venerdì 27 aprile 2012

sole


La gente turbina per il sentiero, radunandosi a gruppi e poi sfacendosi in sciami diversi che tornano a condensarsi in altre zone. Cappelli, occhiali da sole, magliette colorate, sorrisi e abbracci, il passo conviviale di un giorno di festa e del primo tepore di stagione. Qui, dove sono ora, leggono e passano. Appoggiano gli occhi domenicali sui neri caratteri che incidono la pietra, su quei segni appoggiati al muro antico che raccontano di un giorno di tanti anni fa. Gli occhi corrono e immaginano, la pelle freme leggermente, e poi se ne vanno. Tornano ai loro sorrisi, al loro vino, ai cellulari.
Eppure, in questo movimento da pigrizia festiva, nel suo fluido migrare, c'è un dettaglio che introduce un'altra scala, un altro tempo. Mentre intorno sciamano gli esemplari della nuova generazione un uomo dai capelli bianchi resta, fermo, ad osservare la lapide. Ha le mani tozze, quelle di un lavoratore esperto e consumato. Una camicia a quadretti avvolge il corpo tozzo e temprato, possente pur nella sua bassa statura. Al di sopra un collo taurino ed una chioma candida. Immobile, con le braccia lungo i fianchi, resta a lungo ad osservare la pietra che racconta di quel giorno del 1945.
Poi si volta, lentamente. E le guance, tese, sono completamente bagnate.

I bambini si divertono giocando con le gocce di ceramica che pendono dagli alberi. Le mamme li seguono coi passeggini, i babbi li sorvegliano con occhio severo.
Al di sopra, sulle rovine della piccola chiesa del paese, sta seduto un signore. Le mani strette nelle mani, i capelli bianchi e lo sguardo verso valle.
E negli occhi di sicuro non c'è il presente.

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