lunedì 30 settembre 2013

apocalypse please - giorno 3



Lanciamo la macchina sulla strada che ci porta verso il cuore urbano con l'idea di essere in una città devastata dalla guerra nel passato recente, e pronti a coglierne i segni. La periferia di Belgrado è anonima come in tutto il mondo. Torri prive di carattere, edifici senza pregio, residenze tristi. Più ci avviciniamo alla parte antica e più le strade, ampi viali alberati, si fanno monumentali, pomposi. Finchè, percorrendo Kneza Miloša, la meraviglia ci mozza le parole.
"Fermati!"
Scendiamo dalla macchina, voltiamo l'angolo e ci ritroviamo di fronte un edificio in procinto di collassare su se stesso. Probabilmente da almeno una decina d'anni. Uno steccone gradonato e bugnato, setti in cemento armato che sostengono solai armati, finestre a nastro e linguaggio moderno. Doveva incutere rispetto, all'epoca, il bestione. E ora guardalo, cieco e mutilo, un reperto che mostra le sue viscere fossili al palazzo del potere che gli sta di fronte. Tentiamo di immortalare il cadavere di pietra in questa atmosfera apocalittica, catturando la poca luce prima di dirigerci alla ricerca di un ostello. Invece, dopo un paio di minuti, il cielo cupo si scuote e comincia a riversarci addosso secchiate d'acqua che ci costringono a cercare un riparo. Lo troviamo sotto i ponteggi di un cantiere proprio di fronte al nostro cadavere urbano, confidando nella rapidità dei temporali estivi. Eppure si è alzato il vento, e la pioggia non accenna a diminuire. l'acqua comincia a penetrare tra le assi di legno ed in una decina di minuti ci ritroviamo con 2 sconosciuti a stringerci nelle zone più riparate. Piove così tanto che la città è trascolorata, grigia e scomparsa dietro una cortina d'acqua che ci impedisce di vedere lontano. La strada è quasi allagata, le macchine faticano a passare, il tram è fermo con le quattro frecce, la gente cerca riparo negli androni, sotto i ponteggi, alle fermate del bus.
Sotto le impalcature dall'altro lato della strada, un militare continua a fare brevi ronde, andata e ritorno, incurante dell'acqua che viola la sua uniforme.
Cercavamo un impatto violento con la città. Beh, è quello che abbiamo avuto.

sabato 28 settembre 2013

dizel - giorno 3



Abbiamo lasciato il temporale alle nostre spalle, ma per poco. Attraversiamo campi e campi di granturco quasi pronto per il raccolto e ci fermiamo in una grande stazione di benzina in mezzo alla piana.
È lì, sospesi in quest'aria elettrica, con i biondi campi a scuotersi contro lo sfondo tetro della tempesta incombente, le antiquate insegne in latta del benzinaio, il vento a raffiche che ci spettina i capelli - è qui che vorrei essere realmente capace di fotografare. Per raccontare quello che le parole non riescono ad esprimere.

venerdì 27 settembre 2013

pioggia calda



"Non importa farlo alla perfezione. Questo è uno di quei problemi che ci portiamo addosso noi occidentali, l'idea che si debba raggiungere il massimo, la perfezione a tutti i costi."
Ci guarda, seduta sul pouf verde tutto ricamato, i suoi occhi appoggiati sui nostri. Alla sua sinistra un Buddha di pietra gorgoglia rivoli d'acqua in segno d'assenso. I dipinti a parete ci mostrano i loro lineamenti indiani per tentare di convincerci.
 "Lo yoga dà i suoi effetti su chiunque, tanto su chi inizia per la prima volta, come voi, come su chi è già esperto. Ed ognuno riceve il massimo beneficio nel praticare con concentrazione ed impegno, e non in base a quanto è avanzato il proprio stato."
Le mani in grembo, vestita completamente in lino bianco, uno scialle turchese legato in vita, il terzo occhio disegnato con cura.

Mi sento confortato da questa visione. Scompaiono i paragoni, i confronti, i tentativi di essere di più di quel che si è. Rimane il presente, ontologicamente l'unica realtà che importa. Ed il mondo diventa improvvisamente un luogo accogliente, dove anche la pioggia riscalda.

la libertà



Un uomo va dal suo re che ha grande fama di saggezza e gli chiede: "Sire, dimmi, esiste la libertà nella vita?"
"Certo", gli risponde quello. "Quante gambe hai?"
L'uomo si guarda, sorpreso della domanda. "Due, mio Signore."
"E tu, sei capace di stare su una?"
"Certo."
"Prova allora. Decidi su quale."
L'uomo pensa un po', poi tira su la sinistra, appoggiando tutto il proprio peso sulla gamba destra.
"Bene", dice il re. "E ora tira su anche quell'altra."
"Come? È impossibile, mio Signore!"

