È quasi la mezzanotte del primo di agosto. Le auto scorrono lungo il serpentone d’asfalto, attraversando uno dopo l’altro i piccoli paesini, pietre di una collana sgranata e antica. Scivolano nella notte, le luci silenziose, fino a raggiungere il Passo.
Ed è lì, nel cuore della notte e nel cuore dell’Appennino, a novecento metri di altitudine, che gli occhi assonnati faticano a realizzare quel che vedono. Mandano strani segnali al cervello che tarda a tradurli in un pensiero di senso compiuto. E così ogni cervello, lasciando dietro di sé quella visione onirica, riesce a concludere unicamente: cazzo ci fa un surfista quassù?
Seduti al tavolino del bar chiuso guardano le stelle, in quello squarcio di cielo tra il tetto dell’albergo e la chioma degli alberi. La notte è fresca e limpida, promessa di un grande nuovo inizio.
I due chiacchierano, sgranocchiando patatine messicane da quattro soldi, senza guardarsi in faccia, gli occhi fissi sul cielo stellato.
Parlano, ma quel che esce dalla loro bocca sembra non importare. Non hanno peso quelle parole. Perché non è la comunicazione il loro fine, non stasera. No, questa volta devono tracciare il tempo, isolare nella mente questo istante. Sono bolle di suono che si rompono nel silenzio della notte, imballaggio di memorie future. Come fossero il ticchettare di un orologio. Come se disegnassero una cornice sonora all’addio.
Poi i due si alzano, appoggiano la tavola da surf alla parete del bar e lasciano un messaggio di ringraziamento. Non ai gestori. Ma alla montagna.
Rimontano in auto e tornano verso valle, come pesci che risalgono la corrente per tornare là dove sono nati.
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