sabato 22 febbraio 2014

una oficina



Porque una casa sin ti es una oficina,
un teléfono ardiendo en la cabina,
una palmera
en el museo de cera,
un éxodo de oscuras golondrinas.

Y cuando vuelves hay fiesta
en la cocina
y bailes sin orquesta
y ramos de rosas con espinas


Y sin embargo, Joaquìn Sabina

antico e nuovo



Ridà vita all'antico e allora saprai cos'è il nuovo.
A quel punto sarai un maestro

Confucio

short term 12



Once upon a time somewhere miles and miles beneath the surface of the ocean there lived a young octopus named Nina. Nina spent most of her time alone making strange creations out of rocks and shells. She was very happy.
But then on Monday the shark showed up.
- What's your name? - said the shark.
- Nina - she replied.
- Do you wanna be my friend?- he asked.
- OK. What do I have to do?- said Nina.
- Not much - Said the shark. - Just... let me eat one of your arms.
Nina had never had a friend before so she wondered if this is what you had to do to get one. She looked down at her eight arms and decided it wouldn't be so bad to give up one, so she donated an arm to her wonderful new friend.
Every day that week Nina and the shark would play together. They explored caves, built castles of sand, and swam really, really fast and every night the shark would be hungry and Nina would give him another one of her arms to eat.
One Sunday after playing all day the shark told Nina that he was very hungry.
- I don't understand - she said - I've already given you 6 of my arms and now you want one more?
The shark looked at her with a friendly smile and said:
- I don't want one. This time I want them all.
- But why? - Nina asked and the shark replied:
- Because that's what friends are for.
When the shark finished his meal he felt very sad and lonely. He missed having someone to explore caves, build castles and swim really, really fast with.
He missed Nina very much, so he swam away to find another friend.

Short Term 12

mercoledì 19 febbraio 2014

jovez




La strada si fa sterrato e comincia a scendere. I solchi lasciati dalle ruote si fanno profondi, grosse pietre affiorano mentre lasciamo la campagna per il bosco. Aggiriamo uno sperone di roccia e ci ritroviamo in uno spiazzo sterrato circondato da una staccionata. Oltre, la terra precipita verso una valle avvolta nel buio, sotto un cielo cristallino di stelle.
L'Antico Molino, a qualche chilometro dal piccolo paese di Lubriano, è un basso edificio in tufo costruito a ridosso della roccia. La cucina ampia come quella degli edifici di campagna, gli utensili appesi alla trave in legno che sovrasta i fuochi. Sull'immenso tavolo quadrato sono disposti cesti di vimini, torte, pane, oggetti di altri tempi. La nostra stanza è scavata nel tufo della collina, la finestra a guardare la valle.

- Quindi lei è di Roma centro.
- Centro centro. Sto dietro piazza Navona.
- E come mai è finito a vivere in questo paese? - dico pensando alla strada bianca che ci separa dalla provinciale per Lubriano, un centinaio di chilometri lontano dalla capitale.
- Eh - dice l'anziano gestore allungandosi sulla sedia e guardando fuori dalla finestra. - Il destino ce porta dove vuole.
Spazzolo le ultime verdure grigliate mentre ci racconta di come lavorasse come tipografo per il ministero. Una gran bella vita, tanto lavoro, giravano i soldi. Poi, negli anni Novanta, l'inchiesta di Tangentopoli si portò via i politici e loro dovettero chiudere. Così si trasferirono da queste parti.
- Gnente, nun se poteva costruire gnente qui! Tutto abusivo avemo dovuto fà!
Il ristorante Jovez, nella notte, sembra una bella casa di campagna. Arcate di tufo, portici chiusi da vetrate, un grande camino, mobili antichi e qualche arredo retrò. Gli altri clienti se ne sono andati piano piano ed i figli del gestore, i camerieri, hanno cominciato a mettere della musica latina ad alto volume ed a ballare trai tavoli.
- Venite a ballare coi giovani! Smettete di parlare cor vecchio! - ci gridano scherzosi.
Il padre non li ascolta neppure e continua i suoi pensieri.
Gli chiedo allora com'è la situazione con il Tevere in questi giorni.
- Tutto a posto. C'è stato qualche problema, ma prima de Roma. Secondo voi perchè l'hanno scelta i preti? Sò furbi quelli! A Roma nun sucede gnente. Terremoti, alluvioni, ... mica ce stanno a Roma! Sò furbi i preti!
E prima di andarcene, tra i mobili e le lampade che ha restaurato, mi cade l'occhio sul santino del giovane beato Marvelli appoggiato di fianco alla cassa.

sabato 8 febbraio 2014

identità




Siamo quello che pensiamo.
Tutto ciò che siamo nasce con i nostri pensieri.
Noi creiamo il nostro mondo.
Buddha

Accettiamo l'amore che pensiamo di meritare.
Noi siamo infinito

domenica 2 febbraio 2014

inverno



"Mamma, noi crediamo nell'inverno?"