"Vedi? Questa è la libertà. Sei libero, ma solo di prendere la prima decisione. Poi non più."

Tiziano Terzani, Un altro giro di giostra

mercoledì 25 settembre 2013

prima di irig - giorno 3



La strada esce dal Parco puntando verso la piana e ricompaiono le scene di un'epoca ormai scomparsa. Strade dai cigli polverosi, senza segnaletica, case scorticate, coi mattoni forati e le strutture in cemento armato in vista. Di fronte ad ogni abitazione carri parcheggiati su cui sono esposte casse di frutta e verdura pronte ad essere vendute. Uomini e donne di tutte le età siedono, solitari, su logore sedie arenate a pochi passi dai carri, presidi umani di una povertà antica. Tu ti fermi e contratti, senza possibilità di dialogo, un chilo di pesche.
Poco dopo fermiamo la macchina sul ciglio della strada ed entriamo in un piccolo locale che annuncia menù per i camionisti di passaggio. Carne, carne e ancora carne. Varchiamo la porta, sperando di trovare qualcosa di tipico e a prezzi popolari. Il locale in realtà è poco più che una baracca agghindata apparentemente a caso: pareti in boiserie scura vagamente orientaleggianti, spolverini, reti da pesca appese al soffitto, paraventi , foto del ventennio precedente, radiatori da montagna. Tutto ciò a fare da cornice ad una decina di tavoli, apparecchiati con tovaglie di cotone spesso, montanare. Seduto ad uno dei tavoli sta un uomo, l'unico, intento a terminare il suo pranzo. Solleva un ciglio lanciandoci una breve occhiata, e poi torna al suo pasto. Il padrone del locale smette di giocare con una bambina di poco più di dieci anni, si alza dalla sedia e ci viene incontro, perplesso. Cerchiamo di farci capire, domandando se è ancora possibile mangiare. L'uomo, titubante, risponde di sì, seminando qua e là qualche parola in inglese.
Il menù è, ovviamente, rigorosamente in serbo. Ci guardiamo, sorridiamo, e scegliamo pietanze a caso indicando col dito nomi impronunciabili dal listino. Mentre aspettiamo studiamo la cartina ed il percorso dei prossimi giorni, ci raccontiamo quel che ci aspettiamo, quel che ci piacerebbe vedere.
L'uomo rientra nella sala e porta in tavola un vassoio straripante, una montagna di cipolla sepolta sotto spiedini, braciole, patate, verdure. Tutto ottimo e più che abbondante. Tu cerchi di complimentarti, alzando il pollice per dire "buono", ma non sono sicuro che il padrone-cameriere-barista-cuoco del locale abbia capito. E in fatti, qualche minuto dopo, rientra con un'altra insalata. "Uno" gli avevi indicato con il pollice al cielo, ed un'altra insalata ti ha portato. A quanto pare, il linguaggio dei gesti è tutt'altro che universale. Mentre beviamo i nostri caffè turchi, tentando di riprenderci dal cibo, raccontiamo all'uomo del viaggio che stiamo intraprendendo. Lui ci sorride, col sorriso di chi guarda una vita ormai troppo lontana dalla sua. Con un misto di compiacimento e rassegnazione.
Infialiamo la porta e ci ritroviamo sotto un violento acquazzone estivo che spazza la strada. Corriamo rapidi verso la macchina e puntiamo verso sud. È ora di lasciare la periferia del Paese e puntare sulla capitale.

martedì 24 settembre 2013

staro hopovo - giorno 3



Mentre schiacci il tuo solito pisolino, mi incammino lungo la strada. Mi faccio accompagnare da un timido sole che illumina campi di cereali, vigneti e prugneti. Osservo attentamente ciò che mi circonda mentre vi passo attraverso e per un attimo la campagna mi pare quella ordinata e pacifica della Toscana. Poi i casolari mai terminati e quelli in disuso mi riportano alla balcanica realtà. Per quasi un'ora seguo il nastro di asfalto che si srotola sinuoso in mezzo ai campi, finchè torno a salire ed entro nel recinto di un piccolissimo monastero, Staro Hopovo.
A lato del tracciato principale si trova una chiesina di pietra chiara di un'unica stanza, poco più che una cappella. Un piccolo ingresso, un leggero marcapiano su cui campeggiano archetti ciechi ed uno splendido mosaico dorato che mi guarda. Al di sopra, un rosone in miniatura, quasi un bottone traforato. Sull'altro lato si trova la casa dei monaci, un edificio modesto di una manciata di stanze al cui fianco si estende l'ampia copertura in legno che protegge i lunghi tavoli per i pranzi comunitari.
E qui, ad pochi chilometri dal precedente monastero, la vita mi sembra così diversa, così tanto più legata alla foresta che lo circonda, alla solitudine che li isola, al silenzio che alimenta la meditazione.

