È sempre straniante quando la fine di una giornata coincide con l’inizio di quella di altri. Chiudo il portone dello studio e salto in sella alla bici. Nel quartiere regna il silenzio colloso che precede il giorno, avvolto da una luce da lenzuola.
Attraverso la città con gli stessi vestiti di ieri, avvolto da una bolla di euforia stupida e allucinata. Incrocio un gruppo di ragazzi ubriachi che si accingono a tornare a casa dopo una nottata brava. Una ragazza in tiro sta chiudendo un locale e urla a una sua amica: Lunedì vai a lezione? Una frase di normalità a bagno nel mondo assurdo delle prime luci dell’alba.
L’orologio segna le 7 del mattino quando mi sdraio sul letto, assaporando il sonno dei giusti.
Alle 14 il sole è alto ma non ferisce come potrebbe. Scendo di casa e mi fermo davanti a un portone di vetro ad aspettare che la Ceci esca dal lavoro. Andiamo a fare la spesa e prepariamo il cous-cous con le verdure. Il tempo passa senza far rumore sull’orologio della sala, e improvvisamente, con ancora il gelato da assaporare, segna le 18.00. A quanto pare questa era la colazione-pranzo-cena.
Esco con la bici dal giardino comune puntando in direzione opposta al centro. Navigando senza bussola nel mare di strade che compongono il mondo al di fuori della mia conoscenza, scopro ciò che più mi attrae in questo periodo. Mi fermo da un carrozziere a farmi gonfiare le ruote e mi faccio due chiacchiere. Mi dirigo dove l’intuito assapora qualcosa di interessante. E la periferia, con la sua brutalità, la sua veridicità, è estremamente affascinante. Passo dai giardini disegnati e dalla città delle torri e dei monumenti a quella delle saracinesche abbassate, alla desolazione del polo industriale, ai bar sperduti in mezzo al nulla (ci si domanda se ci sia qualcuno a tenerli aperti). I parchi tornano a essere quelli dell’infanzia di tutti noi, dove per essere tali bastava che avessero dell’erba e qualche albero. Dove per giocare bastavano due maglie buttate per fare i pali. Qui l’erba è bruciata dal sole, trasformata in terra arsa e battuta. Ma continua a essere colonizzata dalla spontaneità dei bambini, che ovunque trasformano il territorio in spazio per il gioco.
Poi faccio strani incontri, piccoli alieni nel tessuto anonimo della periferia. Un quartiere di case basse, bianche, messicaneggianti, uno di case a schiera a 2 piani in mattoni a vista che si snodano per viuzze tutte tortuose (un pezzo di Olanda nel mezzo dell’Andalusia). E poi un parco. Un gigantesco parco, che 5.000 anni fa era una cava, poi usata dai romani che ci costruirono un ponte, e dagli arabi, trasformata con canali artificiali, con una chiesina abbandonata, dei laghetti, ettari di orti. È il parco Miraflores.
Scende la notte e forse ora inizierà la mia giornata.
Attraverso la città con gli stessi vestiti di ieri, avvolto da una bolla di euforia stupida e allucinata. Incrocio un gruppo di ragazzi ubriachi che si accingono a tornare a casa dopo una nottata brava. Una ragazza in tiro sta chiudendo un locale e urla a una sua amica: Lunedì vai a lezione? Una frase di normalità a bagno nel mondo assurdo delle prime luci dell’alba.
L’orologio segna le 7 del mattino quando mi sdraio sul letto, assaporando il sonno dei giusti.
Alle 14 il sole è alto ma non ferisce come potrebbe. Scendo di casa e mi fermo davanti a un portone di vetro ad aspettare che la Ceci esca dal lavoro. Andiamo a fare la spesa e prepariamo il cous-cous con le verdure. Il tempo passa senza far rumore sull’orologio della sala, e improvvisamente, con ancora il gelato da assaporare, segna le 18.00. A quanto pare questa era la colazione-pranzo-cena.
Esco con la bici dal giardino comune puntando in direzione opposta al centro. Navigando senza bussola nel mare di strade che compongono il mondo al di fuori della mia conoscenza, scopro ciò che più mi attrae in questo periodo. Mi fermo da un carrozziere a farmi gonfiare le ruote e mi faccio due chiacchiere. Mi dirigo dove l’intuito assapora qualcosa di interessante. E la periferia, con la sua brutalità, la sua veridicità, è estremamente affascinante. Passo dai giardini disegnati e dalla città delle torri e dei monumenti a quella delle saracinesche abbassate, alla desolazione del polo industriale, ai bar sperduti in mezzo al nulla (ci si domanda se ci sia qualcuno a tenerli aperti). I parchi tornano a essere quelli dell’infanzia di tutti noi, dove per essere tali bastava che avessero dell’erba e qualche albero. Dove per giocare bastavano due maglie buttate per fare i pali. Qui l’erba è bruciata dal sole, trasformata in terra arsa e battuta. Ma continua a essere colonizzata dalla spontaneità dei bambini, che ovunque trasformano il territorio in spazio per il gioco.
Poi faccio strani incontri, piccoli alieni nel tessuto anonimo della periferia. Un quartiere di case basse, bianche, messicaneggianti, uno di case a schiera a 2 piani in mattoni a vista che si snodano per viuzze tutte tortuose (un pezzo di Olanda nel mezzo dell’Andalusia). E poi un parco. Un gigantesco parco, che 5.000 anni fa era una cava, poi usata dai romani che ci costruirono un ponte, e dagli arabi, trasformata con canali artificiali, con una chiesina abbandonata, dei laghetti, ettari di orti. È il parco Miraflores.
Scende la notte e forse ora inizierà la mia giornata.
2 commenti:
Bello questo racconto col tempo che passa senza far rumore.
Un saluto!
ciao fra.
non ti potrò ascoltare per radio, ma passerò dalla tua rete.
a presto
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