Philip Roth, Lamento di Portnoy

mercoledì 29 gennaio 2014

cielo e terra



Dona a chi ami
Ali per volare
Radici per tornare
Motivi per restare

Dalai Lama

lunedì 27 gennaio 2014

chalet




Lasciata Città di Castello ci dirigiamo verso sud ed una ventina di minuti dopo attraversiamo Trestina. Compriamo pollo arrosto, patate e vino all'unica rosticceria aperta e ci dirigiamo verso ovest, verso l'interno. L'abitato scompare frastagliandosi in nebulose di piccoli borghi; la strada sale, attraversa la piccola Lugnano e continua ad inerpicarsi. Dove la curva stringe a gomito riportandoci fronte alla valle, lì si trova parcheggiata una cinquecento gialla.
Steve è un inglese sulla cinquantina che ci accoglie calorosamente e si informa subito del tuo accento dall'aroma londinese nel quale ritrova il suo passato. Poi si carica gli zaini in macchina e ci dà istruzioni per arrivare a destinazione.
Il sentiero scende verso valle tra campi di ulivi e boscaglia incolta, zigzagando su lastre di pietra, finchè dopo un quarto d'ora gli alberi si diradano e lo vediamo.

Negli anni Novanta Steve si era stancato del nord. Non sopportava più di stare con quei buzzurri di Leeds che non aveva mai realmente sfangato e comprò due case antiche e decrepite, una a fianco all'altra, nel cuore dell'Italia. Case di contadini, fatte di pietre sbozzate, con i tetti sfondati dal tempo. Assoldò una squadra di operai polacchi e cominciò a sistemare la prima delle due. Non avendo altro posto dove dormire, i muratori si costruirono una casetta di legno a poca distanza dalla casa principale. Una stanza con la cucina e la stufa a legna, due camere e un bagno.


Vent'anni dopo Steve ci accoglie nel suo chalet in legno. Vive in una magnifica casa a tre piani affacciata sulla Toscana, circondata dal bosco, insieme ai suoi sette gatti. Conosce i sentieri ed i cacciatori che li percorrono in cerca di selvaggina. Conosce i cani della casa più vicina, quattro chilometri più avanti, dove è meglio non fermare la macchina. Conosce il tempo che farà. Ci rifornisce di legna e ci garantisce che, per questa settimana, non dovrebbe nevicare.

venerdì 27 dicembre 2013

pronto




Si passano mesi, anni ad aspettare.
Che arrivi l'occasione giusta, la compagnia giusta, il lavoro che fa per noi, la persona che ci immaginiamo. Il weekend, le ferie, l'estate.
Seduti in attesa che qualcosa cambi, come se si trattasse di lasciar sedimentare ciò che ci meritiamo e finalmente raccoglierlo.

Eppure forse non sono le condizioni a non essere giuste, le persone a non adeguarsi a noi. Forse siamo noi che non siamo pronti per quel che desideriamo.

Proprio come recita l'antico detto indiano. Quando l'allievo è pronto il maestro compare. E non viceversa.

venerdì 22 novembre 2013

entregarse



¿No te da vergüenza? ¿Cómo es posible? ¿Qué has hecho para llegar a ese estado? ¿Ya ni siquiera puedes vivir entre la gente? ¡Hubieras podido ser tan feliz! ... Eres fino, eres inteligente y egoísta. ¿Pero qué has hecho durante toda tu vida? Engañar, engañar... ¡nada más que engañar!... Y ahora resulta lo de siempre; eres tú, el verdadero, el único engañado. ¡Me dan unas ganas de llorar! ... ¡Desde chico fuiste tan orgulloso! ... Te considerabas por encima de todos y de todo. De nada valía reprenderte. Crees haber vivido más intensamente que nadie. Pero, ¿te atreverías a negarlo?, nunca te has entregado. ¡Cuando pienso que prefieres cualquier cosa a encontrarte contigo mismo! ¿Cómo es posible que puedas soportar ese vacío?... ¿Por qué te empeñas en llenarlo de nada?

