sabato 18 agosto 2012

leipreachàn - day 2



Appena imboccata Port Road svoltiamo a destra risalendo il pendio. Il cartello Port Hostel ci conduce in una stradina sterrata, circondata di siepi ed alti alberi sempreverdi che oscurano la poca illuminazione presente. Passata una vecchia casa diroccata in stile vittoriano, la stradina termina con un cancello aperto, immerso nella vegetazione. Cauti entriamo con la macchina nel viale d'ingresso pronti a scoprire un desolato edificio fatiscente nella prima periferia della piccola Letterkenny. Con nostra grande sorpresa, invece, ci si para davanti la vista di un delizioso villino rurale ad un piano dalle falde scure e le pareti tenui. Decidiamo allora di scendere dall'auto e provare a chiedere se hanno posto per la notte. Sulla porta d'ingresso un foglio reca il numero di telefono da chiamare nel caso non vi fosse nessuno all'interno. Mentre aspettiamo mi affaccio alla grande vetrata a tripla anta scorrevole del soggiorno che affaccia sul giardino. Dentro si vedono distintamente un paio di poltrone ed un divano nella luce vivida e tremolante di un bel camino acceso. In pieno agosto! Fuori l'aria della sera s'è fatta carica di una pioggerella che non sa decidersi a scendere.
In pochi minuti giunge un'auto grigia da cui scende la padrona di casa che, salutatici calorosamente,  ci fa entrare. Dopo il piccolo ingresso, d'obbligo a queste latitudini, un corridoio a L distribuisce tutti gli ambienti della casa: il soggiorno con divani e camino, la grande cucina con ampia vetrata sul lavello, e poi i bagni con le camere. La nostra è una spaziosa quadrupla con finestra sul giardino.
Mentre sbrighiamo le questioni burocratiche rimango incantato dal fascino del camino, un elegante oggetto di artigianato con colonnine tortili e architrave mensolato in legno laccato, appoggiato su di un piano in granito e con bocca da fuoco costituita da un pannello metallico inciso e decorato con motivi classicheggianti. Il tutto protetto da una rete metallica con finiture in ottone. Al di sopra di questo una bacheca raccoglie varie foto degli anni passati in questo luogo. Ci sono tende accampate nel giardino antistante, feste notturne, barili di birra e diversi giovani che suonano e ballano. Tra tutti, una faccia attira la mia attenzione. Abbracciato alla padrona di casa, con qualche anno in meno, un simpatico signore guarda l'obiettivo. In primo piano emergono le sue mani, grandi e pelose, poi la sua camicia blu ed il suo gilet aperto sul davanti. Gli occhi, di un'allegria profonda e serena, spiccano nella cornice di una folta barba bianca e dei capelli che ancora non hanno perso completamente il loro originario color di carota. Un degno erede dei leipreachán, i folletti irlandesi.

venerdì 17 agosto 2012

giant's causeway - day 2



Uno stock di fruitjoy megalitico. Il magazzino di piastrelle ottagonali del mondo. Un immenso organo in pietra. Il più grande pacco di spaghetti mai buttato in acqua salata. Un nido di api del neolitico. La discarica di tutti i grafici a torre degli anni ottanta. O, perchè no, il selciato costruito da un gigante.

bianco su bianco - day 2




Appena più a ovest del paese la terra comincia a franare dolcemente verso l'oceano, in una scomposta caduta erbosa. La spiaggia è una mezzaluna di sabbia chiara, cosparsa di rami e strane alghe portate dalla corrente. E lì, nascosto dietro una piccola collina, annegato nella vegetazione, vigila silenzioso il piccolo ostello. Le pareti incartapecorite di bianco calce, le finestre rotte e la sua storia scritta su di un cartello che ne sancisce la morte per vandalismo.
E così resta solo, a sorvegliare le maree della White Park Bay.


al cospetto degli dei - day 1




Scendiamo la strada che passa di fianco alla sala da tè, alla chiesa con il suo camposanto di croci celtiche, e ci ritroviamo in riva all'oceano. Il sole è appena tramontato dietro i promontori all'orizzonte ed il cielo comincia a virare per lasciare spazio alla notte. Due cottages, costruiti sulla collina con le finestre rivolte al largo, si accendono rivelando il loro interno cavo e caldo. La luna sta sorgendo da est, piena e paglierina, sollevandosi dalla superficie delle acque.
Ci sediamo sugli scogli, queste rocce grigie ricoperte di muschi e di alghe che svaniscono nell'oceano. E ce ne stiamo lì, in silenzio, ad ascoltare.

