La pineta improvvisamente si dirada, ma quello che scorgiamo trai tronchi non è il cielo all’orizzonte. Una parete immensa, altissima, senza sponde si staglia davanti a noi e alla macchia. Una colossale montagna di sabbia. Una gigantesca duna.
Una scaletta traccia debole la geometria umana su ciò che sembra non avere confini. Noi la percorriamo, salendo sul fianco della duna ed immaginando senza immagini la segreta parte di mondo che ci si aprirà di fronte.
E in cima lo stupore è assoluto.
L’immensa massa di sabbia degrada dolcemente in piccole dune per circa quattrocento metri fino a ricongiungersi con l’oceano gelido di cobalto. Una secca, un’isola intermittente, embrione di una nuova duna, si espande con forme organiche nell’acqua. Alla nostra sinistra si innalza in colline disegnate dal vento, sconfinata, fino all’orizzonte, la grande massa di arena.
Le distanze non esistono, quello spazio privo di ogni oggetto si sottrae alla possibilità di ridisegnarlo nella mente per cercare di definirlo, dimensionarlo. Quello che resta nella retina è una sequenza continua di sfumature di sabbia sotto al sole, solcata qua e là da qualche passo presto cancellato dal vento.
Osservo l’orizzonte lontano e vedo la cima della duna nebulizzarsi nell’aria, disgregarsi nel vento e ridisegnarsi poco più in là. Tutto quello che ho intorno non è nient’altro che onde solide in movimento, incoerenza sedimentata.
Poi mi giro. E resto catturato da un colpo di fulmine animale. Una superficie omogenea, antica e verde, un tappeto folto di pini occupa tutto il campo visivo fino a dove l’entroterra diventa orizzonte. Una presenza tale da bloccarmi in cima al crinale ad osservarla: una massa imperiosa che nasce nell’infinito e muore soffocata sotto una gigantesca duna di sabbia.
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