domenica 25 ottobre 2009

fisterra - dia 21


Mi alzo presto. Fuori la pioggia sembra paralizzata, una nebulosa umidità sospesa. Guardo il cielo sopra l’horreo e non vedo né stelle né bagliori della luce dell’alba. Le mucche già da qualche ora han intonato il loro canto mattutino. Indossare i vestiti diventa quasi un momento sacro, la vestizione del cavaliere. Si studia il tempo, e si cerca di adeguare il vestiario ai cambiamenti inevitabili che porterà la luce del sole. Esco e mi dirigo verso ovest. Ma appena arrivato all’ultima casa del villaggio perdo subito i segnali e mi ritrovo perso a un trivio. Non c’è nessuna luce intorno, nulla di nulla, ed il rischio è quello di perdere il cammino. Torno mestamente sui miei passi in attesa che il cielo si faccia chiaro.

Arrivo in cima alla collina dove si trova il bivio per Muxìa e lì incontro un gruppo di pellegrini intenti a ripararsi in un bar e a cambiarsi. Quassù domina un vento forte e freddo che libera su di noi una pioggia di tanti spilli kamikaze, perline umide che scoppiano sulla nostra pelle.
È un’aria oceanica. Siamo vicini.
Mentre gli altri si fermano io continuo in preda ad un misto di entusiasmo e spirito donchisciottesco.
Il paesaggio è cambiato. Non ci sono più boschi folti, non ci sono più prati verdi. Una bassa vegetazione di sempreverdi tappezza questi colli alti che sembrano non voler mai realmente scendere. Una sorta di scenografia teatrale che ad ogni curva tenta di nascondere l’agognato orizzonte.
Il vento freddo continua a rasoiare le orecchie ed il volto. Ho indossato tutti gli indumenti che avevo per tentare di frenare quest’ultimo ostacolo climatico. Improvvisamente mi guardo intorno, senza fermarmi. Davanti a me vedo il sentiero correre sinuoso fin dove arriva l’occhio, e dietro di me si perde nelle pieghe della terra. In quella dozzina di chilometri che separano l’ultimo centro abitato da Cee, il primo paese sull’oceano, mi sento epicamente solo. In tutto l’ampio spazio di orizzonte che vedo davanti e dietro di me non c’è una sola sagoma umana. Né animale. Non ci sono segni di antropizzazione eccezion fatta per il sentiero. E questo mi riempie il cuore di gioia e commozione.
Finchè, camuffato dal grigio dell’aria, lo intravedo. Nascosto tra le opposte curve delle colline, filtrato da secchi alberi in lontananza, scolorito dall’assenza di luce, eccolo finalmente. L’oceano.
Il sentiero scende brusco precipitando sulla costa. Magicamente, come se fosse un gran finale, qui non c’è né vento né pioggia: splende il sole e il clima è più che piacevole. A Cee mi fermo a comprare pane, una banana e della cioccolata. Saluto alcuni pellegrini, chiacchiero con uno che mi dice di aver lavorato per anni come gestore di un ristorante a Riccione, e riparto.
L’ultima grande salita. Le macchine suonano quando mi vedono, in segno di saluto e solidarietà. Chiedo ad un signore quanto manca a Finisterre e lui mi risponde che ne mancano ancora tanti di chilometri, almeno una dozzina. Sorrido. Tanti una dozzina. Lo ringrazio e proseguo.
Ultimo paese prima della meta. Il cammino passa dentro il centro abitato che si è sviluppato lungo la statale. Mi addentro per i vicoli e sento una signora chiamarmi di lontano lungo la statale.
– Per Finisterre è dall’altra parte – mi dice indicandomi la strada giusta.
La ringrazio e cambio direzione. Qualche minuto dopo la rivedo dall’altra parte della strada mentre sta per salire su una macchina. Si ferma un attimo e mi grida:
-Ehi, ragazzo, prendi!
Afferro al volo e guardo. Mi ha tirato una mela.
– Buon cammino!

Il sentiero scende finalmente, passiamo al bordo di una spiaggia bianca che riposa nella conca di una larga insenatura. Seguendo il profilo della costa davanti a noi si eleva l’alto promontorio e alla sua estremità il faro. Fisterra.

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