E quello che sentiamo non è molto diverso da quello che sentivano secoli, millenni fa. Il suono di un animale dormiente, un ruggito sommesso e continuo, un respiro liquido e potente. L'oceano lo si sente. E non solo con l'udito. Lo si percepisce, al tatto, come si percepisce una persona vicina. È una presenza viva, quasi carnale, su questo non ci sono dubbi. E la sua potenza, ora mascherata dalla mansuetudine di questo tramonto, non può essere dimenticata.
E di sicuro non la dimenticavano i popoli antichi. Non mi stupisco che ognuno, ogni civiltà in ogni epoca, abbia dato un nome al dio del mare, al signore delle acque. Perché tale presenza è fatica immaginarla se non associata ad una qualche umanità, ad una qualche vitale presenza, con una volontà propria, un carattere imprevedibile. Capace di gesti di magnanimità e crudeli violenze senza un apparente senso, senza una coerenza vera. Un giorno portatore di vita, con i suoi doni ed i suoi pesci, e l'altro di morte, con le sue tempeste e le sue profondità.
Ma non si può convivere con una presenza così ingombrante se a questa non si trova un senso. Se non si riesce ad immaginare che la differenza che passa tra la vita e la morte abbia un disegno, seppur nascosto. E allora si cerca di lusingarla, come si può fare con un vicino potente ed irascibile. Ci si inventano i riti propiziatori, gli amuleti, le benedizioni, i santi. Si inventano i modi per placare l'animo volubile di un onnipotente, di un dio.

Tutto questo non è difficile da immaginare stando qua. Non servono libri. Questa notte la mitologia la riscriviamo noi.

giovedì 16 agosto 2012

rosse - day 1




Di fianco a noi stanno quattro ragazzi. Quello con il cappello potrebbe essere un italiano, anche se l'accento e l'abbigliamento paiono tipicamente di qui. Ma quella che attira la nostra attenzione è la ragazza che sta di fronte a noi, dall'altra parte del tavolo. Sotto la felpa pesante, con il cappuccio poggiato sulle spalle, presenta una corporatura massiccia, al limite del mascolino, come di chi lavorasse fisicamente. O (il che è più probabile visti i bicchieri che ha davanti) di chi beve tanto. I capelli, raccolti ma incolti, non hanno ancora deciso se essere castani o rossi. Ma, a quanto pare, a quegli occhi verdi tutto ciò non importa. E non importa neppure di nascondere la sua bellezza nel piccolo bar di un paese sperduto della contea di Antrim.
Mi avvicino al bancone. Gli anziani che stazionano stabilmente da quelle parti mi lasciano uno spiraglio per parlare con il barista. Cerco di farmi sentire nel caos generale. Gli urlo che siamo in due, seduti là, e che volevamo una Guinness ed una Ale. Il barista, un rubicondo anziano dai capelli bianchi e la pancia da tricheco, mi guarda e mi fa: "Ok, questo per un uomo. E per l'altro?"

sheep island - day 1




Sulla strada che da Ballycastle porta a Bushmills, fiancheggiando la costa nord dell'isola, dopo aver oltrepassato il bivio per il famoso ponte di corda di Carrick-a-Rede, si trova un piccolo villaggio chiamato Ballintoy. Come tanti altri paesini da queste parti è semplicemente un piccolo grumo di case raccolte sulla strada principale, un presidio di civiltà nella sconfinata landa dell'Ulster.
Poco prima che si sfilacci per tornare ad essere colline e prati, di fronte ad un tavoliere di campi che si gettano nell'oceano, si trova un accrocchio di casette bianche che risalgono verso la collina. È lo Sheep Island View Hostel.
Suoniamo nella casa dove vivono i gestori, che ci fanno strada verso l'ostello portandosi dietro le loro faccende di casa, qualche bimbo ed un gatto al seguito. La porta di ingresso è di quelle da stalla, con la parte superiore sempre aperta e quella inferiore chiusa. La signora ci mostra la stanza (la sestupla) e  ci chiede la cortesia di firmare il registro e pagarla subito. Così poi potrete organizzarvi come volete, entrare ed uscire quando preferite, afferma allegramente. Per quanto riguarda la porta di ingresso rimane sempre aperta, aggiunge mentre ripone il registro al suo posto, quindi quando tornate stasera, dopo aver cenato, basta semplicemente che ve la chiudiate dietro.
Magnifico. Niente chiave alla porta di ingresso, niente chiave in camera. Non potevo chiedere di meglio. Un paesino dove tutti si conoscono, così piccolo da aver due soli bar, uno di fronte all'altro, di fianco alla chiesa.
Parcheggiamo la nostra macchina-armadio di fronte all'ingresso e ci dirigiamo verso il bar per cena.



