Scendendo per
Soğuk Çeşme Sokak ci imbattiamo nuovamente in un microscopico bar che avevamo
già notato in precedenza. Il chioschino di fatto consiste in un bancone ed una
serie di terrazzamenti che seguono la pendenza della strada. Su ognuno di
questi, panche in ferro battuto con cuscini ricamati da motivi orientaleggianti
raccolte intorno a bassi tavolini. Il sole batte dolce sulle mura di cinta
che fanno da scenario alla visione. Un richiamo ineludibile.
Dopo averci
portato i consueti tè, il ragazzo ci fa odorare un composto e ci chiede se
vogliamo provarlo. Attraversa la piccola stradina, armeggia al piano basso di
una casa in legno diroccata e, guardando il gatto che sonnecchia sul divano di
fronte a lui, avvicina la fiamma ossidrica per accendere il carbone. Poco dopo
ritorna con il nostro narghilè e l'impasto di tabacco e mele comincia a
spandere il suo aroma morbido nell'aria.
Un altro
ragazzo si siede di fianco a noi sulla panca e comincia a chiacchierare mentre
predispone davanti a sè una serie di piccoli recipienti in terra cotta. Ci racconta
con un sorriso che questi dieci giorni sono pieni di lavoro, che tanta gente in
Europa ha le ferie e viene a passarle a Istanbul. Mentre parla apre un pacco di
cellophane, ne estrae il tabacco aromatizzato e comincia a riempire i piccoli contenitori.
Li ricopre con abilità uno per uno con un foglio di carta stagnola, la fora
leggermente, et voilà, i narghilè per il primo pomeriggio sono pronti.
All'improvviso di lontano si insinua un canto, seguito poi da tanti altri a fargli eco, vicini e lontani. I muezzin hanno cominciato a richiamare i fedeli alla preghiera in tutta la città. I ragazzi si avvicinano all'impianto hi-fi e lo spengono. Non penso siano particolarmente osservanti, non sembra, ma per tutto il tempo della preghiera la musica rimane spenta, mentre loro continuano a lavorare. Come consuetudine, continuano a riempirci i bicchierini di chai, il tè turco, almeno finchè non appoggiamo il cucchiaino di traverso sul bordo del bicchiere stesso. E così, storditi dal sole e dal tabacco, ci spostiamo in cerca di un posto dove mangiare qualcosa.
All'improvviso di lontano si insinua un canto, seguito poi da tanti altri a fargli eco, vicini e lontani. I muezzin hanno cominciato a richiamare i fedeli alla preghiera in tutta la città. I ragazzi si avvicinano all'impianto hi-fi e lo spengono. Non penso siano particolarmente osservanti, non sembra, ma per tutto il tempo della preghiera la musica rimane spenta, mentre loro continuano a lavorare. Come consuetudine, continuano a riempirci i bicchierini di chai, il tè turco, almeno finchè non appoggiamo il cucchiaino di traverso sul bordo del bicchiere stesso. E così, storditi dal sole e dal tabacco, ci spostiamo in cerca di un posto dove mangiare qualcosa.
Risalendo nuovamente verso Aya Sofia adocchiamo
un locale che ci ispira fiducia ed chiediamo due kebap da portare via. Mi volto
per cercare la cassa e mi ritrovo una sorridente ed allucinata faccia dai
lineamenti inconfondibilmente nipponici che mi domanda se abbiamo già ordinato.
Gli rispondo di sì e lui, tutto felice, mi chiede se sono italiano. Sì, perchè?
- mi informo incuriosito. Perchè solo gli italiani invece di dire yes dicono
yeeeeeeeeeeeees. E ci facciamo quattro risate.
Il parco Gülhane
si estende tra Aya Sofia, il palazzo Topkapi ed il Corno d'Oro. Giardini ben
tenuti, erba rasata, grandi sempreverdi secolari a fare ombra ad aiuole
disegnate da fiori sgargianti. Sugli alberi ancora spogli si intravedono le
cicogne ed i loro nidi, mentre grandi merli e piccoli pappagalli ci volano intorno.
Ci sdraiamo
nel sole finalmente caldo del primo pomeriggio e divoriamo i migliori kebap che abbiamo mai assaggiato, attorniati da gruppi di turchi
e turisti che fanno lo stesso. Il tempo diventa labile, si scioglie il nodo del
"fare" e compare uno strano senso di pace che non conosco. Prendo uno
dei miei libri preferiti e comincio a leggere. E così, al di sotto del palazzo
del Sultano, comincia a farsi strada nella mia mente una campagna lontana ed
una fattoria, quella di Mato Rujo, che dimora cieca, scolpita in nero contro la
luce della sera.
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