novo hopovo - giorno 3



Come varchiamo la soglia del chiostro del monastero di Novo Hopovo ci ritroviamo circondati dalle chiassose voci di un gruppo di turisti. Sciami di anziane signore zampettano sotto il portico facendo incetta di souvenir sacri e prodotti locali.
La chiesa che domina il chiostro è stata restaurata recentemente ma reca ancora i segni della storia, delle battaglie e dell'incuria. L'ingresso è protetto da inferriate sulle quali campeggia la croce e da un portone dai rosoni vagamente arabeggianti. All'interno, sotto ciò che resta degli affreschi di chiara atmosfera orientale, i monaci camminano senza rumore, splendidi nel loro rigoroso vestire in nero, barba lunga e copricapi a capitello. Non posso fare a meno di osservarli muoversi silenziosi ed eleganti, misteriosi, a vestire una condizione ideale che tante volte ho agognato. Eppure una tristezza antica mi prende quando vedo la piccola bancarella che hanno allestito all'interno della chiesa, a pensare che questi uomini che hanno scelto il ritiro dalla civiltà abbiano dovuto trasformare il proprio artigianato in souvenir. Il frutto di secoli di fatiche spirituali piegato alle folcloristiche voglie di un'economia più forte.

lunedì 23 settembre 2013

novi sad - giorno 3



Parcheggiamo su Beogradski kej, attraversiamo la strada e ci sediamo cavalcioni sull'argine. Davanti a noi scorre placido il Danubio nel suo letto ampio, rigirandosi silenzioso in questo sabato mattina d'agosto. Estraiamo piano le paste dal sacchetto ed assaporiamo la vista della fortezza sulla sponda opposta.
Costruita già prima dell'arrivo dei Romani, la fortificazione si erge a pochi passi dal fiume su di un improvviso rilievo, dominando il borgo asburgico che sorge ai suoi piedi e la città che venne successivamente costruita sulla sponda opposta per ospitare la popolazione ortodossa, ossia la vera Novi Sad, Città Nuova. Infiliamo una scala che si insinua nella terra e sbuchiamo nella parte austriaca, ancora cinta da mura. Tetti a falda spioventi, bow-windows, scrostate insegne di bar, inquietanti simboli del potere.

