domenica 11 maggio 2008

gotham city


Dormo, mentre sotto di noi passano i chilometri di coste. Uscito dall’aereo salgo sull’autobus, mi siedo e mi addormento. L’avvicinamento alla città si fa sempre più sfumato, nascosto nelle nebbie del sonno. Le voci intorno a me parlano portoghese, inglese, catalano, italiano. Nel silenzio della landa catalana, nascosta dalla notte, trasportata dal nastro dell’autopista, la nostra truppa di mercenari corre dritta verso la città. Siamo un’attacco, una minaccia silente che arriva ad invadere i marciapiedi della metropoli, a rubarle la luce e ad accenderne i neon.
Il taxi è l’ultimo ambasciatore che mi lascia all’angolo tra Diagonal e Roger de Flor.


Probabilmente ho sbagliato aereo. Probabilmente ho sbagliato città. Probabilmente, se guardo bene, in cielo si ritaglia qualche bat-segnale.
Dagli spiragli delle imposte chiuse intravedo i tetti rigati di pioggia ed il volume massiccio di un attico in stile vittoriano. La città si è scolorita in una scala di grigi, striando i suoi muri come nelle migliori ambientazioni di Frank Miller.
Mi sento un abitante nordico di un mondo di cellulosa. Le scarpe perennemente fradice, l’acqua fino al ginocchio, l’ombrello come estensione naturale della giacca. Mi perdo per i quartieri bassi della mia Gotham City, in cerca di qualcosa che non so cosa sia. Sono il riflesso sui vetri di bar sudici, di design, squallidi, chiusi, irlandesi. Un monsone preso in prestito o forse semplicemente smarritosi, si porta via rami, ombrelli, salute.

Il sabato pomeriggio si colora improvvisamente del proiettore di un cinema, mentre fuori il cielo continua a sciogliersi. Carol vieni, che ti offro una birra. Seduti a lato di un polveroso muro in mattoni a vista, mentre una leggera musica anglosassone ci accompagna, i nostri accenti stranieri si scambiano pezzi di vita, collane di nostalgia, bicchieri di allegria. Tra le bollicine digiune nel bicchiere mi sento, rifugiato in questo bar incastrato in Gracia, prima che inizi la notte del fine settimana. Cittadino di una città straniera, all’assalto flemmatico di una quotidianità irraggiungibile.


Puedo contaros un chiste? Una sagoma dietro di me prova ad attirare l’attenzione, come un bambino che abbia appena scoperto qualcosa di divertente. Non lo guardare, dice l’Ale.

Col portatile sulle gambe, il cavo che disegna una diagonal sulla trama del pavimento, aspetto con Gioia che questo pomeriggio si disegni solo.

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