La musica
scroscia tintinnii e ampollosità. I movimenti sono lenti e calibrati, anche se
goffi. La penombra regna sulla grande sala.
Eppure.
Eppure mi fa
sorridere questa pratica nata trai suoni d'oriente, in una cultura dove l'ombra
ed il silenzio sono più espressivi dei loro opposti, dove la natura è un libro
aperto, dove il ritmo è quello del respiro; muove in me un certo sorriso vedere
la saggezza millenaria iniettata qui, tra le pareti spoglie e fredde di un
capannone industriale convertito in palestra, qui dove le pause dei nostri
respiri sono riempite dai tonfi della sala boxe dall'altra parte del muro, o
del fitness. Un sorriso amaro quando constato che la
grazia ed evanescenza di un popolo abituato a pensare per ideogrammi (che
magnifica complicazione del pensiero!) venga tradotta in spontaneità corporea
poco controllata, toni di voce da hot-line, ginnastica per la terza età con
sottofondi new-age.
Apro gli
occhi e, inaspettatamente, quel che vedo mi conforta. Su uno spartito di ombre
che rigano con archi la copertura voltata della sala, dall'alto campeggia
imponente una turbina. E mi guarda dritto negli occhi. Un grosso corpo, quasi
un oggetto da aviazione, un'elica ricca di lamelle sagomate.
È questo
figlio della civiltà industriale, dimenticato là dove nessuno guarda,
incastonato nel cuore della Bolognina, circondato da vecchi palazzi e
capannoni, a darmi la speranza di una qualche ibridazione che salvi l'assurda
insensatezza di questo trapianto di cultura.
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