mercoledì 15 agosto 2012

vasche - day 0



Nella luce del primo pomeriggio osservo le gambe in ferro, il piano rivestito in materiale plastico bianco. Alle pareti ceramica da pochi soldi, un alto soffitto ed una decina di tavoli stipati uno vicino all'altro. Intorno a noi giovani teenager e signori del quartiere, tutti intenti a mangiare con gusto il fish&chips del fine settimana.
Henry Street è affollata di gente, desiderosa di godersi il sole che è appena uscito. Dietro a bancarelle di legno alcune donne vendono frutti di bosco, gridando le loro offerte. Un bambino, non più di dieci anni, suona canzoni tradizionali con un piccolo flauto, incantando i passanti. Un gruppo, una chitarra, un banjo, un cajòn de flamenco, un bodhràn, suona musiche celtiche sulla via richiamando i turisti.
I prati di St. Stephen's Green  sono impeccabili, bordati di cespugli in fiore e laghetti con le oche. Ci aggiriamo ancora un po' per il centro, pesci in un acquario.
Ormai è quasi buio. Il tavolino è nell'angolo in fondo al locale, appoggiato ad una parete di vecchi mattoni. Intorno stampe, foto di una natura possente e dominatrice. La cameriera ci accoglie con un insolito accento, un'eleganza dissimulata ed una treccia-rasta su un lato della nuca a corollario di una magnifica chioma dallo spirito igneo.

Poi una poltrona in un seminterrato in pietra, camini spenti e gente ovunque. Chiacchiere in altre lingue, stessi sorrisi e stessi sguardi. Una leggerezza invidiabile ed una gran voglia di vita. La pioggia nebulizzata. Il freddo ad agosto. Il folk, i banjo e le chitarre, le strofe urlate e vendute al dio del turismo. Giovani che chiedono l'elemosina. Strade sconosciute nella notte, a piedi sotto l'acqua. Rientrare in camera al buio, una camera non tua, una camera con persone a caso, vite tangenti inconsciamente. Ed un mondo che si spegne nella confortante scomodità di un letto in affitto.

Ed ancora una volta si ripete il rito, il ballo di due anime gettate nel nulla. La scherma di due esistenze.

fàilte - day 0




Riemergo dal torpore del sonno e, lento, guardo fuori.
Il mondo sta tutto in un oblò e nella languida percezione di un temporaneo risveglio.
Dai greggi di nubi emerge silenziosa la terra irlandese, prepotente nei suoi verdi carichi. Campi di colore intenso si cuciono in un quadro espressionista, un'opera di landart continua, il lavoro di un folle esteta. Vetrate medievali fatte di prati, piombate da arbusti e alberi, da muretti a secco, da strade sinuose. Visioni  di Hundertwasser stampate, spalmate sul corpo della terra. Quel corpo possente e forte, drammatico nella sua carica sensuale.
Poi le nebbie assalgono nuovamente i miei occhi e sprofondo in un sonno senza pensieri.

mercoledì 1 agosto 2012

e non è




Avevo tempo e silenzio: qualcosa di così necessario, e così naturale, ma ormai diventato un lusso che solo pochissimi riescono a permettersi. Per questo dilaga la depressione!
[...] La vita era una continua corsa, piena di doveri. Ogni rapporto era difficile, contorto. Non avevo - o credevo di non avere - mai un momento in cui tirare il fiato; mai un attimo in cui non mi sentissi in colpa per qualcos'altro che avrei dovuto fare. [...]
In quelle condizioni era normale essere depresso, come è naturale che lo sia per chiunque abbia ancora un'idea di quel che la vita potrebbe essere e non è.