Oliverio Girondo, El lado oscuro del corazòn 

sabato 16 novembre 2013

raccordi - giorno 7



La famosa colazione preparata "appositamente" per noi è in realtà per tutti gli ospiti. Sul tavolo esterno ci ritroviamo a mangiare uova, pane e tè insieme ad un ragazzo canadese ed un'inglese, ognuno pronto ad iniziare la sua giornata di tour per i dintorni. Nathan, confermando le sue scarse capacità organizzative, si è aggregato alla nostra vacanza ormai da tre giorni ed ancora non ha deciso come fare per arrivare ad Amburgo. Continuando a procrastinare ha pensato di farsi trasportare in macchina da noi ancora per un po', in direzione nord. Carichiamo le sue pesanti valige, salutiamo e prendiamo la via del ritorno.
L'autostrada corre parallela alla bella costa croata senza che riusciamo però a vederla.
Al bivio autostradale tra Zagreb e Rijeka, all'esterno della curva di raccordo, vediamo da lontano un ragazzo con un cappello di paglia ed il dito alzato. "Fermati!" mi fai, ed io accosto rapidamente.
- Ciao. Dove devi andare?
- Voi dove andate?
- Verso l'Italia. Dobbiamo essere a Bologna in serata.
- È bella Bologna?
- Sì, una città universitaria.
- Ok. Per me va bene.
Baptiste ha 22 anni, i capelli castani, gli occhi azzurri ed un'espressione felice e spensierata. Finito il primo anno di filosofia, a luglio è partito dalla Normandia deciso a viaggiare unicamente in autostop. Sui sedili altrui, ospitato in case occupate, equipaggiato con zaino e sacco a pelo, ha attraversato la Germania, l'Austria, i Balcani, fino ad arrivare in Turchia. Ora sta tornando verso l'Italia dove ha un appuntamento tra una settimana con un suo amico. Dove non si sa. Gli accordi sono che il primo che entra in Italia avvisa l'altro.

Attraversata la frontiera chiamo a casa per avvisare che avremo ospiti. Prima di mezzanotte siamo tutti seduti, collezione improbabile di umanità di origini ed età diverse: Svezia, Francia, Stati Uniti, Polonia, Bulgaria, Italia. Tutti riuniti per una notte, tutti sconosciuti.

mostar - giorno 6



L'ingresso a Mostar mi ricorda quello ad un paesotto campano nel secondo dopoguerra. Uomini vestiti coi loro stracci migliori sono appostati agli incroci strategici pronti a fiondarsi sulle macchine dalla targa straniera per offrirsi come guide, procacciatori di alloggi, di cibo, di curiosità. Ci divincoliamo dal nostro nuovo grande amico e circumnavighiamo la città vecchia. Attraversiamo il fiume, a sud del ponte vecchio, e ci infiliamo in una piccola via che punta verso la collina. Qui troviamo una signora che affitta una camera da otto persone. Fortunatamente ha ancora posto per noi tre.
Quando entriamo ci dice che è contenta che siamo italiani, che gli italiani sono stati i primi a mandare loro aiuti e cibo dopo la guerra civile. È per questo, continua, che ha imparato un po' della nostra lingua e, per dimostrarci la sua gratitudine ci porta in camera delle bibite fresche e, ci assicura, la mattina successiva ci preparerà appositamente la colazione. Commossi e un po' intimoriti da questo improvviso ed opportunistico senso patrio, ci gettiamo sui soffici letti della stanza seminterrata.
Lo Stari Most di Mostar è un bel ponte a schiena d'asino che congiunge le due parti della città separate dalla profonda faglia del fiume Narenta. Ricostruito da pochi anni con il contributo dell'Unesco, ora ospita ragazzini minorenni che si lanciano dalla sommità nelle fredde acque del fiume (un volo di oltre 24 metri) per pochi spicci offerti dai turisti che si affrettano a stringere loro le mani e ad immortalarli in questi suicidi controllati.
Tu non hai ancora perso le speranze di tuffarti nonostante quello che ti hanno raccontato in camera. Per lanciarsi, infatti, bisogna fare un corso (a pagamento) di una giornata provando vari tuffi da altezze inferiori (10 metri) per fare pratica. Precauzioni molto severe, a quanto pare, ma a volte neppure questo è sufficiente. La settimana scorsa due ragazzi australiani sono stati portati al pronto soccorso con lesioni alla schiena e alle gambe per aver effettuato un ingresso in acqua non preciso. Per non parlare del polacco.
- Che è successo al polacco?
- L'anno scorso un ragazzo polacco voleva tuffarsi ma non aveva intenzione di pagare il corso. Ha aspettato che passasse il tramonto, quando c'era meno gente, e si è tuffato. L'hanno recuperato 4 giorni dopo diversi chilometri più a valle.

