domenica 30 maggio 2010

nella mia terra


- Quindi pensi di tornare in patria, prima o poi.

Lui mi guarda fisso negli occhi, e mi risponde tranquillo, senza un attimo di incertezza.


Intorno al tavolo si incrociano varie lingue, dando vita a musiche diverse. La colombiana che racconta del suo master in diritto penale a Bologna, l’infermiera di Jaen in vacanza, il turco che dopo l’Inghilterra e la Grecia si è stanziato in Andalusia, il mio ex-compagno d’appartamento di Granada, le ragazze pugliesi, la mia compagna d’appartamento iraniana che discute sulle sorti del suo Paese. Le voci si rincorrono sull’assolo dei Doors.

È allora che guardo gli occhi scuri e i capelli rasati del ragazzo turco e gli chiedo se pensa di tornare in patria, prima o poi.

- Non ho nessun dubbio. Voglio morire nella mia terra.

giovedì 27 maggio 2010

dune du pilat


La pineta improvvisamente si dirada, ma quello che scorgiamo trai tronchi non è il cielo all’orizzonte. Una parete immensa, altissima, senza sponde si staglia davanti a noi e alla macchia. Una colossale montagna di sabbia. Una gigantesca duna.

Una scaletta traccia debole la geometria umana su ciò che sembra non avere confini. Noi la percorriamo, salendo sul fianco della duna ed immaginando senza immagini la segreta parte di mondo che ci si aprirà di fronte.

E in cima lo stupore è assoluto.

L’immensa massa di sabbia degrada dolcemente in piccole dune per circa quattrocento metri fino a ricongiungersi con l’oceano gelido di cobalto. Una secca, un’isola intermittente, embrione di una nuova duna, si espande con forme organiche nell’acqua. Alla nostra sinistra si innalza in colline disegnate dal vento, sconfinata, fino all’orizzonte, la grande massa di arena.

Le distanze non esistono, quello spazio privo di ogni oggetto si sottrae alla possibilità di ridisegnarlo nella mente per cercare di definirlo, dimensionarlo. Quello che resta nella retina è una sequenza continua di sfumature di sabbia sotto al sole, solcata qua e là da qualche passo presto cancellato dal vento.

Osservo l’orizzonte lontano e vedo la cima della duna nebulizzarsi nell’aria, disgregarsi nel vento e ridisegnarsi poco più in là. Tutto quello che ho intorno non è nient’altro che onde solide in movimento, incoerenza sedimentata.

Poi mi giro. E resto catturato da un colpo di fulmine animale. Una superficie omogenea, antica e verde, un tappeto folto di pini occupa tutto il campo visivo fino a dove l’entroterra diventa orizzonte. Una presenza tale da bloccarmi in cima al crinale ad osservarla: una massa imperiosa che nasce nell’infinito e muore soffocata sotto una gigantesca duna di sabbia.

martedì 25 maggio 2010

tras-bordeaux

- Ricordati bene. Le lingue sono una chiave, una chiave con cui puoi aprire molte porte. Ci pensi se non potessi esprimere quello che senti, quello che vuoi comunicare?

Lo guardo in faccia, mentre dietro di lui Bordeaux comincia a diventare una sequenza distinta di tetti e strade. Osservo i suoi capelli bianchi, corti e fini. La pelle olivastra, scaldata da molti soli. La lingua, con un accento lieve che non riesco a decifrare. Lo guardo e ancora non mi capacito di come questo sconosciuto sia riuscito a dribblare la barriera dell’indifferenza reciproca, sgusciare nei miei silenzi e cominciare a distillarmi la sua esperienza. A raccontarmi del luogo dove è nato, una splendida isola del Marocco vicina alle Canarie, dove il cibo veniva dal mare ogni giorno, in quantità sufficiente per tutta l’isola. Dei suoi figli, che volevano vivere in un luogo dove avere più possibilità di lavoro, e quindi della decisione di cercare una nuova casa in Italia. E poi i viaggi, gli spostamenti, le lingue: italiano, inglese, francese, arabo, spagnolo, cinese.

- Ho viaggiato tanto quand’ero giovane. Viaggiate. Voi che avete la possibilità, viaggiate. E conoscete. Le lingue sono una chiave con cui si possono aprire molte porte.