Tiziano Terzani

venerdì 20 luglio 2012

lentamente


Lentamente muore
chi diventa schiavo dell'abitudine,
ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi,
chi non cambia la marca,
chi non rischia di vestire un colore nuovo,
chi non parla a chi non conosce.

Muore lentamente chi evita una passione,
chi preferisce il nero su bianco
e i puntini sulle "i"
piuttosto che un insieme di emozioni,
proprio quelle che fanno brillare gli occhi,
quelle che fanno di uno sbadiglio un sorriso,
quelle che fanno battere il cuore
davanti all'errore e ai sentimenti.

Lentamente muore
chi non capovolge il tavolo,
chi e' infelice sul lavoro,
chi non rischia la certezza per l'incertezza
per inseguire un sogno,
chi non si permette
almeno una volta nella vita
di fuggire ai consigli sensati.

Lentamente muore chi non viaggia,
chi non legge,
chi non ascolta musica,
chi non trova grazia in sé stesso.

Muore lentamente,
chi distrugge l'amor proprio,
chi non si lascia aiutare.

Muore lentamente,
chi passa i giorni a lamentarsi
della propria sfortuna o della pioggia incessante.

Lentamente muore,
chi abbandona un progetto
prima di iniziarlo,
chi non fa domande
sugli argomenti che non conosce,
chi non risponde
quando gli chiedono
qualcosa che conosce.

Evitiamo la morte a piccole dosi,
ricordando sempre che essere vivo
richiede uno sforzo
di gran lunga maggiore
del semplice fatto di respirare.

Soltanto l'ardente pazienza porterà
al raggiungimento
di una splendida felicità.



Martha Medeiros

la neve all'improvviso


Si avvicina al microfono. Ha una canotta bianca inguardabile, slargata, con occhi neri disegnati sopra. Le basettone gli segnano la mascella, sempre più pingue.
Questa canzone la dedico ad una persona che è qui, stasera - dice. Un'amica che è stata molto importante. Questo è per dirle che non importa quanti anni passino, quanto tempo. Certe cose sono vere, e lo restano per sempre. Questa canzone è per te, Francesca.
E comincia a sfiorare la chitarra elettrica, bianca opaca, candida. Davanti a lui tanti piccoli fari salgono da terra, come stalagmiti, lucciole cangianti. Poi una folla distesa nel grande prato, gli abeti ed il cielo stellato di Ferrara.
Il falsetto ci sottrae al caldo, ci trascina in un paesaggio nordico, dove risplende la neve, dove le grotte sono popolate di fiabe, dove il romanticismo è ancora vivo. E la musica è una coperta, calda e vibrante, che comunica sottopelle.

Bon Iver.

