lunedì 14 luglio 2014

candela




Entriamo nel Candela dopo che un uomo all'ingresso ha controllato che i nostri nomi fossero sulla lista. Il bar è composto da un'unica sala stretta e profonda, l'ingresso su uno dei lati corti, il palco sull'altro. Un lungo bancone, al quale sono già accalcati diversi avventori, copre quasi completamente la parete senza finestre. Il resto del locale è occupato da sedie di legno, disposte in file ordinate e strettissime. I muri una volta bianchi sono ora nascosti da una moltitudine di foto, poster, locandine ed articoli che riguardano i ballerini di flamenco che sono passati di qui. L'atmosfera è quella di un bar andaluso, anche se vagamente ripulito.
Amelia, la stella della serata, viene a salutarti e ci presentiamo velocemente: una donna piccolina, dallo sguardo furbo ed intenso, i capelli nerissimi raccolti sulla nuca ed un vestito strettissimo.
Con i nostri botellines in mano prendiamo posto ed aspettiamo l'inizio dello spettacolo. Mentre tu chiacchieri con la tua amica della fila davanti, io faccio la conoscenza della mia vicina. Anche perchè è così vicina che quasi condividiamo la stessa sedia. Originaria di Istanbul, mi racconta di essere venuta a Madrid perchè qui ci sono le migliori scuole di flamenco del Paese. Ed io che pensavo che fossero nel sud. Mi spiega che il ballo si originò in Andalusia ma poi la sua diffusione è stata legata negli ultimi anni ad insegnanti che risiedono nella capitale. Mentre si prodiga in spiegazioni, al suo lato il padre resta seduto composto osservando benevolo lo strano folclore che lo circonda senza capire una sola parola.
Dopo una rapida presentazione del proprietario del locale, sul palco sale un uomo vestito con pantaloni e maglia scuri, capelli brizzolati pettinati all'indietro, chitarra classica al seguito. Il cantante, stivale in pelle nera e camicia nera aperta sul petto, ci introduce il ragazzo più giovane della compagnia: pizzetto ed imbarazzante bandana nera da rapper in testa, ma a quanto pare un ottimo violinista flamenco.
Il chitarrista è un prodigio, come si conviene. Il violinista si inserisce con accenti striduli ed il sopracciglio sollevato. Il cantante, uomo di mestiere, si lamenta con stile. Poi entra il ballerino in nero. Si dimena con grazia non eccessiva, ma con arte sul piccolo palcoscenico. Pesta il legno che lo sostiene, frusta l'aria, afferra il furore. Ma è quando entra Amelia che lo spettacolo si fa tale. Il dramma scritto in faccia, raccolta in un vestito che la risucchia a dovere e ne esalta le forme senza la minima volgarità, anzi, con un tocco di funereo rispetto. I tacchi castigano il palco con percussioni potenti, le palme ad afferrare e schiaffeggiare uno spirito che solo lei riesce a vedere, la gonna a tracciare traiettorie disattese.
Poi è tutto un climax. I ballerini escono, e rimangono i suonatori a rimpallarsi melodie zigane con virtuosismi da star. Si inserisce il canto, esplicitando con gli strani gorgheggi il debito che questa musica ha con la tradizione araba. Ed infine, insieme al ballerino, torna la regina in un vestito rosso fuoco. In preda a raptus sempre più intensi, si dimena fino a perdere progressivamente tutti i fermagli che le tengono in posizione la capigliatura. Nel momento di coinvolgimento massimo Amelia si ferma, ansimante. Il pubblico applaude, i suonatori si alzano in piedi continuando a suonare e tutti quanti scendono dal palco cantando, ballando, e battendo le palme per infilare la porta laterale e le scale che portano nell'interrato, dove lo spettacolo continua solo per pochi intimi.

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