domenica 22 settembre 2013

katolička porta - giorno 2



Katolička Porta è la piazza sul lato della cattedrale di Novi Sad. Questa sera (e, come scopriremo poi, ogni sera) è gremita di ragazzi di tutte le età, ognuno con il suo personale botellòn. Cerchiamo di evitare di finire come a Zagabria (a guardarci negli occhi al tavolino di un bar) e decidiamo di unirci alla calca festante. Prendiamo qualche birra e ci appostiamo vicino alla fontana. Dopo pochi minuti un ragazzo viene a chiederci un cavatappi ed il gioco è fatto: in breve conosciamo Milan e la sua simpatica combriccola. Milan è un ragazzo originario di un paesino poco fuori città e si è trasferito qui per studiare. Dice che la città è molto interessante ed ha una gran vita, grazie al fervore studentesco, e la piazza sembra dargli ragione. Sostanzialmente il centro storico è costituito da due arterie principali: un boulevard pedonale dove ogni locale è un bar che si espande sulla strada con tavolini e divanetti, ed una strada stretta dove si concentrano i pub ed i clubs della città. Ci facciamo qualche giro di birra insieme e poi bissiamo con quello che stanno bevendo loro, un mix senza nome fatto di vino bianco e schweppes al limone.
Aleksandra, una ragazzona bionda molto appariscente, ci racconta di come lavori per l'ufficio Erasmus tentando di incrementare le possibilità per i serbi di andare all'estero. Una grande opportunità per i ragazzi di qui per poter studiare fuori dal Paese, ma purtroppo le borse sono poche. Li invitiamo a venire a trovarci a Bologna, visto che nessuno di loro vincerà una borsa Erasmus. Milan ci guarda e dice che il problema è che in Serbia non ci sono soldi, che c'è tantissima povertà. Loro sono già fortunati a poter studiare in città, ma non possono fare vacanze, lavorano per stare lì, e di andare all'estero, purtroppo, non se ne parla. Auguriamo loro, goffamente, che aprano delle connessioni low-cost con l'Italia, per poterli ospitare in un futuro.
Poco prima di mezzanotte riveliamo che è il mio compleanno e quindi, tutti insieme, scoliamo i bicchieri e ci trasferiamo in uno dei clubs vicini. Varchiamo la porta e ci infiliamo dietro ai nostri nuovi amici nella calca del locale. Una musica hip-hop sparata a tutto volume fa muovere i corpi come nei videoclip e le ragazze non perdono occasione per mostrare come hanno imparato a scuotere i loro averi. Io e te ci guardiamo, silenziosamente basiti. La notte procede al ritmo di gin tonic e birre, passando da un locale all'altro, attraversando sale dove la musica a noi pare decente ma non ad Aleksandra, che guida i giochi. Quando tutti i locali chiudono Milan, tutto emozionato, ci trascina nel posto che fa la "miglior pizza della città". È un banco che serve le pizze direttamente in strada, e non è niente male. Qui finalmente riusciamo a parlare un po' con Bojana e Danijela che, ormai prede dell'alcol, tentano di esprimersi in un fantasioso inglese. Tutta gente molto simpatica, piena di vita e di quella semplicità che contraddistingue aree dove la ricchezza ancora non ha corrotto la genuinità.
Quando ormai ogni speranza di trovare qualcosa aperto svanisce, salutiamo i nostri momentanei compagni di viaggio e ci ripromettiamo di vederci in Italia. E un hvala di cuore raggiunge ognuno di loro.

monastero di grgteg - giorno 2



Usciamo dalla porta della rimessa sperando che nessuno ci veda, ma appena ritorniamo alla luce del giorno due paia d'occhi ci fissano. Automaticamente cerchiamo di calarci velocemente nella parte dei turisti ingenui portando la mano alle nostre macchine fotografiche, come fosse una scusa. La suora, tarchiata e sorridente, si avvicina domandandoci qualcosa in questa lingua che non conosciamo. Rispondiamo in un inglese stentato che stavamo giusto facendo qualche foto. La ragazza si allontana dalla macchina, ci viene incontro e ci dice che non si può passare dalla rimessa, che è una zona riservata alle suore del monastero. Ci profondiamo in scuse idiote e mi preparo a ridiscendere il sentiero per tornare al parco naturale. Ma vengo colto alla sprovvista dalla tua domanda: "Sapete se da queste parti possiamo trovare un posto dove mangiare qualcosa?". Io, la suora e la ragazza ti guardiamo, perplessi ed increduli allo stesso modo. Due turisti stranieri, a piedi, senza auto, in mezzo al Parco Naturale presidiato solo da qualche monastero, che cercano un posto dove mangiare come fossero in un parco d'attrazioni. La ragazza traduce per la suora che, inaspettatamente, si illumina e le risponde. La ragazza ci dice che le suore hanno già cenato (saranno le sei) e che ora è un momento di depurazione spirituale e fisica. Ma se ci accontentiamo di un cibo tradizionale, molto semplice, suor Teodora sarà contenta di servircelo. Imbarazzati (a questo punto entrambi) rispondiamo che se non è troppo un disturbo accettiamo volentieri. La ragazza ci affida alle cure della suora e ci saluta.
Ci ritroviamo nel refettorio e suor Teodora, evidentemente la cuoca, comincia portarci diversi piatti. La nostra interprete se n'è andata e quindi la comunicazione si risolve sempre in una sorta di ossequioso ringraziamento. Sul tavolo arrivano patate lesse, pane ai cereali, una zuppa, dei pomodori, frutta, vino. Ci lanciamo sulla zuppa e scopriamo cosa fosse l'aroma che pervade il convento: aglio. Aglio in ogni dove. Nelle  patate, nei pomodori, nella zuppa; trecce d'aglio appese alle catene del portico, alle pareti. Evidentemente lo usano come un disinfettante naturale.
Cerchiamo di comunicare con suor Teodora che però non mastica altro che serbo. Lei alza il dito al cielo (universale gesto per dire che ha avuto un'idea) e scompare fuori dal refettorio. Ritorna presentandoci una sua sorella che, evidentemente, parla un po' di inglese. Ci intratteniamo un po' con lei spiegando chi siamo e da dove veniamo. Dopo poco la sorella si accomiata ed esce. All'arrivo dell'ennesima portata cerchiamo di ringraziare la cuoca, tentando di farci comprendere a gesti e con l'unica parola imparata fino ad ora: "dobro", cioè "buono". In risposta la suora ritorna con un'altra consorella a farci da traduttrice. E così andiamo avanti per almeno un'ora, cambiando interprete altre 4 volte, e conoscendo, nell'ordine, altre due suore, un monaco tutto vestito in nero e con la barba lunga, la madre superiora ed una signora con il velo, di Mostar, probabilmente una novizia.
Rifocillati comunichiamo che vogliamo partire prima che faccia buio perchè abbiamo quasi un'ora di cammino per arrivare alla macchina, parcheggiata lungo la strada nel Parco. Teodora si preoccupa subito, dicendoci (tramite l'interprete occasionale) che se lo sapeva diceva a sua sorella di portarci in città! Ma ormai è tardi! E la foresta è pericolosa, ci sono i drogati la notte! Io e te ci guardiamo, dicendole di non preoccuparsi, che staremo attenti, che abbiamo la torcia, che il sentiero è il medesimo fatto all'andata e dunque non c'è pericolo, e che partiremo all'istante per evitare il buio.
Le suore respingono vivamente ogni nostro tentativo economico di ringraziarle ed ogni forma di offerta per il monastero. "Farete una donazione la prossima volta che verrete a trovarci", ci dicono, sapendo che non succederà mai.
Sulla soglia del monastero suor Teodora sorride dei nostri abbracci di ringraziamento ("the italian mode") e ci segna con una benedizione ortodossa. La ringraziamo e prendiamo per il bosco.
Ovviamente il buio è più rapido del previsto nel fitto degli alberi ed il nostro passo vola spedito contro il tempo, prima di ritrovarci completamente ciechi in un Parco che non conosciamo. Mentre cerchiamo di orientarci con i pochi dettagli che ricordiamo dell'andata, mi ritrovo a pensare che sarebbe bello che il Dio di queste terre desse ascolto ad una benedizione pronunciata nella sua lingua.

