domenica 19 dicembre 2010

dia 14: barcelona


Il treno scende lentamente lungo la ripida parete del Montserrat. La cima si allontana dietro di noi mentre scorriamo lungo la pietra liscia. Intorno facce da turisti, da camminatori, da passeggiate fuoriporta. Scendiamo alla stazione di Monestir e prendiamo il treno in direzione Barcellona. Ci sediamo e il rimo accelera. Intorno il paesaggio cambia rapidamente, molto più di quanto non abbia fatto in tutti i giorni precedenti. Lo sentiamo addosso. Le voci cominciano a mischiarsi, gli accenti e le lingue a sovrapporsi. Il finestrino proietta un film fatto di sequenze accelerate che passano dalla montagna al paesaggio della valle, dalla vuota campagna ai sobborghi sub-periferici. Il vetro mi ipnotizza, non lascia tempo al mio cervello di respirare, lo bombarda con una serie di scenari mutevoli e colorati, degradati e naturali.

La mia mente torna indietro a qualche sera prima, ad Artès. A quel televisore piazzato sopra le nostre teste che, dopo giorni di astinenza e vita a velocità-uomo, aveva risucchiato ogni parola, ogni pensiero, ogni respiro. Siamo stati fagocitati dai colori LCD di un monitor piazzato nell’angolo di un bar, alla periferia della zona industriale di un paesino sparso in mezzo al nulla. Come la mela del peccato nel Paradiso Terrestre. O miss Italia nel Bronx.

Guardo il finestrino e non posso far a meno di pensare che la velocità, in ogni sua forma, abbia questo risultato. Privando l’uomo del tempo necessario a metabolizzare ciò che succede, decodificarlo e digerirlo, lo rende una pedina in una galleria del vento. Un kamikaze lanciato nella sua storia personale. A inseguire ciò che invece dovrebbe costruire.

Prima di arrivare in città le sinapsi son già tornate a elaborare simultaneamente più dati, a processare rapidamente gli stimoli.

Resta giusto un po’ di silenzio, tra gli ingranaggi del cervello, eredità di due settimane di vagabondaggio.

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