mercoledì 23 ottobre 2013

terapista verbale



Non c'è dubbio che era una situazione sufficientemente stravagante per attirare la mia attenzione.
Invitati da una degna rappresentante della Rimini bene, accompagnati da un autista privato che non fa altro che vantarsi dei miliardi e miliardari che ha fatto transitare oltre dogana negli ultimi anni, ci presentiamo ad un incontro di "terapia verbale". Il grande cancello è aperto e ci inerpichiamo per il podere che circonda l'albergo, con tanto di viale di accesso sorvegliato dalle statue. L'edificio, un casermone grande ma senza pretese di qualità, è evidentemente di proprietà della curia, come dimostrano le sculture e le raffigurazioni sacre. All'interno però, accanto alle solite stampe di quadri classici a sfondo religioso, trovo alcune riproduzioni di Klimt dove le nudità sono tutt'altro che celate. Che la Chiesa, arrivata in paradiso (fiscale), si conceda un po' di mondanità?
La sala è gremita, tanto che gli organizzatori ci fanno portare appositamente altre sedie. Il pubblico è composto da una grande maggioranza di donne, per lo più oltre la cinquantina.
La dottoressa Mereu, laureatasi a Sassari e poi in medicina olistica a Urbino, parla con un cipiglio vagamente dittatoriale, sebbene il suo sguardo rimanga per lo più fisso sopra le teste dei suoi ascoltatori. Racconta come le malattie siano spesso frutto di scompensi non fisici ma mentali, psicologici. Cortocircuiti nei nostri schemi di pensiero, nei nostri rapporti interpersonali, nel nostro modo di vedere noi ed i nostri genitori, ingenerano patologie fisiche. La soluzione della medicina è, normalmente, quella di reprimere il sintomo chimicamente ingolfando il manifestarsi di problematiche che vedono il corpo solo come veicolo finale. In molti casi svelare l'arcano, rendere palese il complesso o la paura che ha generato la situazione patologica, è sufficiente per guarire il paziente.
Affascinante. Il potere della mente che distrugge e cura il corpo. E trovarne la chiave significa spesso approdare ad una vita se non più semplice sicuramente meno invasa da prodotti farmaceutici.
Le persone si alzano dalle loro sedie, prendono il microfono e raccontano i loro problemi. La dottoressa li osserva, ascolta come parlano, di cosa parlano, fa domande che mi ricordano gli omeopati, tangenti rispetto al problema, vagamente spiazzanti per chi non conosce il trucco. E poi sfodera la sua diagnosi. La comparsa di macchie a forma di farfalla sulle caviglie simboleggiano il sentirsi imprigionata di una donna sposata, e la sua voglia di volare. Le secrezioni cutanee di un ragazzo sono dovute al rapporto ancora troppo morboso con la madre. Un orzaiolo incurabile guarito istantaneamente quando, su suggerimento della dottoressa, la moglie ha scoperto il tradimento che non voleva vedere.
Non dubito che queste analisi, misto di psicologia e naturopatia, possano essere veritiere e sollevare nodi nascosti. E di sicuro i fiori che vengono proposti sempre come cura hanno meno effetti collaterali dei preparati delle case farmaceutiche. Eppure l'atteggiamento da Oracolo del Sud, la poca sintonia con il paziente (che viene spesso trattato quasi fosse un bimbo viziato che non vuol vedere quel che è palese) mi rendono questa donna istintivamente antipatica.
La mia antipatia cresce quando un ragazzo si alza per raccontarle dei vari problemi di cui soffre e la dottoressa, squadrandolo e mostrandolo alla platea quasi fosse un animale curioso, dice "Ma non vedete? È chiaro qual è il suo problema. Quanti anni hai?"
"Trenta", risponde il ragazzo.
"Trenta ma ti senti ancora un bimbo, vero? Guardatelo. Con i pantaloncini di jeans e quella maglietta così brutta. L'hai comprata tu o la mamma?"
E così avanti, smontandolo, dimenticando i sintomi che, con grande coraggio, il ragazzo aveva esposto di fronte agli sconosciuti.
Dopo qualche minuto a subire lo show del suo curatore e carnefice, il ragazzo torna mesto a sedersi.
È ora la volta di un signore anziano. Prende il microfono e comincia a raccontare che ha cominciato ad avere una serie di problemi e, pensandoci, tutto pare essere cominciato quando gli hanno trovato il diabete.
"Ma lei stava male?" lo interrompe la Mereu.
"No", risponde l'uomo dopo averci pensato un po'.
"E allora perchè si è fatto fare gli esami?"
L'uomo è incredulo e sulle prime non sa cosa rispondere. "Per tenermi controllato", risponde infine con titubanza.
"Ma se lei non si sente male è inutile che vada a fare le visite!"
E qui parte una filippica contro le procedure degli ospedali e dei medici che ogni anno abbassano la soglia dei parametri ritenuti normali di modo che sempre più gente risulti diabetica o celiaca o chissà che altro.
A questo punto mi alzo ed esco dalla stanza. Non riesco proprio più a sopportarla. Mi piazzo sul pianerottolo delle scale di emergenza e guardo in alto dove svettano, contro il cielo stellato, le tre torri illuminate.
Non è tanto il contenuto di quel che dice a lasciarmi insoddisfatto (il ragazzo poteva effettivamente aver  problemi di autorità ed indipendenza con sua madre e l'uomo non avere un effettivo diabete), quanto il modo. Una dottoressa che sostiene di curare le persone verbalmente, utilizzando quindi le parole come strumento della sua terapia, non può esporre i pazienti a sessioni pubbliche così annichilenti. Il porsi così palesemente al di sopra degli assistiti, autoeleggendosi maestro e guru, ed infliggendo ferite, seppur solo nell'animo e causate dalle parole, è un atteggiamento che non sopporto. E poi con quale autorità incita le persone a non controllarsi, a non tenersi monitorate?
Che sia coscientemente la strategia che la dottoressa adotta per una terapia shock? Perchè la rimozione del blocco sia più efficace e profonda? In ogni caso è una mancanza di empatia che non approvo.

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