Ci lasciamo il crinale della montagna sulla destra e poco sotto, a qualche curva di distanza, vediamo il piccolo villaggio di Manjarìn. Dietro di noi il cielo continua a brontolare sempre più forte e i fulmini che cadono nella valle sono ormai vicini, l’aria carica di umidità elettrica. Oltrepassiamo la prima casa e ci rendiamo conto che quello che ci sembrava un villaggio ha smesso di esserlo da almeno una dozzina d’anni. I muri di pietra sono ricoperti di vegetazione, i tetti sfondati dagli alberi e non ci sono finestre nei fori ciechi delle pareti. La strada è l’unica spina dorsale su cui si trovano la decina di ex-case, che la natura ha rincorporato trasformandole nuovamente in paesaggio.
Dove la strada fa una curva per scendere nuovamente verso valle un cartello colorato attrae la nostra attenzione e ci infiliamo sotto quello che dovrebbe essere un portico artigianale. Un’accozzaglia di pali in legno, travetti, cannicciato e cellophane copre un piccolo spazio in terra battuta e pietra dove convivono senza ordine un tavolo spoglio, delle magliette da metallaro, degli annunci affissi in maniera precaria, un ripiano con una grande statua della Madonna, dei santini vari, un libro rilegato a spirale e altri oggetti che sembrano usciti da un mercatino di okkupa spagnoli. Contro la parete un bancone da bar e un cancelletto da casa nella prateria chiudono il tutto, mentre sulla destra, oltre il basso muretto in pietra, la vegetazione la fa da padrona.
Non facciamo in tempo ad orientarci in quel delirio di oggetti e cani e gatti che scorrazzano liberamente che la pioggia comincia a tamburellare il suo ritmo sul cellophane che copre le nostre teste. Dopo esserci registrati chiedo dove sia il bagno, per poter lavar via la fatica di un giorno intero di cammino dalla mia pelle. L’ospitalero mi dice che basta entrare nella prima casa disabitata del paese e lì, oltrepassata la porta, ogni posto è buono per.. se invece voglio fare la doccia non c’è modo. L’unica acqua esistente è quella che esce centellinata da un contenitore in plastica gigante appoggiato proprio dietro al recinto.
Dove la strada fa una curva per scendere nuovamente verso valle un cartello colorato attrae la nostra attenzione e ci infiliamo sotto quello che dovrebbe essere un portico artigianale. Un’accozzaglia di pali in legno, travetti, cannicciato e cellophane copre un piccolo spazio in terra battuta e pietra dove convivono senza ordine un tavolo spoglio, delle magliette da metallaro, degli annunci affissi in maniera precaria, un ripiano con una grande statua della Madonna, dei santini vari, un libro rilegato a spirale e altri oggetti che sembrano usciti da un mercatino di okkupa spagnoli. Contro la parete un bancone da bar e un cancelletto da casa nella prateria chiudono il tutto, mentre sulla destra, oltre il basso muretto in pietra, la vegetazione la fa da padrona.
Non facciamo in tempo ad orientarci in quel delirio di oggetti e cani e gatti che scorrazzano liberamente che la pioggia comincia a tamburellare il suo ritmo sul cellophane che copre le nostre teste. Dopo esserci registrati chiedo dove sia il bagno, per poter lavar via la fatica di un giorno intero di cammino dalla mia pelle. L’ospitalero mi dice che basta entrare nella prima casa disabitata del paese e lì, oltrepassata la porta, ogni posto è buono per.. se invece voglio fare la doccia non c’è modo. L’unica acqua esistente è quella che esce centellinata da un contenitore in plastica gigante appoggiato proprio dietro al recinto.
È passata quasi un’ora. Fuori il temporale lava l’orizzonte con decisione. Sasha e Will decidono di approfittare di quell’acquazzone per farsi una doccia al naturale, mettendosi in mezzo alla strada a torso nudo e lavandosi alla meglio. Noi intanto ci siamo sistemati nel sottotetto, nome che mai fu più appropriato. Infatti al di sopra dell’unico stanzone della casa, che funge da sala e cucina, è stato disposto un tavolato impostato dove il tetto incontra le pareti. Questo crea una sorta di piano la cui altezza massima è all’incirca un metro e venti, stretto tra il tetto e le tavole di legno, dove sono appoggiati uno di fianco all’altro 15 materassi. A lato del mio, dove il tetto si congiunge col muro, le tegole lasciano passare la pioggia ed un fiotto continuo entra bagnando prima l’unico materasso libero, poi il tavolato e infine colando al piano di sotto sulla panca della cucina.
La cena è servita. I 14 pellegrini sono seduti al lungo tavolo della cucina mentre gli ospitaleri, senza posto, si limitano a servire e chiacchierare in piedi. La cena è costituita da una zuppa di verdure nella quale si trovano pezzi di carne e ossa non ben identificate.
Poi è Tomàs a prendere la parola. Il grosso signore dai capelli e barba bianca, che indossa quella tunica bianca con la grande croce rossa stampata sul davanti. Dice che è significativa questa pioggia, perché 16 anni fa lui si rifugiò in quella che era una casa diroccata per trovare riparo dal temporale, e lì decise che quel rifugio sarebbe diventato un albergue al servizio dei pellegrini. La tempesta era stato il battesimo di quella casa, la sua rinascita a nuova comunità. E 16 anni dopo un’altra tempesta battezzava una nuova rinascita: da questa notte la casa non sarebbe stata più casa ma Tempio dei Cavalieri Templari. I pellegrini restano tutti un po’ allibiti. Guardo negli occhi il giovane prete slavo che sta davanti a me, ma lui elude ogni spiegazione. Alziamo i calici e brindiamo al nuovo tempio che per stanotte sarà la nostra casa.
Il sole è ancora al di sotto dell’orizzonte quando sentiamo la campana battere i suoi rintocchi. Scendiamo per la colazione e troviamo Tomàs sotto il portico che parla da solo. Mi avvicino lentamente. In piedi davanti al piccolo tavolino su cui trova posto la grande statua della Madonna ed un libro plastificato e rilegato, si trova il grande vecchio, con la sua tunica bianca, un cinturone in pelle borchiato, un principio di armatura a coprirgli spalle e ventre ed uno spadone sostenuto a due mani e appoggiato sulla fronte. Sta pregando Tomàs, leggendo dal libro preghiere che non esistono se non in quel tempio sperduto nella montagna leonese.
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