Lo ringrazio, con parole italiane, mentre le ruote ritrovano il contatto con la pista e il mondo torna ad essere fatto di prospetti.

- Se vuoi venire un giorno in Marocco fammi sapere. Ci sono tanti europei, tanti miei amici, che vengono e non se ne vogliono più andare. Ho girato tanto, ma ancora non ho trovato un posto che somigli al Paradiso più della mia isola. Chiamami, se vieni in Marocco. Lì hai una casa.

Buongiorno Bordeaux. Grazie per il benvenuto.

venerdì 21 maggio 2010

la ruota


Ancora una volta si parte.

La ruota gira, la Terra si sposta, e mi troverò in un altro luogo.

È come pregustare un pranzo succulento, scorgere la superficie mentre si risale dal profondo.


Ancora una volta si parte. Cambiano gli zaini, cambiano gli aeroporti, cambiano i compagni di viaggio e le mete, ma resta intatto l’unico grande desiderio della scoperta, dell’avventura. Dell’ignoto.

martedì 18 maggio 2010

stazionare


I giorni rotolano uno dopo l’altro confondendosi, scomparendo e riapparendo sul calendario. Scorrono, come le parole sui cartelli delle stazioni ferroviarie, ruotano su se stessi, si mischiano e poi si fermano d’improvviso.

Metà maggio.

La vita è diventata un respiro da nuotatore: ricca di apnee dove si corre a testa bassa, si macinano metri, e brevi boccate d’aria, ricche di energia e violenza. E ci sembra di riconoscerla solo da quei respiri, quelli che ti tengono ancora a galla e continuano a farti nuotare, nonostante l’affanno, nonostante la follia.

giovedì 6 maggio 2010

senza conducente


Prigioniero di un carattere incontrollabile.

Passeggero di una carrozza senza conducente.

sabato 24 aprile 2010

lontano dagli occhi


Certe cose non passano. La gente è convinta che se il sintomo scompare, lo stesso faccia il male. Beh, non è così. È come dimenticarsi che l’ombra esiste perchè esiste qualcosa che la crea. Però anche se l’ombra scompare l’oggetto continua ad esistere.

Quello che sembra un ritorno alla normalità non è altro che stanchezza. Stanchezza di noi stessi. Perché alla lunga non ne possiamo più di sentirci così infelici e allora sorridiamo. Qualche bellezza ci rapisce momentaneamente e tutti intorno sono convinti che la crisi sia finita.

Certe crisi non finiscono. Semplicemente ci entrano dentro e ci conviviamo. Assumiamo la dose di dolore provocata come un livello base, ci abituiamo e andiamo avanti. Non è che non faccia male, ma non fa più scalpore.

mercoledì 21 aprile 2010

uno specchio


A volte sono uno specchio. Una superficie riflettente sulla quale ognuno può riconoscere se stesso.

Adeguo il mio agire a quello che la gente si aspetta, mi travesto da ciò che mi immaginano essere.

Allegria, spensieratezza, ironia, profondità, professionalità, noia.

Non è per piaggeria, mancanza di carattere o superficialità. No, tutt’altro.

I camaleonti l’hanno capito tanti anni fa. Non è per compiacere la natura che si mimetizzano. È per nascondere se stessi dall’invadenza del mondo; per tenere alla larga chi dentro il nucleo duro e fragile non deve entrare.

In fondo è ancora un modo per fare della solitudine la propria arma di difesa.

lunedì 19 aprile 2010

due contro il mondo


Sono quelle sere in cui vorresti che fosse inverno, freddo e buio. Quelle sere in cui tutto ciò che desidereresti è della pietra dura e ruvida a ricoprire le pareti di casa, un grande camino a bruciare rabbioso, una bottiglia di whisky a lasciare aloni sul pavimento grezzo, qualche tappeto, un divano vecchio e scomodo, un po’ di polvere sulle mensole, una chitarra e un amico. Un vero amico.

Questo è tutto quello che richiedono queste sere. Il freddo pungente del mondo che si annulla nei silenzi e nelle parole di chi ti conosce bene.

sapori sonori


Mi stendo sul prato a godermi finalmente gli ultimi raggi con negli occhi il sapore nuovo di un luogo conosciuto e riscoperto da straniero. Mi stendo con il mio sacco a pelo come cuscino pronto a contemplare la sinfonia della natura e del caos umano in festa, ma quel che sento resetta dalla mia testa ogni immagine e sapore appena creato.

