Il cielo è fosforescente tra le nuvole nel tempo che precede l’alba. Appena uscito dal paesino mi aspetta una fitta boscaglia che filtra la poca luce e trasforma tutto in un gioco di ombre cinesi. Non si vede dove metto i piedi, a stento riconosco i segnali lungo il sentiero che serpeggia tra gli alti fusti, come in una jungla di bambù. Poi la luce nasce all’orizzonte e piano piano regala esistenza alle cose. E li vedo. Vedo gli alberi, snelli e altissimi, prodigi della statica. Non so come riescano a resistere, ma queste betulle hanno un fusto piccolissimo, non più di una trentina di centimetri, ed arrivano a oltre 20 metri, senza un ramo, una foglia, senza una sporgenza se non in cima. Sono giganteschi stuzzicadenti bianchi conficcati nel terreno. Sono così snelli che sembra che pendano dal cielo, liane perse dalle nuvole.
I chilometri che ci separano da Santiago continuano a diminuire, e con loro la naturalità del paesaggio. Strade, chioschi, grandi complessi, un albergue per 400 persone. I pellegrini sono ormai un fiume ininterrotto. Poi passiamo a lato dell’aeroporto, e attraverso l’estesa periferia della capitale galiziana.
Trascinati da questo flusso di persone, e dalla foga di arrivare in tempo per la celebrazione dei pellegrini, quasi corriamo nelle viscere del centro storico. Vediamo le torri, una facciata, scendiamo le scale sotto il grande voltone di pietra e finalmente alla nostra sinistra si apre la piazza. E lì la vediamo. La cattedrale.
È strano. L’effetto non è quello che immaginavo. Per niente. Vedo la facciata, di un barocco che non amo. Vedo la gente intorno a me. Vedo le bancarelle, i turisti, il movimento di una città, che nulla ha a che fare con i tempi e i pensieri di un pellegrino. La frenesia preme intorno a noi, e comincia già a far sentire il suo effetto. Entriamo e ci stipiamo insieme agli altri pellegrini.
I chilometri che ci separano da Santiago continuano a diminuire, e con loro la naturalità del paesaggio. Strade, chioschi, grandi complessi, un albergue per 400 persone. I pellegrini sono ormai un fiume ininterrotto. Poi passiamo a lato dell’aeroporto, e attraverso l’estesa periferia della capitale galiziana.
Trascinati da questo flusso di persone, e dalla foga di arrivare in tempo per la celebrazione dei pellegrini, quasi corriamo nelle viscere del centro storico. Vediamo le torri, una facciata, scendiamo le scale sotto il grande voltone di pietra e finalmente alla nostra sinistra si apre la piazza. E lì la vediamo. La cattedrale.
È strano. L’effetto non è quello che immaginavo. Per niente. Vedo la facciata, di un barocco che non amo. Vedo la gente intorno a me. Vedo le bancarelle, i turisti, il movimento di una città, che nulla ha a che fare con i tempi e i pensieri di un pellegrino. La frenesia preme intorno a noi, e comincia già a far sentire il suo effetto. Entriamo e ci stipiamo insieme agli altri pellegrini.
All’uscita dalla cattedrale però succede una cosa strana. Piove. Tutta l’acqua che non è caduta in tutti questi giorni, tutta l’acqua che la Galizia ci ha risparmiato, che Castiglia e Leon han trattenuto, improvvisamente si lascia andare e scende, fina e lenta. Come una liberazione. Guardo la cattedrale ed ora sì che mi sembra come dovrebbe essere. I turisti messi in fuga lasciano vuota la piazza, i pellegrini che tentano di trovare riparo e lei, la grande facciata, bagnata e grigia, assalita dallo scuro dello sporco e del muschio. Così divorata dagli agenti naturali sembra quasi tornata come doveva essere. Non più uno scrigno decorato, non più un simbolo ricco. Semplicemente una roccia incrostata dove al suo interno puoi trovare riparo e protezione. Una roccia dal cuore cavo che non ha la pretesa di confondersi con la meta.
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