venerdì 4 settembre 2009

il bar al confine del nulla - dia3


Niente. Niente di niente. Giallo paglia bruciato e pettinato a perdita d’occhio. Qualche scuro cespuglio sparso qua e là, quasi fosse un errore della vista che, stanca di tanto nulla assolato, si inventa macchie di ombra. I passi si susseguono, le caviglie si impolverano e lo zaino pesa sempre più con il passare delle ore.
È nel silenzio circondato dall’immenso che torno a fare i conti con il mio io selvaggio, con i pensieri ribelli e con le emozioni brutali. Fluiscono letteralmente dentro di me e corrono per ogni dove, proprio come i canali che irrorano questi campi. Mi sento improvvisamente un guerrigliero, e l’ombra di fronte a me mi rende ragione. Passo fermo e spedito, la sagoma dello zaino e del sacco a modificarmi il profilo, le nappe della kefia che ondeggiano sinuose al mio lato. I pugni chiusi. Tutto ciò di cui ho bisogno lo porto sulle spalle, a stretto contatto. Una sorta di delirio eroico si impossessa di me mentre percorro i 17 km di nulla che ci separano dal primo paese.

Seduti ad un tavolino nel portico dell’ultima casa del paese contempliamo i campi davanti a noi. Come un’invisibile muraglia la strada perimetrale del villaggio chiude a cerchio il centro abitato. Nessun limite reale, ma una soglia evidente. Da un lato si schierano le case, addossate le une alle altre, con piccole finestre e grandi muri, intonacate e scrostate chissà quante volte. Dall’altra le terre coltivate risalgono dall’orizzonte fino a mordere il ciglio della strada. Seduti di fronte a questo confine immaginario e concreto assaporiamo la nostra birra e il nostro momento di sollievo nella calura pomeridiana.
Di fianco a noi un signore del paese prova a parlare con un ragazzone i cui piedi piagati dal caldo e dai chilometri cercano refrigerio in una borsa col ghiaccio. L’anziano abitante prova un’improbabile discorso con lo straniero, ricordandogli, come se ce ne fosse bisogno, che quelle ferite non sono affatto buone per camminare. Solare e sorridente lo straniero prova a rispondere che non capisce lo spagnolo. Imperterrito il canuto signore parte sparato sostenendo che devono imparare il castigliano, che non può essere che vadano in un paese senza conoscere la lingua, che come fanno a … Il ragazzone, con notevole accento canadese, sfoggia un “Una cerveza por favor” destando l’ilarità di tutta la compagnia. Non soddisfatto l’uomo continua a domandare, a lanciare argomenti nell’aria, a tentare un dialogo. Nel frattempo noi, seduti alle spalle del paesano, cerchiamo a gesti e suggerimenti in inglese di offrire appoggio e sostegno a quello che ormai sentiamo già come un amico.

È sempre divertente ciò che succede quando regna l’incomprensione tra diversi linguaggi. Ognuno parla la propria lingua ma in maniera esasperatamente lenta, come se la lentezza potesse rendere ragione di un idioma che comunque sia resta sconosciuto e incomprensibile. È un’assurdità che però continua a ripetersi in ogni dove, come se il desiderio di comunicare fosse più forte delle barriere linguistiche. Ed effettivamente, molte volte, è così.
In questo modo ci siamo guadagnati due amici. Gerome, il ragazzo canadese, ed il suo amico torinese, ribattezzato Ciccio per evidenti motivi.

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