È un accento. Una risata, una melodia che conosco. Non con queste voci, ma con la stessa allegria, la stessa voglia di vivere, la stessa forza.

È un gruppo di spagnoli sdraiato a rosolarsi al sole e a trasformare il tempo in compagnia. Improvvisamente si apre il baule dei ricordi e vengo sommerso da immagini in fuga, polaroid del passato e colonne sonore dimenticate. Sono dipinti di spensieratezza, di vita di strada, di tempo rubato coi denti alla normalità, di viaggi, follie e solitudini curate sul campo. Sono suoni di cañas, profumi di chorizo, gli schiamazzi del Salvador, i flamenchi improvvisati delle stradine interne. Cene a base di parole e birra, e poi ancora più indietro, confondendo i ricordi con le sensazioni, i colori con i suoni.

E così, mentre intorno Boboli si gode la sua prima domenica di primavera, dentro di me uno strano magma agrodolce si culla al suono di una lingua straniera.

martedì 13 aprile 2010

lo sterminio di torri


Pensieri come vento che soffia tra le orecchie e non ti lascia dormire.

Pensieri di stupide classifiche di vita, di errori continui a condannarci, immagini e desideri di nuovi abbandoni, di nuovi addii, anche senza nuovi inizi.

Forse è la stagione. Forse l’età e forse la selezione naturale. Eppure certe torri, alte e solide sugli orizzonti della mia vita, stanno cominciando a sgretolarsi, franando a valle. E questa volta non so stabilire se è l’avvento di una nuova Era o l’avvicinarsi del Nulla.

domenica 4 aprile 2010

senza protezione nel vento


Sono le notti come queste, quelle che mi mancano ora. Quelle ore languide e infinite che nascono quando intorno tutto dorme, quando solo la flebile luce dietro di me resta a guardia del mio tamburellare sulla tastiera. Quando mondi di caratteri arrivano a descrivere quello che per pudore la lingua tace durante il giorno e che la mente si affretta a coprire alla luce del sole.

È questo spazio (qualcuno giustamente l’ha chiamato dEspacio) che mi culla come una coperta invernale nelle solitudini alle varie latitudini. Una sorta di conforto atopico, una porta che posso aprire da ogni dove per lenire le ferite. Silenzio, luce soffusa, ticchettare di pensieri, notte.

Ed è qui che i fili si tirano, i disegni si ricompongono, e l’arazzo torna al suo vecchio splendore, scintillante alla fine nella luce del giorno incipiente.


E capisco perché questi giorni di festa sono così faticosi.

La grande famiglia entra in sala, come il pubblico affettuoso alla recita della scuola. Entrano, si accomodano, si salutano. E mi guardano.

Già, perché sul palco ci sono io. Con quel vestito da pagliaccio che mi sono creato negli anni. Con quella cresta da Cantagallo ad afflosciarsi sotto i riflettori. Ed è come se mi soppesassero, mi valutassero, dissezionassero le pieghe del vestito, il timbro di voce e lo stato delle scarpe. È come se l’immagine dal palco dovesse render ragione di me, dovesse convincere il parentado che valgo, che il tempo non è passato invano, che da qualche parte qualcosa sto costruendo. Mi guardo le mani, sporche di terra e di nulla e comincio a rispondere deviando gli sguardi, evadendo le domande mute, alzando un muro di omertà a difesa del mio piccolo niente. E il palco si alza sempre più, crescono i merli del silenzio, le mura di impenetrabilità. Ogni arte è lecita per non far entrare il giudice di sangue.

Ed alla fine e sempre quassù che mi ritrovo.

In piedi sul cammino di ronda, guardo la città sotto, ricca di vicoli e viali, quel proliferare di case povere e sfarzose, quei nuclei che si raggrumano sulla rete della normalità. Sento il vento passare e li osservo. I loro percorsi lineari, quasi tracciati da sempre. Quel susseguirsi di eventi che aspettavano solo una data per accadere, quell’inevitabile percorso umano atavico e resistente all’usura dei millenni che li porta ad un’esistenza di ordinaria contentezza.

La guardo un po’ con invidia, quella scacchiera che si gioca da sola, con astuzia. Che trova in se stessa i giocatori per terminarsi. Eppure non riesco a desiderarla fino in fondo.

