mercoledì 5 settembre 2012

danza urbana





E ad un certo punto la città non c'è più. O meglio. Non è proprio che non ci sia più. La Rossa continua a circondarci ma rapidamente scompare, svanisce. Si eclissano gli edifici di via Don Minzoni nella luce della sera, sfuma la massiccia schiena del Mambo, svapora questo canale in secca che ci divide da lei.
Sì, perchè è lei, Emily Tanaka, che ha spento le luci sulla platea cittadina per accenderne una, microscopica, su di sè. Strane scarpe in pelle scura ai piedi, fasce nere aderenti a disegnarle le ginocchia, un vestito corto, comodo, nero anch'esso, tagliato sulle spalle, una frangia di capelli nerissimi. E tutto ciò che emerge è una pelle perlata e due occhi inequivocabilmente orientali.
Si muove, Emily, confinata tra il letto sfatto del canale e l'alta parete in mattoni. Aspetta che la penombra della sera si porti via le ultime certezze, lascia scorrere stralci di musica, lo spirito dei Mogwai, e poi si scosta lentamente, con movenze antiche e moderne, un automa preistorico, la rozza primitività di una corporeità fluida. E così se li porta via. Lo spazio, risucchiato in quelle movenze magnetiche che riducono il mondo alla sfera che la circonda, quella piccola bolla di luce creata dalla lanterna che lei porta a spasso. Gli occhi sfarfallano nel tentativo di catturarne i movimenti, traditi da una notte che ancora non è. Si porta via il tempo, scuotendosi, voltandosi al rallentatore, comprimendo passato e futuro con il suo cibernetico camminare a ritroso.
E si porta via le nostre pene, stregate da un connubio impossibile tra l'anima nipponica e le sonorità elettroniche.

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