Avevamo notato
Jenny la sera prima: mangiava della roba indefinibile da un contenitore di
plastica mentre stava sdraiata sul divano dell'ostello in shorts e canotta. La sua
capigliatura rossa, poi, non la lasciava passare inosservata. Il pavimento della
stanza (un'ottavupla) era per metà colonizzato dalla sua valigia, aperta di
fianco al letto, e dai suoi vestiti sparsi tutt'attorno.
La mattina
seguente decidemmo di visitare insieme il centro di Sarajevo. Il tempo non era
certo quello che ci si aspetta ad agosto, con basse nuvole grigie e qualche
scroscio di pioggia. Visitammo velocemente Stari Grad, il centro antico,
partendo dalla parte più caratteristica, quella di influenza ottomana. Il bazar,
la moschea, la madrasa (scuola coranica) con l'annessa nuova biblioteca, i
resti del caravanserraglio (il corrispettivo di un antico ostello, ci tenne a
sottolineare una ragazza turca che passava di lì) e soprattutto i vicoli con le
loro piazzette segrete, i tavolini alla turca fuori dai locali, il profumo del
narghilè e quello dei ćevapčići. Tutto molto curato, molto affascinante e molto
turistico. Ci spingemmo poi sulle pendici a nord dove i segni della guerra si
facevano più evidenti e le facciate di alcuni edifici avevano l'intonaco eroso
da raffiche di proiettili.
Nel frattempo Jenny ci raccontava di lei. Nata 26 anni prima in un paese
dell'Australia, si era trasferita a studiare a Melbourne e lì aveva trovato
lavoro. Dopo pochi mesi era passata a lavorare per la Guardia Forestale ma,
come affermava lei stessa, c'erano troppe donne ed il clima era difficile. Gli scontri
con la sua capa erano diventati sempre più frequenti fino a quando aveva deciso
di lasciare tutto. Aveva fatto le valige ed era partita per l'Europa con lo
zaino in spalla. Era ormai in giro da mesi, seguendo un itinerario estemporaneo
attraverso il vecchio continente. Westminster, Stonehenge, Glasgow, Edinburgo, Scozia,
Irlanda, Amsterdam, Bruges, Repubblica Ceca, Cracovia, Praga, Varsavia,
Berlino, Croazia e Sarajevo ( il suo viaggio sarebbe poi continuato verso Istanbul,
Cappadocia e oltre).
Dietro di noi Nathan ti stava raccontando dei matrimoni gitani in
Romania, del deserto della Giordania, degli amici di Amburgo.
Mentre mi lasciavo impregnare dalle vite altrui cercavo con gli occhi
assiduamente qualcosa che mi attirasse, qualcosa che incarnasse l'anima della
città più che la semplice visita ai monumenti simbolo. E sempre più si
sollevava il mio demone interiore, quello che aveva bisogno di solitudine e
silenzio, di camminare e lasciarsi trasportare dall'intuito urbano. Essere spugna
per gli edifici, le strade. Scovare la storia là dove le parole altrui te la
celerebbero. Assaporare la città perdendosi e lasciandosi sorprendere da quel
che si può trovare quando non si cerca nulla di specifico.
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