E mentre voglio credere che il vento sia venuto a raccontarmi che “la grandezza è esposta alle tempeste”, il cielo si spegne, milioni di lampade s’infuocano rendendo la città una spugna di esistenze, il formicaio delle vite altrui che si stendono oltre queste mura di cinta.

Un’altra notte è arrivata, e su questo vecchio castello non danzerà che una singola candela, priva di protezione, nel vento.

giovedì 18 marzo 2010

sangue e arena


Ci sono errori che commettiamo sbagliando, degli incidenti di percorso. E poi ci sono errori coscienti. Scelte deliberate che sappiamo perfettamente essere sbagliate ma che, nonostante questo, decidiamo di assecondare.

Sono le debolezze. Sono quei momenti in cui la nostra fragilità prende il sopravvento sul resto e decidiamo di non opporci, di cavalcare l’onda dell’entusiasmo e fiondarci nel baratro.

E ci vediamo, da fuori, entrare nell’arena che ci siamo costruiti da soli. Iniziamo dando spettacolo, sfoggiando tutta la nostra forza e potenza. Ma poi sappiamo bene come andrà a finire. Sappiamo bene chi avrà il nostro orecchio alla fine della corrida.

disegnare la solitudine

Sono in mezzo a tante persone, una folla di giovani con bicchieri in mano e trifogli sul petto, Guinness in testa e occhi contenti. È una festa, una festa popolare per scacciare la monotonia degli ultimi giorni d’inverno. Dal palco scende danzando una melodia malinconica, di una voce calda che impasta le lacrime del violino con i colpi di coda della fisarmonica, ricuce la tromba e il banjo. È proprio lì, mentre scende con quel profumo d’origano bruciato e aspirato, mentre rievoca le solite parole politiche che danno vita al folk, è proprio lì in mezzo alla massa che la mia voglia di solitudine torna forte e prepotente. La voglia di abbandonarli, tutti, all’istante.

La voglia di andare a casa, riempire uno zaino con quaderni, macchina fotografica e una maglietta, andare in aeroporto e fiondarmi in Irlanda. Prendere i miei piedi e farli rotolare per i sentieri di campagna, sedermi sulle pietre umide, sfiorare i campi roridi al mattino, disegnare l’infinita solitudine.

martedì 16 marzo 2010

incrostazioni al sole


La vita dilaga, si spande come olio sulla tavola del tempo. Riempie i solchi tracciati da vite altrui, sprofonda in piaghe antiche facendone un nido, scorre lungo le vene chiare del legno.

Poi, a volte, la senti stringere, raggomitolarsi intorno a te, cominciare a girare in circolo su se stessa e non riuscire più ad espandersi. L’olio si raccoglie, denso, sulla superficie piana, apparentemente senza motivo. Scivola intorno a te, in ghirigori lenti e sinuosi. È come un animale in caccia, è la danza quatta prima dell’attacco.

Se la guardi, di lontano, è affascinante. È una vita che, improvvisamente, si è fermata cristallizzando. È un’incrostazione su uno scoglio, pronta a sciogliersi alla prima marea. Oppure è una decorazione in pietra, sull’alto muro della fortezza di Almeria. E nessuno più la smuoverà.

martedì 16 febbraio 2010

vetro a piombo

Corri corri corri corri. Riempi la tua clessidra, girala, non lasciare che un solo granello riposi per troppo tempo.

Lavora. Lavora fino a essere stanco. Non stanco fisicamente, spossato dall’attività, sfinito dal fare. No. Lavora tanto da essere stanco del lavoro. Tanto da poterti lamentare di non avere tempo. Tanto da vestire la parte della vittima sociale.

Iscriviti a un corso, scegli uno sport, stabilisci giorni nei quali fare cose. Crea una routine che ti permetta di essere sempre di corsa, di avere poco spazio per il silenzio, per la pausa, per te.

Perché quando succede che resti solo, che la sera è vuota e la casa silenziosa. Quando le tue dita non sanno che parole digitare sullo schermo, quando la sensazione di adrenalina da affanno, da rincorsa finisce, .. beh, allora non resti che tu.

Allora ti guardi intorno, sposti l’occhio dalle vetrate che ti ritraggono calciatore, architetto, animale socievole, viaggiatore, cavaliere. Ti allontani e vedi la cornice della tua opera, vedi i grandi muri pesanti e spessi.