Il paese gravita attorno alla bellezza ardita del ponte, acceso dalla luce del tramonto, e circondato da negozietti e bar assolutamente turistici dove non vi sono problemi a pagare in euro. Nathan si aggira in cerca di una maglia souvenir (perchè le altre sono tutte sporche) e se ne esce con una che, al posto della scritta Coca-Cola, riporta Ćevapčići.

venerdì 15 novembre 2013

konjic - giorno 6



Dopo aver accompagnato Jenny in aeroporto (e dopo aver perso le chiavi della macchina, aver messo a soqquadro l'ostello, gli zaini, averle chiamato un taxi, aver dimenticato di ritirare i soldi per pagare il parcheggio) ci dirigiamo verso un paesino dove la signora inglese dell'ostello ci ha convinto a fermarci. A metà strada tra Sarajevo e Mostar, Konjic ospita il colossale bunker di Tito. Terminato alla fine degli anni '70 dopo quasi trent'anni di lavori, è costituito da oltre 600 mq di gallerie scavate 300 m in profondità nella montagna e poteva ospitare 350 persone per diversi mesi. Il costo esorbitante dell'opera, oltre 5 bilioni di dollari, doveva garantire la sopravvivenza del dittatore e della classe dirigente contro esplosioni ben più potenti rispetto a quella di Hiroshima.
Arrivati in paese decidiamo di concederci una colazione come si deve, divorati dai succhi gastrici attivati dall'alcol della sera prima. Lungo il fiume troviamo un bar al primo piano di un brutto edificio da periferia dove sono riuniti dozzine di giovani che, a giudicare dalle pagelle lasciate sui tavoli, stanno frequentando i corsi di recupero. Da bravi stranieri ordiniamo come seconda colazione pizza e tè. Di fianco a noi sta il ponte di Konjic, vecchia opera a dorso d'asino in pietra, completamente restaurato. Sull'altra sponda si intravede svettare qualche minareto, sebbene man mano che ci avviciniamo a Lourdes questi si facciano sempre meno presenti.
Terminato il nostro brunch ci rechiamo all'ufficio turistico per comprare il biglietto del bus che ci porterà all'Atomska Ratna Komanda (ARK), il famoso bunker. Peccato che l'unico bus della settimana sia partito venti minuti fa e noi, che pregustavamo la visita già da questa mattina, rimaniamo come degli allocchi a fissare la ragazza che ci dice che non possiamo raggiungerlo neppure in auto, in quanto il luogo è segreto. Allibiti per l'idiozia del nostro brunch, riprendiamo la macchina e puntiamo verso Mostar.

Le colline si fan montagne boscose e si aprono per lasciare spazio al lago di Jablaničko, sorta di gigantesca alga d'acqua che penetra negli anfratti e nelle gole della terra. Un ponte strallato ne congiunge i lembi mentre al largo, inspiegabile come una visione, una zattera con una copertura simile ad un tetto, vaga verso l'orizzonte confermandoci che forse, questi luoghi, hanno qualche forma di remota parentela con l'Estremo Oriente.

martedì 12 novembre 2013

momentaneamente



Ci si ritrova bloccati in questa dicotomia, "Dovrei far qualcosa di meglio ma non posso perché non riesco a trovare un altro lavoro". Così dici a te stesso: "Mi trovo qui solo momentaneamente perché troverò qualcosa di meglio.

