lunedì 5 settembre 2011

tel aviv


La guardo negli occhi, forse realmente per la prima volta. Quegli occhi che mi fissano da una cornice di piccole rughe, sentenza evidente della sua età, pedaggio dei quaranta.

Non c’è fretta né timore in loro, non c’é entusiasmo. Forse è un’ombra indelebile di noia quella che vi leggo dentro, forse stanchezza. Seduta sulla sedia pieghevole, spalle alla valle e ai suoi trulli, si muove con lentezza, come se avesse un altro peso. Si porta addosso, con silenziosa dignità, quel principio di disadattamento che caratterizza i viaggiatori inquieti.


Hai viaggiato tanto, le dico pensando alle sue origini fiamminghe, alla sua attuale residenza a Tel Aviv, ai suoi trascorsi in Italia e Francia. È a Tel Aviv che vuoi vivere?

La risposta arriva nuotando nel suo magnifico accento francese.

Tel Aviv non è male. Ma non so. Non la considero casa mia. Non più di altre almeno.

Ma c’è un posto che ti sembra possa essere casa tua? Un luogo dove, quando sei arrivata, hai pensato che sarebbe stato bello rimanere?

In questo momento no. Casa è dove qualcuno ti aspetta, ed io ora non ho nessuno che mi aspetta.

Lo dice con un sorriso privo di tristezza, come una constatazione anonima.

Non escludo di avere più case. Una a Tel Aviv e una a Parigi. E di lavorare in giro per il mondo. E poi se succederà che vorrò fermarmi da qualche parte mi fermerò.


La osservo. E più che uno sguardo è un abbraccio visivo.


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