Ci
riproviamo. Torniamo verso i due grandi edifici collassati su se stessi, quelli
che avevamo intravisto il giorno precedente sotto l'acquazzone. Attraversiamo il
centro antico, percorriamo strade larghe fiancheggiate di edifici monumentali,
pomposi, e ci fermiamo su Kneza Miloša. Ci armiamo ognuno della sua macchina
fotografica e cominciamo a scattare. Gli edifici sono effettivamente 3, i due
grandi stecconi gradonati ed un piccolo edificio ad un solo piano sollevato da
terra. Attraverso la strada, mi avvicino, scatto foto degli interni vuoti, dei
ferri ossidati nel cielo minaccioso, le auto che corrono di fronte a queste
rovine. Dopo poco mi si avvicina il militare che avevo notato ieri. Lo saluto e
continuo a cercare una buona angolazione, ma lui non smette di osservarmi. Lo sento
dirmi:
- Fai pure
tutte le foto che vuoi, che dopo tanto le cancelliamo.
Lo guardo con aria sinceramente stupita e lui,
con sguardo rassegnato e comprensivo, mi risponde:
- Non mi
chiedere perchè, è così.
- Cioè, vuoi
dirmi che tu stai qui, a sorvegliare un edificio vuoto da una decina d'anni,
dentro cui non è rimasto nulla, per impedire ai turisti di scattare foto?
- Era il
vecchio quartier generale dell'esercito, e gli ordini sono di evitare che se ne
diffondano le immagini.
- Ma è un
edificio del centro, è praticamente un monumento..
La risposta
è un'educata alzata di spalle.
Aleksander è
un ragazzo giovane, nato a Belgrado e vissuto qui anche durante la guerra. Parla
un discreto inglese e si vede che è annoiato, stanco di far la guardia ad un
ammasso di pietre recintate, ma adempie con scrupolo al compito che gli è stato
assegnato. Mi dice di chiamare i miei amici e che dobbiamo cancellare, di
fronte a lui, le immagini scattate.
- Ci sono
telecamere che ci riprendono e non posso farvi andare via senza che le abbiate
cancellate. O almeno che abbiate fatto vedere che lo fate - suggerisce.
Quando gli
presentiamo Nathan, Aleksander sembra animarsi un po' e comincia a parlare
degli Stati Uniti. Di come siano venuti a portare guerra nel suo Paese, di come
si sentano potenti e non perdano occasione per mandare i loro marines in giro
per il mondo. Nathan dice che non è stato lui a mandarceli, i militari in
Serbia.
- Non hai
forse votato per chi lo ha fatto?
Nathan è un
personaggio molto tranquillo e non risponde alle accuse. Il serbo non ha
intenzione di provocare, cerca solo un dialogo diverso dal solito per salvarsi
dalla noia endemica di un compito francamente assurdo.
Nel frattempo
la pioggia ha cominciato a farsi battente e ci ripariamo nuovamente sotto le
impalcature del cantiere. Proviamo ad offrire un ombrello ad Aleksander ma lui
sorride e dice che non può, non quando è in servizio. E si accende una
sigaretta, quasi potesse, quella proteggerlo dall'acqua e dal freddo.
Il militare
continua a raccontarci della povera Serbia, di ciò che pensa degli Stati Uniti
(opinioni chiaramente nate dentro ad una caserma, anche se in parte
condivisibili), di come ricorda la guerra quando aveva dodici anni.
È un ragazzo
simpatico, peccato non lo si possa invitare a bere qualcosa e sentire di più di
quel che ha da dirci. Sarebbe un bel modo per capire meglio la Serbia.
Dopo quaranta
minuti la pioggia ci dà un po' di tregua e decidiamo di salutare il nostro
momentaneo amico, ringraziandolo per le chiacchiere. Lui ci saluta e si accende
un'altra sigaretta mentre le luci del tramonto si stanno spegnendo sul vecchio
quartier generale.
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