mercoledì 11 luglio 2012

buona fortuna


La facciata di Palazzo Re Enzo prende vita, arrossendo ed allungando le sue ombre, mentre addento la mia pita con falafel seduto sui gradini della chiesa. E mentre mi godo questa città, prima che inizi la vita della notte, nella cornice del mio film personale entra in controluce una sagoma dinoccolata. "Bonjour", ci dice sondando il terreno. "Ciao", lo salutiamo continuando la nostra cena vagabonda. "Potete fare qualcosa per noi, ragazzi?". Piano piano, senza nessuna fretta, si siede sul marciapiede di fronte a noi. Respira lento. Dice che è stanco. Che di solito cammina tanto, ma che ora gli fanno male i piedi. "E il mio amico, quello laggiù, vedete?", dice indicando un ragazzo sdraiato lungo i gradini della chiesa "beh, a lui l'hanno picchiato e ora non riesce più a camminare". Ha gli occhi cerulei, piccoli e profondi. Stanchi, incredibilmente stanchi. Hanno un fuoco sopito, dentro. Continua a guardarmi fisso, dritto negli occhi, facendo un occhiolino lento e piegando leggermente la testa di lato quando fa una battuta. "Ho 41 anni, sono in Italia da 25. Mia mamma era polacca, si è sposata con un carabiniere di Roma, ma mi hanno abbandonato quando ero piccolo. Ho girato tanto. Malaga, Valencia, Alicante, la Francia. Ora siamo a Bologna da 3 giorni". La pelle del viso è bruciata, macchiata, le dita sono state usate tante e tante volte, logore e grosse. I denti sotto, a ventaglio, rischiano di cadere; gli altri non riesco neppure a distinguerli.
Cristofer si chiama. Portatore di Cristo, gli faccio eco io. Speriamo, risponde lui.
Ama la storia, Cristofer. Ci racconta della Polonia, un grandissimo Paese, lacerato da tedeschi e russi. Ci racconta dei generali trucidati, dei documenti dati da Gorbaciov a Polanski, del patto Ribbentrop-Molotov completamente disatteso. Di chi è stato a liberare Bologna, di fughe dai treni, di una "madre che ben conosciamo" che aiutò i profughi.
Racconta bene, con patos nordico, parole scelte accuratamente ed espressione che cerca di non tradire emozioni. In un paio di occasioni si commuove, e ci chiede scusa.
"Io non mi vergogno di essere polacco" dice "si vergogna chi non sa qual è il suo Paese, cosa significa il suo Paese. Io non mi vergogno di essere polacco".
Mi alzo per salutarlo, gli porgo la mano e lo sollevo. Sarà alto più di due metri. Mi stringe forte la mano.
"Buona fortuna, Cristofer". "No, come dite voi, in bocca al lupo"

lunedì 9 luglio 2012

presepe


Lo vedo e non posso fare a meno di guardarlo. Un ragazzino sui dodici anni, il fisico atletico di chi è nel pieno della crescita, nel fiore degli anni. Una maglia buttata addosso con noncuranza ed un paio di pantaloni corti. Scarponi ai piedi. La pelle nera come il carbone.  Risale la collina, bastone in mano, battendolo qua e là sull'erba.
Poco più sotto una bimba di neppure dieci anni, con un vestitino di altri tempi, risale allo stesso modo il pendio, roteando il bastone. I due tracciano un disegno invisibile sull'erba e, senza toccarle, sospingono le mucche verso la stalla.
I miei compari continuano a parlare, ignari dell'immagine che mi ha rapito. Affondano i denti , sorseggiano il vino. Si godono l'aria fresca che tira su questa terrazza naturale, spalle alla malga e fronte alla montagna.

Ed io continuo a perdermi in questa immagine lenta, di un bambino nato nel cuore dell'Africa e finito a fare il pastore quassù, sulle Dolomiti friulane.

mercoledì 4 luglio 2012

meridiani



- Lo vedi? La spalla non riesce a toccare terra.
Le sue mani continuano a correre su di me, insinuandosi, strisciando, premendo. La scapola, il trapezio, la spalla. Con costanza perpetua il suo rotolare le dita sul mio corpo.
- Questo significa che la tua schiena è contratta, non è in armonia.
Il gazebo, piccola copertura bianca, si trova sotto un grande abete nel parco dell'università. Intorno è buio, è già notte da tempo, e nel cielo risplendono le lanterne di carta di riso.
- Da qualche parte c'è qualcosa che la blocca. E non è detto che sia una questione di postura lavorativa.
La gente continua a passare, ad accalcarsi, stipandosi attorno al palco qualche metro più in là. Un misto di suoni acustici e gotici, un finger-picking dopo l'altro, risuonano nell'aria.
- Potrebbe essere dovuto ai meridiani frontali, e non a qualche problema relativo alla schiena. E io penso che sia proprio così.
Kaki King sta dando sfogo alle sue capacità di chitarrista, il pubblico è seduto, in contemplazione. E qua, poco fuori dalla calca, sto sdraiato io, pancia a terra ed occhi chiusi. Le mani della massaggiatrice a ridisegnarmi i muscoli.
-Abbiamo due meridiani principali nella parte anteriore del corpo: quello dei polmoni e quello del cuore. Il meridiano dei polmoni è responsabile della tristezza mentre quello del cuore della gioia. Tu tendi ad inarcarti, a portare le spalle verso il petto, perchè tendi a proteggere questi due meridiani, perchè non sei in equilibrio con loro. Dico bene?

