lunedì 29 agosto 2011

perticara


Ci sediamo al bar del paese, al riparo della tettoia, fronte alla strada.

Dietro di noi si trova la lunga parete gialla del locale, dipinta in vago stile cubano. A quanto pare è la meta preferita del proprietario, che vi si reca ogni tanto e si scorda puntualmente di riportare a casa il cuore.

A destra, di fronte all’ingresso, sono seduti alcuni degli uomini del paese. Raccolti intorno ad un tavolo sorseggiano dai loro bicchieri e parlano nel dialetto stretto di chi vive lontano dalle città. Parlano di quello di cui gli uomini, sempre e per sempre, parleranno. Ogni tanto qualche sguardo fugge verso i due stranieri, così assurdamente agghindati da sembrare un marocchino e un libanese, con quegli zaini enormi, stremati.

Sul nostro tavolo una Franziskaner fredda campeggia come una Coppa dei Campioni, circondata di patatine e salatini.

E davanti ai miei occhi, a stagliarsi tra il cielo e le case del paese, sta la montagna, nuda e tornita. Una presenza concreta, una massa docile padrona dello spazio.

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