Naomi Klein, No Logo

lunedì 11 novembre 2013

sarajevsko - giorno 5



Un po' di cultura, ogni tanto. Trascino tutti quanti a vedere una mostra che ci ha consigliato la signora inglese che sta nella nostra camera. Infilata la porta a lato della cattedrale, percorso un corridoio dipinto di nero, poi un altro, preso un ascensore, ci ritroviamo nella sala che celebra il massacro di Srebrenica. Una mostra fotografica con scatti dell'epoca ed alcuni del periodo del recupero dei corpi e, in fondo alla sala, alcuni video.
Una foto commovente, una mano di donna guantato di bianco che sorregge e sostiene una mano che emerge dal terreno, ci colpisce tutti e finisce furtivamente sulla pellicola di Nathan. Mi siedo su una delle lunghe panche in legno, a fianco di una ragazza vestita come nelle nostre campagne tanti anni fa, il velo a fasciarle il viso. Davanti a noi due ragazze vestite in nero, anche loro con il velo, non scollano gli occhi dallo schermo. Ci uniamo a loro, fagocitando i sottotitoli.
A metà degli anni '90 migliaia di mussulmani, rifugiati nella città che era allora sotto la protezione delle Nazioni Unite, vennero uccisi dalle truppe serbo-bosniache al comando del generale Mladić. Il più grande genocidio europeo dopo la seconda guerra mondiale. Sullo schermo le donne parlano dei figli strappati alle loro braccia, dei mariti catturati, di parenti separati e mai più tornati indietro.
Toccati profondamente dalla mostra, scambiamo le nostre impressioni mentre facciamo ritorno al quartiere ottomano. Ci domandiamo quale sia il senso di venire in questi luoghi a ricercare, con gusto feticista, i fori dei proiettili, gli edifici sventrati, i segni di una guerra che ha devastato una nazione, un popolo, e che per noi è oggi solamente un racconto, fonte di turismo alternativo. La ricerca voyerista del dramma altrui, guardare dentro al calderone della guerra ma solo una volta che questa è finita. Noi, generazione che la guerra non l'ha vissuta, intrappolati nel fascino amaro che essa porta con sè. Come rendere giustizia a questo magnifico paese e non sciacallarne semplicemente la memoria e l'economia terzomondista? Come fare di ciò che abbiamo visto una ricchezza per tutti invece che un argomento da bar?
Forse proprio così. Ricordandolo. Scrivendone. Sentendolo.

Nella mia discesa trai cimiteri verso il centro avevo incontrato una stradina con un paio di bar che facevano al caso nostro. Ed è così che ci ritroviamo a passare la serata ai margini della città vecchia, seduti al nostro tavolino a tracannare birra Sarajevsko, rakia e altri alcolici locali. Jenny domattina partirà con l'aereo alla volta di Istanbul ed ha deciso di dare il meglio di sè, cantando terribilmente, imitando Ray Charles, imitando il nostro pessimo accento ed azzerando il nostro orgoglio.
Il ritorno all'ostello è un addio lento e trascinato, ricco di stanchezza e leggerezza. 

giovedì 7 novembre 2013

al calar del sole - giorno 5



Sarajevo ha cimiteri candidi sdraiati sulle pendici dei colli. Un prato di lapidi bianche, un bosco di bambù di pietra, una mandria di steli massicce si alzano verso il cielo, le scritte a guardare la città. Ed il tramonto è il loro momento.

martedì 5 novembre 2013

perdersi - giorno 5



Perdersi. Perdersi e seguire i sensi. Non già per ritrovare la strada, per tornare là dove sappiamo dove ci troviamo, ma per continuare a perdersi con maggior intensità, con maggior trasporto, dentro al meraviglioso sconosciuto. Assaporare il nascere dell'inaspettato, la gioia della scoperta senza preavvisi, la sorpresa dei lati nascosti della realtà. Riempirsi le narici di nuovi profumi, tracciarne gli aromi, denudare la piccola magnificenza delle periferie, le opere del tempo, artigiano instancabile, sulla natura, sugli uomini, sulle loro case, sui loro sogni. Osservare il quotidiano altrui, renderlo scena del nostro personale teatro, tramutarlo in romanzo universale, scoprire attraverso i suoi occhi l'essenza delle cose, il barlume di un senso e di una speranza.
Riempirsi. Gonfiarsi come una spugna assorbendo l'atmosfera, sorridendo il paesaggio, gli occhi straripanti del tutto che ci circonda. Le orecchie sorde a furia di ascoltare senza gerarchie. La mente finalmente placata, tornando a collocare la nostra esistenza al suo posto, microscopica sedia nel banchetto universale.

