Risaliamo
nuovamente la collina per poi ridiscendere in direzione del nostro hotel.
Sfiliamo per queste vie silenziose che abbiamo imparato a conoscere, il passo
sicuro sotto le stelle. Scolliniamo e ci ritroviamo sul palcoscenico della
città, nel giardino dove Aya Sofia e la Moschea Blu si fronteggiano da secoli,
silenziose. La fontana è in funzione e lancia nell'aria spruzzi colorati che si
stagliano contro il cielo ed i volumi plastici delle due moschee. Gli ultimi reduci della notte,
qualche coppietta ed alcuni irriducibili venditori ambulanti presidiano le
panchine che circondano lo specchio d'acqua. Ci sediamo a goderci lo
spettacolo, consci che domani tutto questo sarà solo un ricordo. I richiami dei
muezzin che scandiscono le ore della giornata, come una volta le campane delle
chiese. Gli uomini sempre indaffarati a vendere qualcosa, ovunque e qualsiasi
tipo di merce, in questa città perennemente in vendita. Le donne intraviste nei
quartieri poveri, nei parchi pubblici o in qualche bazar, intente ad arginare
l'esuberanza di bambini cenciosi, a tenere insieme case decrepite, a lavorare
nell'ombra. I dolci, bombe caloriche ad alta densità, l'onnipresente tè che
viaggia per le vie della città su splendidi vassoi in metallo, l'aroma di
narghilè, il cibo, ottimo ovunque lo abbiamo mangiato. E mentre ripasso
mentalmente quello che questa città ci ha svelato di sè, dal cielo cominciano a
scendere le prime gocce, ad interrompere il mio commiato ideale. Lentamente ci
alziamo e procediamo sfilando sul lato della Moschea Blu. Lasciandomi alle
spalle il parco Sultanahmet mi torna alla mente quando, per andare a casa,
dovevo passare tra duomo e battistero, nelle notti fiorentine, sorprendendo la
mole ricca e imponente di Santa Maria del Fiore assopita. E la
meraviglia era un po' la stessa che provavo guardandoti, mentre dormivi al mio fianco.
Scartiamo tutti
gli altri locali tipici e ci fiondiamo nei bassi fondi del nostro quartiere per
l'ultima sera sotto l'egida della mezzaluna. La parete gialla e tanti piccoli
vasi colorati appesi ci danno il benvenuto al bar reggae. Ci sediamo su
poltrone fatte di copertoni e tavoli ricavati da botti in legno. Un ragazzo si
avvicina tranquillamente e ci chiede cosa può portarci. Cappello da Indiana
Jones, occhialetti, bretelle, torna verso il bancone non prima di averci
lasciato la piacevole sensazione di essere in un posto accogliente.
Le birre si
inseguono, il narghilè fomenta i pensieri e le parole, le patatine alimentano
le disquisizioni notturne. E passiamo in rassegna tutto, passato e futuro,
andando alla deriva sulle note di Elvis. Ed è un po' come ritrovare qualcosa,
forse qualcosa che non si è mai avuto o che si è sempre temuto. Chissà.
Tutto è confuso e sereno, ed i pensieri si fondono alle canzoni.
Zeki, così
si chiama, ci chiede di fare una foto con lui e di lasciargli uno schizzo per
il bancone. In preda al furore tracciamo visioni oniriche e scritti criptici,
riversando sulla carta il manifesto desiderio di tornare qui, un giorno. Come se
avessimo trovato un amico.
1 commento:
bellissima foto!
iri
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