lunedì 11 novembre 2013

sarajevsko - giorno 5



Un po' di cultura, ogni tanto. Trascino tutti quanti a vedere una mostra che ci ha consigliato la signora inglese che sta nella nostra camera. Infilata la porta a lato della cattedrale, percorso un corridoio dipinto di nero, poi un altro, preso un ascensore, ci ritroviamo nella sala che celebra il massacro di Srebrenica. Una mostra fotografica con scatti dell'epoca ed alcuni del periodo del recupero dei corpi e, in fondo alla sala, alcuni video.
Una foto commovente, una mano di donna guantato di bianco che sorregge e sostiene una mano che emerge dal terreno, ci colpisce tutti e finisce furtivamente sulla pellicola di Nathan. Mi siedo su una delle lunghe panche in legno, a fianco di una ragazza vestita come nelle nostre campagne tanti anni fa, il velo a fasciarle il viso. Davanti a noi due ragazze vestite in nero, anche loro con il velo, non scollano gli occhi dallo schermo. Ci uniamo a loro, fagocitando i sottotitoli.
A metà degli anni '90 migliaia di mussulmani, rifugiati nella città che era allora sotto la protezione delle Nazioni Unite, vennero uccisi dalle truppe serbo-bosniache al comando del generale Mladić. Il più grande genocidio europeo dopo la seconda guerra mondiale. Sullo schermo le donne parlano dei figli strappati alle loro braccia, dei mariti catturati, di parenti separati e mai più tornati indietro.
Toccati profondamente dalla mostra, scambiamo le nostre impressioni mentre facciamo ritorno al quartiere ottomano. Ci domandiamo quale sia il senso di venire in questi luoghi a ricercare, con gusto feticista, i fori dei proiettili, gli edifici sventrati, i segni di una guerra che ha devastato una nazione, un popolo, e che per noi è oggi solamente un racconto, fonte di turismo alternativo. La ricerca voyerista del dramma altrui, guardare dentro al calderone della guerra ma solo una volta che questa è finita. Noi, generazione che la guerra non l'ha vissuta, intrappolati nel fascino amaro che essa porta con sè. Come rendere giustizia a questo magnifico paese e non sciacallarne semplicemente la memoria e l'economia terzomondista? Come fare di ciò che abbiamo visto una ricchezza per tutti invece che un argomento da bar?
Forse proprio così. Ricordandolo. Scrivendone. Sentendolo.

Nella mia discesa trai cimiteri verso il centro avevo incontrato una stradina con un paio di bar che facevano al caso nostro. Ed è così che ci ritroviamo a passare la serata ai margini della città vecchia, seduti al nostro tavolino a tracannare birra Sarajevsko, rakia e altri alcolici locali. Jenny domattina partirà con l'aereo alla volta di Istanbul ed ha deciso di dare il meglio di sè, cantando terribilmente, imitando Ray Charles, imitando il nostro pessimo accento ed azzerando il nostro orgoglio.
Il ritorno all'ostello è un addio lento e trascinato, ricco di stanchezza e leggerezza. 

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