E allora la periferia collinare, il passato che riemerge in moschee di legno quasi fossero baite, villini di crema misti di oriente e occidente, le alte torri di vetro, le rose dei proiettili che solcano i marciapiedi, gli intonaci, i ricordi. Il fiume e la povera esistenza di chi sopravvive a lato dei benestanti, qualche passo più in là. I cimiteri islamici che si rosolano sulle pendici guardando in faccia il sole morente, il baluardo nordest come osservatorio al tramonto. Tutto è conforto inaspettato e profondo.

mercoledì 23 ottobre 2013

verso me stesso



Il Pellegrino,
il pellegrinaggio e il cammino:
nient'altro che me
verso me stesso.

Farin Addir Attar, XII secolo, Persia

terapista verbale



Non c'è dubbio che era una situazione sufficientemente stravagante per attirare la mia attenzione.
Invitati da una degna rappresentante della Rimini bene, accompagnati da un autista privato che non fa altro che vantarsi dei miliardi e miliardari che ha fatto transitare oltre dogana negli ultimi anni, ci presentiamo ad un incontro di "terapia verbale". Il grande cancello è aperto e ci inerpichiamo per il podere che circonda l'albergo, con tanto di viale di accesso sorvegliato dalle statue. L'edificio, un casermone grande ma senza pretese di qualità, è evidentemente di proprietà della curia, come dimostrano le sculture e le raffigurazioni sacre. All'interno però, accanto alle solite stampe di quadri classici a sfondo religioso, trovo alcune riproduzioni di Klimt dove le nudità sono tutt'altro che celate. Che la Chiesa, arrivata in paradiso (fiscale), si conceda un po' di mondanità?
La sala è gremita, tanto che gli organizzatori ci fanno portare appositamente altre sedie. Il pubblico è composto da una grande maggioranza di donne, per lo più oltre la cinquantina.
La dottoressa Mereu, laureatasi a Sassari e poi in medicina olistica a Urbino, parla con un cipiglio vagamente dittatoriale, sebbene il suo sguardo rimanga per lo più fisso sopra le teste dei suoi ascoltatori. Racconta come le malattie siano spesso frutto di scompensi non fisici ma mentali, psicologici. Cortocircuiti nei nostri schemi di pensiero, nei nostri rapporti interpersonali, nel nostro modo di vedere noi ed i nostri genitori, ingenerano patologie fisiche. La soluzione della medicina è, normalmente, quella di reprimere il sintomo chimicamente ingolfando il manifestarsi di problematiche che vedono il corpo solo come veicolo finale. In molti casi svelare l'arcano, rendere palese il complesso o la paura che ha generato la situazione patologica, è sufficiente per guarire il paziente.
Affascinante. Il potere della mente che distrugge e cura il corpo. E trovarne la chiave significa spesso approdare ad una vita se non più semplice sicuramente meno invasa da prodotti farmaceutici.
Le persone si alzano dalle loro sedie, prendono il microfono e raccontano i loro problemi. La dottoressa li osserva, ascolta come parlano, di cosa parlano, fa domande che mi ricordano gli omeopati, tangenti rispetto al problema, vagamente spiazzanti per chi non conosce il trucco. E poi sfodera la sua diagnosi. La comparsa di macchie a forma di farfalla sulle caviglie simboleggiano il sentirsi imprigionata di una donna sposata, e la sua voglia di volare. Le secrezioni cutanee di un ragazzo sono dovute al rapporto ancora troppo morboso con la madre. Un orzaiolo incurabile guarito istantaneamente quando, su suggerimento della dottoressa, la moglie ha scoperto il tradimento che non voleva vedere.
Non dubito che queste analisi, misto di psicologia e naturopatia, possano essere veritiere e sollevare nodi nascosti. E di sicuro i fiori che vengono proposti sempre come cura hanno meno effetti collaterali dei preparati delle case farmaceutiche. Eppure l'atteggiamento da Oracolo del Sud, la poca sintonia con il paziente (che viene spesso trattato quasi fosse un bimbo viziato che non vuol vedere quel che è palese) mi rendono questa donna istintivamente antipatica.
La mia antipatia cresce quando un ragazzo si alza per raccontarle dei vari problemi di cui soffre e la dottoressa, squadrandolo e mostrandolo alla platea quasi fosse un animale curioso, dice "Ma non vedete? È chiaro qual è il suo problema. Quanti anni hai?"
"Trenta", risponde il ragazzo.
"Trenta ma ti senti ancora un bimbo, vero? Guardatelo. Con i pantaloncini di jeans e quella maglietta così brutta. L'hai comprata tu o la mamma?"
E così avanti, smontandolo, dimenticando i sintomi che, con grande coraggio, il ragazzo aveva esposto di fronte agli sconosciuti.
Dopo qualche minuto a subire lo show del suo curatore e carnefice, il ragazzo torna mesto a sedersi.
È ora la volta di un signore anziano. Prende il microfono e comincia a raccontare che ha cominciato ad avere una serie di problemi e, pensandoci, tutto pare essere cominciato quando gli hanno trovato il diabete.
"Ma lei stava male?" lo interrompe la Mereu.
"No", risponde l'uomo dopo averci pensato un po'.
"E allora perchè si è fatto fare gli esami?"
L'uomo è incredulo e sulle prime non sa cosa rispondere. "Per tenermi controllato", risponde infine con titubanza.
"Ma se lei non si sente male è inutile che vada a fare le visite!"
E qui parte una filippica contro le procedure degli ospedali e dei medici che ogni anno abbassano la soglia dei parametri ritenuti normali di modo che sempre più gente risulti diabetica o celiaca o chissà che altro.
A questo punto mi alzo ed esco dalla stanza. Non riesco proprio più a sopportarla. Mi piazzo sul pianerottolo delle scale di emergenza e guardo in alto dove svettano, contro il cielo stellato, le tre torri illuminate.
Non è tanto il contenuto di quel che dice a lasciarmi insoddisfatto (il ragazzo poteva effettivamente aver  problemi di autorità ed indipendenza con sua madre e l'uomo non avere un effettivo diabete), quanto il modo. Una dottoressa che sostiene di curare le persone verbalmente, utilizzando quindi le parole come strumento della sua terapia, non può esporre i pazienti a sessioni pubbliche così annichilenti. Il porsi così palesemente al di sopra degli assistiti, autoeleggendosi maestro e guru, ed infliggendo ferite, seppur solo nell'animo e causate dalle parole, è un atteggiamento che non sopporto. E poi con quale autorità incita le persone a non controllarsi, a non tenersi monitorate?
Che sia coscientemente la strategia che la dottoressa adotta per una terapia shock? Perchè la rimozione del blocco sia più efficace e profonda? In ogni caso è una mancanza di empatia che non approvo.

