domenica 26 dicembre 2010

i due soli


Sono due capocchie di spillo nere e senza riflessi gli occhi della vecchia zia. Due soli di ossidiana. Protetti da palpebre stanche, mi guardano fissi, senza muoversi. Curva su se stessa non sente la confusione che la circonda, frutto dell’energia delle nuove generazioni.

Mi osserva e spira parole semplici e pesanti.

- Ormai la memoria non mi funziona più tanto. Ma non è questo il problema. Sono le piccole cose. Come la televisione. Mi fa arrabbiare che non riesco più a guardarla, con tutti questi comandi, questi pulsanti.. e quando non ci riesco.. il fatto è che sono sola, e non so a chi chiedere.

venerdì 24 dicembre 2010

palazzo gnudi


Si muovono sinuosi. Si spostano senza peso con gesti lenti e avvolgenti, poi rapidi e sincopati. Le gambe di lei svolazzano tra quelle di lui disegnando costellazioni nell’aria. I corpi si sfiorano, quasi mai toccandosi realmente. Intorno a loro altri corpi sono pervasi dalla stessa carica sensuale, posseduti dall’energia della notte. Scorrono leggeri su gesti sublimi. Un formicolare di corpi, ogni coppia è un microcosmo, un disegno preciso tracciato da piedi e gambe, un ricamo evanescente sul pavimento. Eppure ognuna di esse è la voce di un coro muto.
È un guscio di lusso antico quello che li circonda. Un salone dalle pareti ricche di luci e ombre. Grandi specchi, paraste con putti paffuti, cornici dorate, volute, panche rivestite di eleganti stoffe. Due lampadari di cristallo scendono dalla volta affrescata.
In questo momento nulla esiste al di fuori di qui. Il mondo ha smesso di esistere, vaporizzato all’istante, addormentato in un lungo respiro. Fuori dalle finestre piove, ma non lo fa realmente. È come un’interferenza su una pellicola messa in pausa, un rumore rosa che copre tutto. Questa è la torre d’avorio e fuori non c’è più nulla.
Finchè non finirà. E allora i volti torneranno ad essere quelli di sempre, i corpi si nasconderanno dentro giacche e cappotti, gli occhi torneranno razionali, le parole gusci vuoti. Lasceranno vuota la sala, talamo stropicciato e sudato, per tornare ognuno dentro la propria vita.
Chiameranno ciò che li attende fuori Bologna.
E ciò che è successo tango.

domenica 19 dicembre 2010

noir


Mi affaccio al balcone. Fuori l’aria è leggera, aria di mare, nonostante la calura di fine agosto. Sotto di me si stende il grande parco de la Ciutadela, con le sue palme, i suoi giardini, i suoi padiglioni inizio secolo. Lo zoo che dal buio alza il suo coro di grida e versi.

Alla mia destra il Tibidabo campeggia sull’orizzonte, fiammeggiante come pietra lavica, immensa scultura d’ambra. Ai suoi piedi la città scivola verso il mare. Una colata solida di pietra e vetro che un firmamento personale di luci artificiali fa vibrare nella notte.

Vedo la grande fenditura della Diagonal, risalire fino a perdersi tra gli edifici, su verso la zona delle esposizioni. La Meridiana. A ritagliare l’orizzonte il Mont Juic, la Gabicce olimpica catalana. Davanti a me il Barri Gotic, ed il Raval più in fondo. L’Eixampla.

I miei occhi perdono i dettagli di ciò che conosco, persi nell’aura sulfurea che avvolge la città di notte, quella nube di vapori che aleggia sui tetti e per le strade come in un film noir.

E mentre dietro di me arrivano gli aromi di uno spuntino a base di pesce e martini rosso mi godo la tua bellezza, come qualcosa di perso e per sempre magnifico.

dia 14: barcelona


Il treno scende lentamente lungo la ripida parete del Montserrat. La cima si allontana dietro di noi mentre scorriamo lungo la pietra liscia. Intorno facce da turisti, da camminatori, da passeggiate fuoriporta. Scendiamo alla stazione di Monestir e prendiamo il treno in direzione Barcellona. Ci sediamo e il rimo accelera. Intorno il paesaggio cambia rapidamente, molto più di quanto non abbia fatto in tutti i giorni precedenti. Lo sentiamo addosso. Le voci cominciano a mischiarsi, gli accenti e le lingue a sovrapporsi. Il finestrino proietta un film fatto di sequenze accelerate che passano dalla montagna al paesaggio della valle, dalla vuota campagna ai sobborghi sub-periferici. Il vetro mi ipnotizza, non lascia tempo al mio cervello di respirare, lo bombarda con una serie di scenari mutevoli e colorati, degradati e naturali.

La mia mente torna indietro a qualche sera prima, ad Artès. A quel televisore piazzato sopra le nostre teste che, dopo giorni di astinenza e vita a velocità-uomo, aveva risucchiato ogni parola, ogni pensiero, ogni respiro. Siamo stati fagocitati dai colori LCD di un monitor piazzato nell’angolo di un bar, alla periferia della zona industriale di un paesino sparso in mezzo al nulla. Come la mela del peccato nel Paradiso Terrestre. O miss Italia nel Bronx.

Guardo il finestrino e non posso far a meno di pensare che la velocità, in ogni sua forma, abbia questo risultato. Privando l’uomo del tempo necessario a metabolizzare ciò che succede, decodificarlo e digerirlo, lo rende una pedina in una galleria del vento. Un kamikaze lanciato nella sua storia personale. A inseguire ciò che invece dovrebbe costruire.

Prima di arrivare in città le sinapsi son già tornate a elaborare simultaneamente più dati, a processare rapidamente gli stimoli.

Resta giusto un po’ di silenzio, tra gli ingranaggi del cervello, eredità di due settimane di vagabondaggio.

venerdì 17 dicembre 2010

eredità


Come un’eredità. L’eredità dei padri. L’eredità dei conterranei, di chi ti circonda.

Pensavi di essere diverso, migliore, più saggio e semplice e invece poi ti scopri non all’altezza di quel che credevi. Non così puro. Non così profondo.

Ti guardi, e in trasparenza vedi loro, i tuoi esempi negativi, che piano piano hanno solcato il loro DNA in te. Come un rapporto di figliolanza, ci siamo convertiti in quel che da sempre tentavamo di non diventare. Un declino impercettibile ma costante e continuo.

Ti guardi allo specchio e le rughe son le stesse. Quelle del disinteresse umano che ti circonda.

mercoledì 15 dicembre 2010

alberi di ferro


A volte sembra che questa dannata carestia sentimentale derivi dall’abitudine alla privazione. Come se della nostra grandezza spirituale avessimo fatto un bonsai, potando sistematicamente i nuovi getti e le nuove gioie. Come alberi cresciuti di ferro.