domenica 9 dicembre 2012

turbina



La musica scroscia tintinnii e ampollosità. I movimenti sono lenti e calibrati, anche se goffi. La penombra regna sulla grande sala.
Eppure.
Eppure mi fa sorridere questa pratica nata trai suoni d'oriente, in una cultura dove l'ombra ed il silenzio sono più espressivi dei loro opposti, dove la natura è un libro aperto, dove il ritmo è quello del respiro; muove in me un certo sorriso vedere la saggezza millenaria iniettata qui, tra le pareti spoglie e fredde di un capannone industriale convertito in palestra, qui dove le pause dei nostri respiri sono riempite dai tonfi della sala boxe dall'altra parte del muro, o del fitness. Un sorriso amaro quando constato che la grazia ed evanescenza di un popolo abituato a pensare per ideogrammi (che magnifica complicazione del pensiero!) venga tradotta in spontaneità corporea poco controllata, toni di voce da hot-line, ginnastica per la terza età con sottofondi new-age.

Apro gli occhi e, inaspettatamente, quel che vedo mi conforta. Su uno spartito di ombre che rigano con archi la copertura voltata della sala, dall'alto campeggia imponente una turbina. E mi guarda dritto negli occhi. Un grosso corpo, quasi un oggetto da aviazione, un'elica ricca di lamelle sagomate.
È questo figlio della civiltà industriale, dimenticato là dove nessuno guarda, incastonato nel cuore della Bolognina, circondato da vecchi palazzi e capannoni, a darmi la speranza di una qualche ibridazione che salvi l'assurda insensatezza di questo trapianto di cultura. 

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