E scopri di aver decorato magnificamente le vetrate della tua prigione.

night on earth


La tapparella a mezz’asta lascia penetrare il baluginare di un cielo color varechina nella stanza spoglia. La lampada Ikea, come l’occhio di bue di un teatro da 4 soldi, rischiara di riflesso i pochi oggetti assopiti. Li guardo al di sopra dello schermo del portatile appoggiato sulle mie gambe. Una parete di oggetti impiccati a chiodi piantati casualmente, un ombrello, delle cuffie, cavi, uno zaino, dei fogli. Una mensola d’angolo con qualche libro, un tavolaccio alto e dipinto. Una poltrona bassa nascosta dalla giacca e dall’accappatoio che pendono dalla parete. Qualche vestito gettato sul letto. Il mobile alto e traballante senza cassetti.

Seduto su un grande e vecchio materasso sorrido mentre le dita sulla tastiera mi fan dimenticare la nuova abitazione. Svanisce, nella magia delle luci teatrali, e nei miei occhi attraverso le parole che compaiono sullo schermo si riavvicina la Spagna, ricompare la Francia, l’Italia si raduna in un momento.

Nella stanchezza di una notte bolognese, mentre intorno i profili delle case sono bui e sognanti, una bolla di entusiasmo continua a connettersi col mondo.

sabato 6 febbraio 2010

elogio dell'ozio - R.L. Stevenson


Il cosiddetto ozio – che non è affatto il non fare nulla, ma piuttosto il fare una quantità di cose non riconosciute dai dogmatici regolamenti della classe dominante – ha lo stesso diritto dell’operosità di sostenere la propria posizione.

L’attività frenetica, a scuola o in università, in chiesa o al mercato, è sintomo di scarsa voglia di vivere. La capacità di stare in ozio implica una disponibilità e un desiderio universale, e un forte senso d’identità personale.

divieto di affissione


Sopra il cielo è scomparso, sostituito da una massa incolore di nuvole. Mentre misuro coi passi il tempo della pausa pranzo, penso ai vari oggetti che mi serviranno per rendere confortevole la mia nuova camera, per trasformare quel guscio di muri in qualcosa che mi faccia sentire a casa. Ed è lì, mentre ripasso mentalmente quel che mi serve, che il pensiero devia su un binario laterale portandomi via con sé.

Ecco qual è il vantaggio della nomadìa, dell’attitudine a migrare. Ecco perché fatichiamo così tanto a mettere radici profonde nei vari ripari che chiamiamo casa.

Sapere di poter prendere la nostra vita e spostarla, alzarla dalle fondamenta e trasferirla altrove, ci permette un inconscio pensiero, un sorriso quando fuori c’è la tempesta. Sì, perché quello che sta sotto la lingua dei nostri pensieri inespressi è proprio questa ultima speranza di poter avere un’alternativa se la nostra vita non ci piace. Quando il lavoro non ci soddisfa, l’umanità ci annoia, il clima ci abbatte. Quando tutto sembra cospirare per la nostra infelicità sappiamo che ci basta respirare una scintilla di bellezza inaspettata per avere il coraggio di andarcene, fare le valigie e ricominciare tutto, ancora una volta.

martedì 2 febbraio 2010

il taglio del nastro


Fuori il cielo è slavato; quel colore che ha la notte quando la neve fagocita il buio. Il silenzio ovattato della periferia penetra attraverso la grande finestra. La stanza è un ammasso indistinto di vestiario, libri, zaini, buste. Guardo le pareti, sfregiate da anni di abuso selvaggio, l'armadio scardinato e le mensole a terra. Il tecnigrafo dipinto. Il letto con le ante di un qualche mobile per rete.

Tolgo il maglione per cominciare a sistemare nei cassetti la mia vita, pulire e dare un ordine ad un nuovo inizio. E' proprio allora che lo sento cedere. Guardo le mani sorpreso ed impigliato ci trovo il braccialetto.

Ne sono sempre più sicuro. Ci sono momenti, passaggi di vita, che hanno bisogno di riti propiziatori. Come una volta si tracciava il campo prima di costruire, si chiedeva ai vecchi, ai saggi, di inaugurare le nuove case, così ora una rottura fortuita sancisce la rottura col passato, e l'inizio di un nuovo presente.