, l'assistente sociale londinese, che vuole guardare ancora un po' la città prima di prendere l'aereo di ritorno alle 5 del mattino seguente; e Nathan, il fotografo californiano, che si fa trascinare dal gruppo.
Arriviamo al Museo della storia jugoslava a Novi Beograd, la parte della città che si trova sull'altra sponda del Sava rispetto al centro antico. All'interno della Casa dei Fiori si trova sepolto, per sua volontà, Josip Broz, meglio conosciuto come Tito. Al di sotto di una copertura vetrata, fiancheggiato da palme e piante lussureggianti, in un edificio dal microclima controllato, sta la salma dell'uomo che più di tutti ha cambiato i destini della gente di questo Paese nell'ultimo secolo.
Dopo una visita fugace al museo, Cat ci porta alla parte che preferisce della città: lo stadio della Stella Rossa. Tifosa sfegatata del Tottenham, ci inonda di chiacchiere sui suoi trascorsi allo stadio e così ci trascina fin quasi sugli spalti.
Entriamo nella Kalemegdan Citadel, cittadina fortificata di origine celtica situata alla confluenza tra il Sava ed il Danubio. Controllare questa zona significava controllare il sud del Paese. Dopo pochi minuti a passeggiare lungo le mura, tra la fortezza ed il fiume, Cat esordisce con: "Ok, dov'è il bar?"

martedì 1 ottobre 2013

non aprire quella porta - giorno 3



Ci accampiamo nell'ottavupla, una stanza sotto tetto molto densa di persone e con il condizionatore guasto. Non faccio in tempo a girarmi che hai già impezzato la ragazza che occupa il letto di fronte al nostro e l'hai invitata a uscire a cena con noi.
Delphine è di Parigi dove lavora nella didattica universitaria già da qualche anno. Le piace viaggiare sola tutte le volte che può anche se, a questo giro, i suoi amici non erano molto contenti che si facesse in solitario il giro dei Balcani. Domattina partirà alla volta di Novi Sad ma per stasera è dei nostri e ha deciso di portarci a Skadarlija, il quartiere bohemien della città. In realtà la zona è alquanto turistica, zeppa di terrazze ad invadere la stradina di ciottoli e piccole orchestre che suonano dal vivo, di fronte ai commensali, ad un volume decisamente troppo alto. Dopo aver sondato per due volte tutti i locali, scegliamo quello che ci sembra il meno peggio. Afferro la maniglia della porta, la tiro verso di me e guardo Delphine, aspettando che entri prima di noi. Non l'avessi mai fatto. Prima ancora di sederci lei si scaglia contro il tipico maschilismo italiano ed il nostro modo fintamente galante di far sentire inferiori le donne. Io e te ci guardiamo, vivamente sorpresi. Non mi era mai passato per la testa che un gesto di gentilezza potesse passare per discriminazione. Ci domanda se non pensiamo che possa aprirsela da sola, la porta. Mi sembra una domanda sciocca, ma lei è alquanto seria. Le rispondo che la porta la apro anche agli uomini, e che non è quindi un gesto sessista. Sguardo volitivo assolutamente privo di trucco, capelli raccolti, abbigliamento ben poco femminile, Delphine è, a quanto pare, una femminista convinta. Non le dico che lo sono anch'io. Le domando se, secondo lei, non sia sessista che agli uomini non sia concesso indossare abbigliamento considerato femminile, mentre le donne possono vestire come gli uomini. Ribatte che gonne, tacchi, calze, trucco non sono altro che una scomodità e non sarebbero una conquista per la popolazione maschile.
La discussione va avanti per quasi un'ora, mentre tu ti alieni a guardare l'orchestra che ci costringe a urlare. Ci spostiamo poi in un localino trovato per caso in un vicolo dove suggerisce di brindare tutti insieme con della rakia, una sorta di grappa del luogo. Tracanniamo il bruciabudella e continuiamo a fare i finti maschilisti.
Ovviamente, di offrirle la rakia, non se ne parla neppure.

pedalando verso sud



Davanti a me si ferma una bicicletta carica all'inverosimile. Il ragazzo, cresta platinata e piercings ai lobi, completo da ciclista ed attrezzatura tecnica, estrae la cartina dal manubrio e la consulta, cercando il nome della via sull'edificio. Mi avvicino e chiedo se ha bisogno di aiuto. Lui mi risponde con un sorridente Danke, mi mostra la cartina e mi dice: "Noi dovremmo essere qui, giusto?". Nel foglio è rappresentata tutta l'Italia, da nord a sud, ed il lui mi sta indicando, con il suo ditone tozzo, un'area che va da Modena a Faenza. E cerca il nome della via..
Sorrido e chiedo dove deve andare. Con il dito scorre verso sud, fino a Rimini e San Marino. Perplesso guardo la strada che sta percorrendo, diretta a nord, e lo indirizzo sulla via Emilia.
"Buon viaggio e good luck". "Danke, man"