Il cielo è coperto e la pioggia scende leggera. Facciamo colazione dentro all’atrio della palestra e poi ci incamminiamo su per la collina. Negreira scompare nel grigio delle nubi basse, e cominciamo ad addentrarci nel bosco.
La notte è stata pessima. Non sono riuscito a respirare, ho dormito pessimamente sul pavimento della palestra ed i sintomi influenzali non mi vogliono abbandonare. Questa notte devo assolutamente trovare posto nell’albergue. Allora, visto che siamo partiti tardi, decido di non fermarmi, di non fare soste fino a che non avrò raggiunto Oliveroa, la meta di oggi.
Mi cibo di more lungo il cammino, senza mai fermarmi realmente. Mi sento in forze, ho voglia di camminare. Ho voglia di solitudine, di silenzio. Di sentire il mio respiro ed il suono ritmato e felpato dei miei passi. Voglio vedere. Vedere posti di una normalità contadina che non mi appartiene. Vacche al pascolo, giovani pastori, signore anziane che hanno facce come mappe con scritta la traiettoria di ogni sofferenza, vecchi come nelle foto dell’antica Italia, con i loro abiti rustici ed il bastone.
Il cielo smette di piovere, e lascia spazio ad un freddo celeste sbiadito, che preannuncia altra pioggia.
Il sole, ancora nascosto, è già sulla via del ritorno. Allo stremo delle forze macino gli ultimi chilometri come in una sorta di marcia delirante, superando gli altri gruppi. La mancanza di cibo, la fatica e il peso dello zaino mi hanno portato a questa condizione quasi di trance. Fase di trascendenza 3, direbbero i miei compari. Quella fase di trasognato misticismo che accompagna la stanchezza fisica a deformazioni della realtà e della logica. Cammino senza pensare, totalmente annullato dallo sforzo e dall'influenza.
Poi arrivo. Ed il posto ne vale la pena.
L’albergue è costituito da alcune piccole case contadine ristrutturate. Magnifiche costruzioni in pietra, con le pareti spesse più di mezzo metro e gli interni in legno. Ci sono diverse casette, ognuna con la sua funzione. Due di queste accolgono i dormitori su due piani, una la cucina con la piccola sala da pranzo. Una la stalla con alcuni posti letto al di sopra della zona riservata ai cavalli. Uno stanzone come camerata collettiva. E poi due horreos. Gli horreos sono piccole costruzioni dalla pianta rettangolare molto allungata che ad una prima vista sembrano un mix tra una scultura di una civiltà celtica e uno strano altare di qualche religione dei boschi. Dal suolo si elevano varie colonne o piccoli pilastri che sostengono delle lastre di pietra leggermente a sbalzo. Su di queste sono impostate le pareti, costituite generalmente da mattoni forati o assi di legno separate tra loro. In cima un tetto sporgente e, nei punti estremi del colmo, delle croci o delle sculture incomprensibili. Ci spiegano che gli horreos erano magazzini per contenere e seccare il mais. Le pareti forate permettevano di far circolare l’aria all’interno mentre i pilastri e il piano sporgente impedivano ai topi di raggiungere i cereali.
È metà pomeriggio ormai. Mi infilo nel bar e faccio pranzo. Ordino un brodetto caldo con fideos, dei tagliolini un po’ più rammolliti. Un toccasana per la mia gola. Poi mi infilo a letto nel mio sacco a pelo. L’influenza è venuta a rivendicare un po’ di attenzione per il mio corpo e l’unico modo per curarla è coprirmi e riposare.
Verso sera arrivano anche i miei compari e si sistemano nello stanzone. Sto già un po’ meglio e vado in cucina a mettere su l’acqua per la pasta. Non ho mai visto una cucina con tante mosche; tra tutti i posti del Cammino questa vince senza dubbio il primo premio. Probabilmente perché siamo circondati da stalle e campi.
Ceniamo e poi, non appena la luce scompare mi infilo nuovamente nel letto. Domani ci attende l'ultima tappa: Finisterre.