Mi ricordo perfettamente.
La luce giallognola sulla mia testa, il tavolo aperto, grande nel piccolo tinello. La TV sul mobile, spenta, e fuori il buio invernale. Io stavo chino sul quadernone a righe. Impugnavo la penna con rabbia e frustrazione crescente. La sentivo salire dentro di me, montare fino a sibilarmi nelle orecchie. E allora sbottavo. Scoppiavo e lanciavo tutto per aria constatando l’esito delle mie follie riflesso nello schermo cieco del televisore.
Son passati anni. Tanti che quasi non riesco a crederci che ero io quel bambino seduto sulla sedia di paglia. Sembra la vita di qualcun altro che mi è stata raccontata e io mi ci sono immedesimato. Ricordando dettagli, colori delle penne, dimensione delle righe, taglio di capelli, atmosfera.
Son passati anni. Eppure certe cose non cambiano.
Cambiano gli oggetti, le parole, l’espressione eclatante dei gesti. Ma la base, la radice, quella è rimasta la medesima. La rabbia per ciò che mi fa sentire inadeguato, insoddisfatto, frustrato, che corre sotto pelle, paralizzando la lingua, inamidando il cervello. E cresce. Cresce in un fremito che presto non si può trattenere, sbuffa e scoppia spargendo intorno a se schegge di piccole violenze e brutalità.
Son passati anni. E sono ancora io. Quel bambino che faceva le elementari e chiedeva solo di stare al parco a tirar calci ad un pallone.
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