martedì 22 ottobre 2013

attesa - giorno 5



Finalmente è uscito nuovamente il sole e, per riposarci un po', decidiamo di sederci ad uno dei bar della zona vecchia. Appena fuori rispetto alla via principale si trovano una serie di piazzette completamente circondate di negozi e bar che si sono appropriati, con le loro mercanzie ed i loro tavolini, dell'intero spazio. Noi stiamo seduti al sole, spalle alla parete in legno scuro del locale. Le panche sono ricoperte con cuscini dai tessuti orientaleggianti, gli sgabelli sono quelli ottomani e, spesso, i tavolini in legno o metallo riprendono gli arredi delle popolazioni nomadi, smontabili con un solo gesto.
Arriva il nostro caffè turco, dentro all'ibrik, l'inconfondibile bricco in ottone. Come ormai abbiamo imparato, visto che viene preparato versando la fine polvere di caffè direttamente nell'acqua bollente, bisogna avere cura di non berlo fino in fondo per evitare di ingerire lo spesso strato costituito dai fondi.
Poi ci facciamo portare il narghilè con il tabacco aromatizzato. Dai tavoli vicini si alzano nuvole aromatiche simili alle nostre ed i ragazzi chiacchierano mentre fumano sdraiati sui divani, passandosi l'un l'altro il beccuccio.
Rosolati nel sole del primo pomeriggio, con fumo e caffè, nessuno ha più voglia di alzarsi nè di far altro. Le uniche proposte sollevate riguardano spedizioni per recuperare un po' di regali e souvenirs dai negozietti.
Il mio demone interiore si risveglia rapidamente e decido che è arrivato il momento di prendermi del tempo per me, di solitudine ed esplorazione di questa città, che mi pare nasconda tanto di interessante. Molto più di quello che si può trovare in un negozio.
Guardo la mappa. Il centro storico è stretto e allungato, circondato dalle colline su tutti i lati e lambito dal fiume a ovest. Direi di puntare verso l'alto.