Sono le notti come queste, quelle che mi mancano ora. Quelle ore languide e infinite che nascono quando intorno tutto dorme, quando solo la flebile luce dietro di me resta a guardia del mio tamburellare sulla tastiera. Quando mondi di caratteri arrivano a descrivere quello che per pudore la lingua tace durante il giorno e che la mente si affretta a coprire alla luce del sole.
È questo spazio (qualcuno giustamente l’ha chiamato dEspacio) che mi culla come una coperta invernale nelle solitudini alle varie latitudini. Una sorta di conforto atopico, una porta che posso aprire da ogni dove per lenire le ferite. Silenzio, luce soffusa, ticchettare di pensieri, notte.
Ed è qui che i fili si tirano, i disegni si ricompongono, e l’arazzo torna al suo vecchio splendore, scintillante alla fine nella luce del giorno incipiente.
E capisco perché questi giorni di festa sono così faticosi.
La grande famiglia entra in sala, come il pubblico affettuoso alla recita della scuola. Entrano, si accomodano, si salutano. E mi guardano.
Già, perché sul palco ci sono io. Con quel vestito da pagliaccio che mi sono creato negli anni. Con quella cresta da Cantagallo ad afflosciarsi sotto i riflettori. Ed è come se mi soppesassero, mi valutassero, dissezionassero le pieghe del vestito, il timbro di voce e lo stato delle scarpe. È come se l’immagine dal palco dovesse render ragione di me, dovesse convincere il parentado che valgo, che il tempo non è passato invano, che da qualche parte qualcosa sto costruendo. Mi guardo le mani, sporche di terra e di nulla e comincio a rispondere deviando gli sguardi, evadendo le domande mute, alzando un muro di omertà a difesa del mio piccolo niente. E il palco si alza sempre più, crescono i merli del silenzio, le mura di impenetrabilità. Ogni arte è lecita per non far entrare il giudice di sangue.
Ed alla fine e sempre quassù che mi ritrovo.
In piedi sul cammino di ronda, guardo la città sotto, ricca di vicoli e viali, quel proliferare di case povere e sfarzose, quei nuclei che si raggrumano sulla rete della normalità. Sento il vento passare e li osservo. I loro percorsi lineari, quasi tracciati da sempre. Quel susseguirsi di eventi che aspettavano solo una data per accadere, quell’inevitabile percorso umano atavico e resistente all’usura dei millenni che li porta ad un’esistenza di ordinaria contentezza.
La guardo un po’ con invidia, quella scacchiera che si gioca da sola, con astuzia. Che trova in se stessa i giocatori per terminarsi. Eppure non riesco a desiderarla fino in fondo.
E mentre voglio credere che il vento sia venuto a raccontarmi che “la grandezza è esposta alle tempeste”, il cielo si spegne, milioni di lampade s’infuocano rendendo la città una spugna di esistenze, il formicaio delle vite altrui che si stendono oltre queste mura di cinta.
Un’altra notte è arrivata, e su questo vecchio castello non danzerà che una singola candela, priva di protezione, nel vento.
2 commenti:
"l'attore va sul palcoscenico non per apparie, ma per sparire" J.L.Godard
perfettamente d'accordo
Posta un commento