mercoledì 20 giugno 2012

altrove




Della vita che finora ho fatto non c'era un solo seme nell'esistenza di mia madre e di mio padre. Tutti e due venivano da gente povera e magnificamente semplice. Gente terrena, tranquilla, impegnata soprattutto a sopravvivere e mai inquieta, avventurosa o in cerca di novità come invece sono sempre stato io, fin da bambino. [...]
Da dove mi veniva allora la mia voglia di mondo, il mio feticismo per la carta stampata, il mio amore per i libri e soprattutto quella ardente bramosia di lasciare Firenze, di viaggiare, di andarmene lontanissimo? Da dove mi veniva questa smania d'essere sempre altrove?

Tiziano Terzani

mercoledì 30 maggio 2012

costellazioni urbane


Seduto chino al lato della pista ciclabile, nel tardo pomeriggio della prima periferia, ha un paio di birre da pochi centesimi a fianco, alcune aperte, altre ancora da inaugurare. Fissa l'asfalto rosso davanti a sè e veste di grammatica balcanica i propri pensieri.
Poco più in là una signora corpulenta, di un biondo ucraino, abbraccia lo schienale della panchina mentre parla al telefono, cercando un contatto fisico che non c'è.
In piedi sul paraurti anteriore del suo camper, un uomo sulla cinquantina tenta di ripararne il finestrino superiore. Incrostato di sporco sotto la sua canotta lurida, capitano di un vascello di lerciume, so cosa spera ora che il sole tramonta.
Lo vedo nell'ansa dello stradellino, seduto su di un muretto in cemento armato, leggermente nascosto nel verde. Pacchi di Tavernello a fianco, solita posizione rassegnata in avanti, volto rubicondo prima che cali la notte.
E nella parte più profonda del parco è ancora lì, ancora una volta lui, ancora una volta con un volto e un'etnia diversa. E una bottiglia in mano.

Le città sono costellazioni di solitudini.

martedì 29 maggio 2012

con.turbante


Indossa un turbante chiaro, avvolto diverse volte sulla testa, attorno alle tempie. Un vestito di lino leggero, dalle tinte pastello, con maniche e gambe abbondanti. Alza le braccia ed avvicina le mani. Con una afferra il pollice dell'altra e poi chiude la presa in alto, all'altezza degli occhi. Le persone che le stanno di fronte fanno lo stesso senza un'obiezione, portando le mani nella stessa posizione. Non riesco a sentire cosa dica ma ad un certo punto comincia una litania, un lamento che si innalza da lei per diventare poi collettivo.
Sedute a gambe incrociate stanno una ventina di persone, forse più. C'è chi ci si è ritrovato per caso ed ora medita in jeans e camicia. Chi si siede sul suo zaino e a fianco ha le sue Nike ultimo modello. C'è qualche seguace dello stile orientale, con camicia di lino dal collo alla coreana e turbante, perfettamente a suo agio in quella posizione. Steso dietro alla maestra di yoga si trova un ragazzo. Capelli lisci, castono chiari, lunghi fino alle spalle; barba incolta ma non tropo lunga. Una sorta di Kurt Cobain nostrano. Giace su un lato e con una mano accarezza i capelli rossicci di una bambina che dorme appoggiata su un cuscino. Intorno al gazebo poi, nella luce avvampata che precede il tramonto, c'è una degna rappresentanza di quello che una volta era il popolo yippie: genitori giovani con bambini sulla decina che giocano nel parco. Indossano vestiti di lino ricchi di colori, spesso con fiori o motivi naturali. Collane, piercing, tatuaggi, orecchini. Rasta o comunque dai capelli lunghi. Si fanno massaggi a vicenda, parlano a bassa voce ed hanno l'aria rilassata di chi si riconosce a casa.
E poi ci sono i santoni. Quelli tutti vestiti in arancione, con una fascia scura a cingere i fianchi ed un turbante chiaro in testa. Ce n'è perfino uno che, col suo laptop 10 pollici, sta aggiornando il suo profilo facebook. Altri sono un po' più lontani, rifugiati nelle loro bancarelle.
Noi ci sdraiamo su un grande divano sospeso coi cuscini dai motivi chiaramente cinesi ed aspettiamo che il tramonto faccia il suo dovere.

