Entriamo nel Candela dopo che un uomo all'ingresso ha controllato che i
nostri nomi fossero sulla lista. Il bar è composto da un'unica sala stretta e profonda,
l'ingresso su uno dei lati corti, il palco sull'altro. Un lungo bancone, al
quale sono già accalcati diversi avventori, copre quasi completamente la parete
senza finestre. Il resto del locale è occupato da sedie di legno, disposte in
file ordinate e strettissime. I muri una volta bianchi sono ora nascosti da una
moltitudine di foto, poster, locandine ed articoli che riguardano i ballerini
di flamenco che sono passati di qui. L'atmosfera è quella di un bar andaluso,
anche se vagamente ripulito.
Amelia, la stella della serata, viene a salutarti e ci presentiamo
velocemente: una donna piccolina, dallo sguardo furbo ed intenso, i capelli
nerissimi raccolti sulla nuca ed un vestito strettissimo.
Con i nostri botellines in mano prendiamo posto ed aspettiamo l'inizio
dello spettacolo. Mentre tu chiacchieri con la tua amica della fila davanti, io
faccio la conoscenza della mia vicina. Anche perchè è così vicina che quasi
condividiamo la stessa sedia. Originaria di
Istanbul, mi racconta di essere venuta a Madrid perchè qui ci sono le migliori
scuole di flamenco del Paese. Ed io che pensavo che fossero nel sud. Mi spiega
che il ballo si originò in Andalusia ma poi la sua diffusione è stata legata
negli ultimi anni ad insegnanti che risiedono nella capitale. Mentre si prodiga
in spiegazioni, al suo lato il padre resta seduto composto osservando benevolo
lo strano folclore che lo circonda senza capire una sola parola.
Dopo una rapida presentazione
del proprietario del locale, sul palco sale un uomo vestito con pantaloni e
maglia scuri, capelli brizzolati pettinati all'indietro, chitarra classica al
seguito. Il cantante, stivale in pelle nera e camicia nera aperta sul petto, ci
introduce il ragazzo più giovane della compagnia: pizzetto ed imbarazzante
bandana nera da rapper in testa, ma a quanto pare un ottimo violinista
flamenco.
Il chitarrista è un prodigio, come si conviene. Il violinista si
inserisce con accenti striduli ed il sopracciglio sollevato. Il cantante, uomo
di mestiere, si lamenta con stile. Poi entra il ballerino in nero. Si dimena
con grazia non eccessiva, ma con arte sul piccolo palcoscenico. Pesta il legno
che lo sostiene, frusta l'aria, afferra il furore. Ma è quando entra Amelia che
lo spettacolo si fa tale. Il dramma scritto in faccia, raccolta in un vestito che la
risucchia a dovere e ne esalta le forme senza la minima volgarità, anzi, con un
tocco di funereo rispetto. I tacchi castigano il palco con percussioni potenti,
le palme ad afferrare e schiaffeggiare uno spirito che solo lei riesce a
vedere, la gonna a tracciare traiettorie disattese.
Poi è tutto un climax. I ballerini escono, e rimangono i suonatori a
rimpallarsi melodie zigane con virtuosismi da star. Si inserisce il canto,
esplicitando con gli strani gorgheggi il debito che questa musica ha con la tradizione
araba. Ed infine, insieme al ballerino, torna la regina in un vestito rosso
fuoco. In preda a raptus sempre più intensi, si dimena fino a perdere
progressivamente tutti i fermagli che le tengono in posizione la capigliatura. Nel
momento di coinvolgimento massimo Amelia si ferma, ansimante. Il pubblico
applaude, i suonatori si alzano in piedi continuando a suonare e tutti quanti
scendono dal palco cantando, ballando, e battendo le palme per infilare la
porta laterale e le scale che portano nell'interrato, dove lo spettacolo
continua solo per pochi intimi.
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