mercoledì 2 settembre 2009

la partenza - dia 1


Il treno scorre lento sui binari e si allontana dalla stazione. Fa risuonare il ponte in ferro sul porto al suo passaggio, puntando verso nord. Non ho musica con me. Il rumore delle rotaie è la mia colonna sonora, il brusìo della gente il mio film, quello che mi porto dentro il mio monologo.
Davanti a me sta uno zaino, piccolo e vecchio. Si porta dietro una storia non mia, una storia lunga di famiglia giovane e, voglio immaginare, felice. Dentro, la protezione minima contro il mondo.
Il tempo, nel silenzio rumoroso del mondo, è elastico, lattiginoso e assonnato come gli istanti che seguono il risveglio. I pensieri si affollano nella testa, interrotti dal sonno e dalle righe di qualche libro.

In aeroporto siamo tanti, almeno un centinaio. Ognuno cerca riparo come può, si schiaccia su qualche parete, cercando una protezione minima, più psicologica che reale. Torniamo ad essere animali, animali urbani, ognuno con la sua prole inanimata da difendere dagli sconosciuti. Siamo profughi, emigranti e naufraghi.
Le procedure d’imbarco sono ormai naturali e prive di ansia, galleggiano in quello stato sonnolento delle prime ore del mattino. Le ruote abbandonano la pista per il cielo nel momento in cui torno ad affondare in un sonno senza sogni.

Il bus mi lascia in centro, e vedo finalmente, anni e anni dopo, quella che sarebbe dovuta essere la città del mio Erasmus: Valladolid. Capitale dello stato spagnolo fino all’invenzione di Madrid, qualche centinaio di chilometri più a sud, Valladolid è una città universitaria nel cui piccolo centro storico spicca la calle Santiago, che adatta felicemente l’eleganza madrileña a una dimensione più ridotta e umana. Mi soffermo a mangiare seduto di fronte a Santa Maria de la Antigua, di nobile bianco vestita. Un proto gotico semplice e massiccio, squadrato ma sobrio. Resto letteralmente affascinato dalla chiesa di San Pablo, dalla sorprendente alternanza tra la massività geometrica dei pilastri d’angolo e la volatilità e leggerezza della decorazione a trapano del corpo centrale. Nascosto in mezzo a tanto tripudio di luci e ombre il rosone quasi scompare. E poi la chiesa del monastero di San Benito el Real, a cui la rigorosa geometria, i pilastri massicciamente ottagonali che sostengono i due grandi vuoti in facciata e il bianco puro della pietra, danno un aspetto di modernità mediterranea nascosta nel passato.

Altro treno, direzione Fromista. Scendo in una stazione che sembra disegnata per un paesino del Far West. Chiedo informazioni, volgo le spalle al sole e mi incammino verso est pronto per raggiungere i miei compari di viaggio che stanno arrivando a Boadilla del Camino. Il sentiero corre in mezzo a campi di grano assolutamente piani, lungo l’argine di un ampio canale artificiale i cui bordi, come cicatrici nel paesaggio, sono ricoperti di erbe alte e alberi. Sotto il sole del tardo pomeriggio incrocio diversi pellegrini che portano scritto evidentemente in faccia la domanda: “Perché stai andando nella direzione opposta?”. E questo, come sempre, mi diverte. Amo lo sconcerto che un’azione anomala provoca nelle masse. Disorientare e cambiare prospettiva. E, dentro, rido.

Poi, all’improvviso, seduta sull’orizzonte, la vedo. Dapprima non la riconosco, nella calura che veste la polvere del sentiero. Eppure, piano piano, al ritmo saltellante del mio passo cresce fino a diventare leggibile, fino a trovare la sua forma tipica, fino ad essere una croce. Dietro un leggero avvallamento, passo dopo passo, sorge oltre la linea dell’orizzonte la punta di un campanile, il tetto e infine il corpo di una chiesa. È una stupida felicità quella che mi invade. Il sollievo infantile di un uomo di mille anni fa. La gioia di chi riconosce finalmente la presenza di un nucleo di civiltà, della protezione dall’affascinante immensità del mondo. Il paese prende forma intorno e al di sotto della sagoma protettrice della chiesa.

E, come un’oasi nel deserto, ad aspettarci c’è l’Albergo dei Pellegrini. In quella che doveva essere l’aia di un antico edificio, una piccola piscina aspetta i piedi dei pellegrini, per dar loro sollievo. Una palma serve da riparo contro l’ultimo sole.
L’ospitalero ci porta il menù della cena. Zuppa di ceci, pesce fritto, insalata, dolce e vino. Un po’ di sollievo ed energia per il corpo.

Un edificio a doppio spiovente, che doveva essere l’antica stalla, accoglie lo stanzone del dormitorio. Sopra a una dozzina di letti a castello è incastrata un’impressionante trave in legno massiccio sbozzata a mano che deve avere almeno 7 metri di luce libera. Al di sopra di questa è appoggiato un assito di legno chiaro che funziona come pavimento per i letti del piano soppalcato. La ringhiera è costituita da dei travetti legati con grossi funi alla trave e al tetto.
Mi addormento con lo sguardo affascinato rivolto alla parete di terra battuta, con il vento freddo che, attraverso la piccola finestra del sottotetto, muore preciso sul mio collo.

Nessun commento: