venerdì 7 dicembre 2007

calze a righe

-Allora è vero.
-Già.

Si tolse le gambe da sotto e le stese di fronte a sé. Guardava la città, attraverso la gelosia degli alberi invernali. Per fortuna lo scroscio del fiume arriva fin qua, pensò, e lava il rumore di queste strade.
-Sapevo che prima o poi sarebbe successo. Ma non volevo ammetterlo. Tu eri sempre così tranquillo che non pensavo …
-Non ne parlavo ma era nell’aria. Non aspettavo altro. È da così tanto che lo desidero che neppure ricordo più quando è iniziato.
-…
-…
-Mi fai paura a volte, quando parli così.
-Perché?
Lei piegò ancora un po’ le gambe, raccogliendole sotto di sé e si passò una mano sulle lunghe calze a righine. La guardò stendere invisibili pieghe, con un’attenzione distratta.
-Sembra tutto così facile per te … Sembra quasi che tu non sia mai stato qui. Che tutti questi anni non siano mai esistiti. Parli di tutto questo come se fossi appena arrivato, come se la tua vita qui fosse stata una piccola parentesi preventivata, quasi che non l’avessi mai aperta …
-Sai che non è così.
-Perché dovrei saperlo? Nelle tue parole non c’è un briciolo di nostalgia, di dispiacere per tutto quello che lasci, per tutto quello che hai costruito e che abita qui. Non ti importa di lasciare tutto questo? Non fa nessuna differenza?
-Non è così. Non farla così tragica. È quello che voglio. Volevo partire da tanto …
-Sì, ma e nel frattempo? Cos’è, non hai forse vissuto con noi? A volte me lo domando seriamente, se tu non abbia deciso anni fa di aspettare un nuovo inizio e nel frattempo di alzare uno screen saver sulla tua permanenza qui. Un pilota automatico. Un esistere senza pretese.

Lei guardava il cielo ora, come cercando di leggere nei suoi origami se le parole andavano a segno. Non aveva il coraggio di guardarlo in faccia. Sapeva che stava per aprire un baule di cose mai dette seppellito da tanto, troppo tempo. Anche lui lo sapeva. La sentiva arrivare, a invadere la sua intima segretezza, come un tuono in lontananza. E non c’erano ripari nei pressi. Solo questi alberi scarni, questo rudere di mura ed una città che non amava.
-Tutto questo tempo e … e sembrava che giocassi con delle riserve. Come se conservassi per chissà quando i tuoi fuoriclasse. Cosa abbiamo noi? Perché non siamo degni della tua partecipazione?
-Ma se abbiamo fatto un sacco di cose insieme! Siamo andati in tanti posti, abbiamo viaggiato insieme, abbiamo studiato, giocato, abbiamo
-Abbiamo. La presenza non vuol dire partecipazione. Quante volte eravamo a cena insieme e tu ascoltavi le mie parole come se fossero aria? Quante volte ti ho chiamato per raccontarti di me e tu in silenzio fingevi di sentire? Pensi che non me ne accorgessi? Pensi davvero che fossi così idiota? Cazzo…
-…

