Ci sediamo al bar del paese, al riparo della tettoia, fronte alla strada.
Dietro di noi si trova la lunga parete gialla del locale, dipinta in vago stile cubano. A quanto pare è la meta preferita del proprietario, che vi si reca ogni tanto e si scorda puntualmente di riportare a casa il cuore.
A destra, di fronte all’ingresso, sono seduti alcuni degli uomini del paese. Raccolti intorno ad un tavolo sorseggiano dai loro bicchieri e parlano nel dialetto stretto di chi vive lontano dalle città. Parlano di quello di cui gli uomini, sempre e per sempre, parleranno. Ogni tanto qualche sguardo fugge verso i due stranieri, così assurdamente agghindati da sembrare un marocchino e un libanese, con quegli zaini enormi, stremati.
Sul nostro tavolo una Franziskaner fredda campeggia come una Coppa dei Campioni, circondata di patatine e salatini.
E davanti ai miei occhi, a stagliarsi tra il cielo e le case del paese, sta la montagna, nuda e tornita. Una presenza concreta, una massa docile padrona dello spazio.
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