domenica 27 maggio 2012

triage


Ricordi? Era ottobre ed ero appena andato a fare la mia prima partita di calcetto da quando ero arrivato in città. Ero contentissimo di poter tornare a giocare. Tempo cinque minuti e già mi ero fatto male. Ma poco importava. Stavo bene e volevo giocare tutta la partita. Dopo la doccia, invece che andare a farmi visitare, vi avevo raggiunto al Collegio degli Architetti dove c'era una conferenza di cui non ci importava nulla. C'era anche Juan Luis, questo lo ricordo, che dall'alto della sua ignoranza in materia aveva pensato bene di aspettare fuori che iniziassero a portare l'aperitivo. Ed effettivamente l'aperitivo era arrivato, degna consolazione delle pene della conferenza. Vassoi che continuavano a passare tra di noi carichi di bicchieri di birra e vino, e poi spiedini, tapas, pesce fritto.
Solo quando avevano smesso di arrivare le portate, verso mezzanotte, ti avevo raccontato della partita e del piede. Avevamo deciso di andare insieme al pronto soccorso, camminando nella notte verso le pendici dell'Albaycin. All'accettazione ci avevano detto che avremmo dovuto aspettare tanto. Allora, visto che l'aperitivo non ci era bastato, avevamo deciso di andare a mangiarci un kebab, poco distante. Tornati su Avenida Madrid avevamo girato per la Plaza de Toros e poi, poco oltre, ci eravamo fermati al bar. Avevamo chiacchierato, come se passare la serata in attesa al pronto soccorso fosse un piano niente male. Ricordo le pareti, rivestite di ceramiche bianche e azzurre fin sopra l'altezza delle sedie. Il locale, sporco, con la tv accesa su di un programma qualsiasi.
Avevamo finito il nostro kebab ed eravamo tornati ad attendere in ospedale, senza renderci conto che ero già stato chiamato. Un'ora dopo finalmente me ne uscivo con il piede fasciato ed una contentezza ebete sul volto.
La notte era nostra, la città pure.

E stanotte, guardando questo mio amico sdraiato sul letto d'ospedale, mi torna in mente tutto quanto.
Mi torna in mente la libertà di vivere che avevamo allora e l'entusiasmo di sapere che il tempo fosse dalla nostra parte.

domenica 13 maggio 2012

verde


Le rotonde pietre del Pratello mi massaggiano i piedi mentre porto a spasso la mia bici, quasi fosse un animale domestico a passeggio nella notte.
"Sì il lavoro va abbastanza bene, ma ho capito una cosa" mi dice da sotto il suo casco di capelli sfilati e crespi.
Lisci. Sono lisci i portici che ci conducono verso via delle Lame. Ed i nostri passi scorrono felpati nella notte.
" Ho capito finalmente cosa cerco, cosa vale la pena"
La città rossa. La città sociale. La città facile da vivere, gioiosa. La grassa, la rossa e la dotta. La città della musica, del cinema in piazza, delle rassegne alle fermate degli autobus. Dei quartieri popolari più dignitosi di quelli borghesi. Dei parchi, della multietnicità. Dei colli e delle vespe.
La città che tenta di mettere al centro l'arte, nelle sue varie e squilibrate forme. Che si oppone al sistema fomentando una vita di strada, da carta di credito altrui, di furto tacitamente legalizzato. La città della droga segretamente libera, dei litri di alcool, degli schiamazzi notturni. Il centro senza centro, la chiesa del popolo mozzata dalla chiesa.
E le sue letture alternative, indipendenti, sovversive, rivoluzionare, bonarie. Anticapitaliste.
"Ho capito che voglio fare i soldi nella vita. Fare tanti soldi e godermela"

Mentre la bici scivola verso la piana, verso i quartieri bassi, rimango con questa frase appesa al mio cervello, nella brezza della notte.

venerdì 4 maggio 2012

tre volte all'alba


Si ricomincia da capo per cambiare tavolo, disse. Si ha sempre questa idea di essere capitati nella partita sbagliata, e che con le nostre carte chissà cosa saremmo riusciti a fare se solo ci sedevamo a un altro tavolo da gioco.

Alessandro Baricco