Abbassò la testa, guardando alla sua destra, sotto di sè, le mura che finivano una decina di metri più sotto, nascoste in una leggera sterpaglia. In quella direzione poteva vedere il fiume annodarsi verso le montagne, fino a dove gli umori della città glielo permettevano. Non sapeva cosa rispondere. Quelle parole erano la chiave del suo scrigno, ed ormai era tardi per fermarle.
-Vedi … in tutto questo tempo io sono stata in disparte. Ho provato ad avvicinarmi a te ma non reagivi mai. Era sempre come se non avessi bisogno di me. Era come se tu non avessi bisogno proprio di nessuno. Ed è stato dannatamente difficile. Ogni tentativo era vano. Cazzo, tu stavi lì, in cima alla tua montagna, quando stavi male scendevi un po’, si cenava insieme, una birra e due buffonate con gli amici e poi tornavi su. Ti si leggeva in faccia quando ti annoiavi di noi. A volte penso che avrei potuto fare un conto alla rovescia. Attenzione ragazzi, arriva: 3, 2, 1 … eccolo! E gli occhi ti si abbassavano leggermente, come a issare bandiera bianca. Merda, non riflettevano neanche più. Ti piazzavi lì in versione attaccapanni in attesa dell’uscita di scena. Ed era impossibile farti tornare in te. Non ci hai mai lasciato l’opportunità di stare con te sullo stesso palco. O noi o te.
-E cosa avrei dovuto fare? Avrei dovuto continuare a recitare la mia parte? Quella del ragazzo divertente, che tanto è questo che la gente vuole vedere da me? Fingere per compiacervi tutti? Così almeno non avreste dovuto sentirvi infastiditi dal mio non essere con voi. La verità è che non ve ne frega un cazzo, la verità è che volete stare tranquilli, mi vorreste sempre solare e divertente, vorreste qualcuno a cui poter sempre raccontare i vostri problemi, qualcuno che vi possa aiutare. Volevate qualcuno che fosse sempre disponibile ad ascoltarvi, che rispondesse sempre “bene” quando gli chiedevate come stava, così poi voi, invece, avreste potuto raccontargli i vostri drammi personali. Oh, poveri piccoli drammi. Io ne ho pieni i coglioni dei vostri drammi. Pensate di essere gli unici ad avere una vita difficile? Vi siete mai domandati cosa c’era dietro alla risposta “bene”, pronunciata senza colore? No, non ve lo siete mai domandati. Perché vi faceva comodo una Cenerentola dell’anima. E sai che? Eccomi, mi ci avete trasformato.


Su quello spuntone di mura cominciava a calare il sole. Lui si teneva le ginocchia al petto, dondolandosi leggermente in silenzio. Lei sembrava sul suo scoglio, nel mare di Copenaghen. Chi passava nella boscaglia lì vicino restava intimamente colpito da quella composizione, da quei due corpi controluce sulla parete diroccata.
-Non sai cosa vuol dire essere nostalgici. Quando son nato mi hanno messo qualcosa lì, tra atrio e ventricolo, ed ogni volta che il sangue pompa cresce un pochino. E mi rode, perché non mi lascia tranquillo. Le cose durano il tempo di un soffio e poi mi annoiano. Da qualche parte dev’esserci qualcosa che duri. Da qualche parte devono sapere qual è il sapore del quotidiano. E devono saperlo cucinare. Io voglio impararlo. Voglio non annoiarmi delle stesse facce, delle stesse idee, dello stesso tutto che mi circonda. Capisci? Non ce l’ho con voi.
-E tu capisci che ce l’abbiamo tutti questo problema? Pensi che sia felice di vedere sempre gli stessi errori nelle stesse persone?
-E allora come fai? Io, ti assicuro, non ce la faccio.
-…
-…
-E pensi che là abbiano migliori vasi per le tue radici?
-Non lo so, ma almeno ci proverò.

Lentamente si sporse un po’ davanti a sé e raccolse un filo d’erba, che cresceva ostinato trai mattoni. Lo girò tra pollice ed indice, con calma, per sentirne la presenza. I capelli le scendevano leggermente a coprirle il viso. Quello che disse arrivò come da una trincea. Senza preavviso.
-Perché non mi hai mai baciato?
-…?!
-…
-Ma …

Pensò improvvisamente che qualcosa doveva essere esploso perché sentì salire alle guancie un calore improvviso e la gola gli si serrò. Come sempre, quando ne aveva più bisogno, il suo cervello andava in pappa. Ora sì che era nudo.
-So che lo hai pensato molte volte. E sai che a volte l’ho pensato anch’io. Allora perché? Dimmelo, ti prego.
-Io … io … Dio mio … non lo so …

Lei continuava a guardare quel piccolo filo d’erba, facendolo scorrere lentamente senza sosta. Non le vedeva gli occhi, ma non ve n’era bisogno per capire l’espressione che dovevano avere. Cercò dentro lo scrigno e si trovò una lettera che non aveva mai letto. Neppure per sé. Provò a recitarla.
-Avevo paura.
-Di cosa.

Di tutte le accuse, quella non poteva avere un tono più dolce.
-Di … perderti, credo.
Fu allora che si girò. Gli occhi, quegli occhi, navigavano in due grandi goccioloni di tristezza.
-E cosa credi di aver fatto?

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