E ad un
certo punto la città non c'è più. O meglio. Non è proprio che non ci sia più. La
Rossa continua a circondarci ma rapidamente scompare, svanisce. Si eclissano
gli edifici di via Don Minzoni nella luce della sera, sfuma la massiccia schiena
del Mambo, svapora questo canale in secca che ci divide da lei.
Sì, perchè è
lei, Emily Tanaka, che ha spento le luci sulla platea cittadina per accenderne
una, microscopica, su di sè. Strane scarpe in pelle scura ai piedi, fasce nere
aderenti a disegnarle le ginocchia, un vestito corto, comodo, nero anch'esso,
tagliato sulle spalle, una frangia di capelli nerissimi. E tutto ciò che emerge
è una pelle perlata e due occhi inequivocabilmente orientali.
Si muove,
Emily, confinata tra il letto sfatto del canale e l'alta parete in mattoni. Aspetta
che la penombra della sera si porti via le ultime certezze, lascia scorrere
stralci di musica, lo spirito dei Mogwai, e poi si scosta lentamente, con
movenze antiche e moderne, un automa preistorico, la rozza primitività di una
corporeità fluida. E così se li porta via. Lo spazio, risucchiato in quelle
movenze magnetiche che riducono il mondo alla sfera che la circonda, quella
piccola bolla di luce creata dalla lanterna che lei porta a spasso. Gli occhi
sfarfallano nel tentativo di catturarne i movimenti, traditi da una notte che
ancora non è. Si porta via il tempo, scuotendosi, voltandosi al rallentatore,
comprimendo passato e futuro con il suo cibernetico camminare a ritroso.
E si porta
via le nostre pene, stregate da un connubio impossibile tra l'anima nipponica e
le sonorità elettroniche.
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