Non c'è
dubbio che era una situazione sufficientemente stravagante per attirare la mia
attenzione.
Invitati da
una degna rappresentante della Rimini bene, accompagnati da un autista privato
che non fa altro che vantarsi dei miliardi e miliardari che ha fatto
transitare oltre dogana negli ultimi anni, ci presentiamo ad un incontro di
"terapia verbale". Il grande cancello è aperto e ci inerpichiamo per
il podere che circonda l'albergo, con tanto di viale di accesso sorvegliato
dalle statue. L'edificio, un casermone grande ma senza pretese di qualità, è
evidentemente di proprietà della curia, come dimostrano le sculture e le
raffigurazioni sacre. All'interno però, accanto alle solite stampe di quadri
classici a sfondo religioso, trovo alcune riproduzioni di Klimt dove le nudità
sono tutt'altro che celate. Che la Chiesa, arrivata in paradiso (fiscale), si conceda
un po' di mondanità?
La sala è
gremita, tanto che gli organizzatori ci fanno portare appositamente altre
sedie. Il pubblico è composto da una grande maggioranza di donne, per lo più
oltre la cinquantina.
La dottoressa
Mereu, laureatasi a Sassari e poi in medicina olistica a Urbino, parla con un
cipiglio vagamente dittatoriale, sebbene il suo sguardo rimanga per lo più
fisso sopra le teste dei suoi ascoltatori. Racconta come le malattie siano
spesso frutto di scompensi non fisici ma mentali, psicologici. Cortocircuiti nei
nostri schemi di pensiero, nei nostri rapporti interpersonali, nel nostro modo
di vedere noi ed i nostri genitori, ingenerano patologie fisiche. La soluzione
della medicina è, normalmente, quella di reprimere il sintomo chimicamente
ingolfando il manifestarsi di problematiche che vedono il corpo solo come
veicolo finale. In molti casi svelare l'arcano, rendere palese il complesso o
la paura che ha generato la situazione patologica, è sufficiente per guarire il
paziente.
Affascinante.
Il potere della mente che distrugge e cura il corpo. E trovarne la chiave
significa spesso approdare ad una vita se non più semplice sicuramente meno
invasa da prodotti farmaceutici.
Le persone
si alzano dalle loro sedie, prendono il microfono e raccontano i loro problemi.
La dottoressa li osserva, ascolta come parlano, di cosa parlano, fa domande che
mi ricordano gli omeopati, tangenti rispetto al problema, vagamente spiazzanti
per chi non conosce il trucco. E poi sfodera la sua diagnosi. La comparsa di
macchie a forma di farfalla sulle caviglie simboleggiano il sentirsi
imprigionata di una donna sposata, e la sua voglia di volare. Le secrezioni
cutanee di un ragazzo sono dovute al rapporto ancora troppo morboso con la
madre. Un orzaiolo incurabile guarito istantaneamente quando, su suggerimento
della dottoressa, la moglie ha scoperto il tradimento che non voleva vedere.
Non dubito
che queste analisi, misto di psicologia e naturopatia, possano essere veritiere
e sollevare nodi nascosti. E di sicuro i fiori che vengono proposti sempre come
cura hanno meno effetti collaterali dei preparati delle case farmaceutiche. Eppure
l'atteggiamento da Oracolo del Sud, la poca sintonia con il paziente (che viene
spesso trattato quasi fosse un bimbo viziato che non vuol vedere quel che è
palese) mi rendono questa donna istintivamente antipatica.
La mia
antipatia cresce quando un ragazzo si alza per raccontarle dei vari problemi di
cui soffre e la dottoressa, squadrandolo e mostrandolo alla platea quasi fosse
un animale curioso, dice "Ma non vedete? È chiaro qual è il suo problema. Quanti
anni hai?"
"Trenta",
risponde il ragazzo.
"Trenta
ma ti senti ancora un bimbo, vero? Guardatelo. Con i pantaloncini di jeans e
quella maglietta così brutta. L'hai comprata tu o la mamma?"
E così
avanti, smontandolo, dimenticando i sintomi che, con grande coraggio, il
ragazzo aveva esposto di fronte agli sconosciuti.
Dopo qualche
minuto a subire lo show del suo curatore e carnefice, il ragazzo torna mesto a
sedersi.
È ora la
volta di un signore anziano. Prende il microfono e comincia a raccontare che ha
cominciato ad avere una serie di problemi e, pensandoci, tutto pare essere
cominciato quando gli hanno trovato il diabete.
"Ma lei
stava male?" lo interrompe la Mereu.
"No",
risponde l'uomo dopo averci pensato un po'.
"E
allora perchè si è fatto fare gli esami?"
L'uomo è
incredulo e sulle prime non sa cosa rispondere. "Per tenermi
controllato", risponde infine con titubanza.
"Ma se
lei non si sente male è inutile che vada a fare le visite!"
E qui parte
una filippica contro le procedure degli ospedali e dei medici che ogni anno
abbassano la soglia dei parametri ritenuti normali di modo che sempre più gente
risulti diabetica o celiaca o chissà che altro.
A questo
punto mi alzo ed esco dalla stanza. Non riesco proprio più a sopportarla. Mi piazzo
sul pianerottolo delle scale di emergenza e guardo in alto dove svettano,
contro il cielo stellato, le tre torri illuminate.
Non è tanto il
contenuto di quel che dice a lasciarmi insoddisfatto (il ragazzo poteva
effettivamente aver problemi di autorità
ed indipendenza con sua madre e l'uomo non avere un effettivo diabete), quanto
il modo. Una dottoressa che sostiene di curare le persone verbalmente,
utilizzando quindi le parole come strumento della sua terapia, non può esporre
i pazienti a sessioni pubbliche così annichilenti. Il porsi così palesemente al
di sopra degli assistiti, autoeleggendosi maestro e guru, ed infliggendo
ferite, seppur solo nell'animo e causate dalle parole, è un
atteggiamento che non sopporto. E poi con quale autorità incita le persone a non controllarsi, a non tenersi monitorate?
Che sia coscientemente
la strategia che la dottoressa adotta per una terapia shock? Perchè la
rimozione del blocco sia più efficace e profonda? In ogni caso è una mancanza
di empatia che non approvo.
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