la sfida



Ma, essendo Barry, dopo un po' si sarebbe stufato, perché più che altro gli piacevano gli inizi delle cose. Capisci quello che voglio dire? Gli faceva piacere rendersi simpatico alla gente, farla arrendere. Gli faceva piacere occuparsene. Ma appena la gente gli si era arresa, la sfida era finita, capisci, e la lasciava perdere. Si annoiava. Come ha fatto con te. È per questo che non aveva amici intimi.

Aidan Chambers, Un amico per sempre

giovedì 19 settembre 2013

some prefer cake



Si spengono le luci e parte il video.
La ragazza si sveglia in un letto che non è il suo senza ricordare come ci sia finita, dopo la festa, e cosa sia successo. Mentre cerca di rivestirsi nota nell'armadio solo indumenti femminili. Ed è proprio una ragazza quella che entra dalla porta e, augurandole buongiorno, le stampa un bacio sulla bocca.
Il documentario che segue, invece, racconta l'esperienza della regista all'interno del campo Burning Man, nel deserto del Nevada. Una città temporanea, una distesa di decine di migliaia di persone che per poco più di una settimana all'anno lavorano e festeggiano insieme dando vita al più grande esperimento comunitario di autoespressione radicale ed arte. Al suo interno si trova il campo Beaverton, oasi che accoglie lesbiche, bisessuali, trans, genderqueer. E per quei otto giorni di fuoco non c'è limite a nulla.

Si riaccendono le luci tra gli applausi generali.
Mi guardo intorno. Mai viste tante ragazze tutte insieme. E mai visti tanti capelli corti in testa a delle ragazze, tutti insieme. Anche il motociclista davanti a me, capello a scodella anni '80 e giacca della Dainese, si volta rivelandosi una donna. Onestamente, a parte il fotografo, non riesco ad individuare un altro uomo in sala, ma molte donne in versione mascolina.

C'è poco da sorprendersi in ogni caso. Sono io l'anomalia all'interno di "Some prefer cake", il festival del cinema lesbico di Bologna.

martedì 17 settembre 2013

fruska gora - giorno 2



Ci sediamo ad uno dei tavoli in legno immersi nel bosco, intorno alla casa montana che funge da ristorante. Tu stai male, uno strano mal di testa pre-hangover, ed abbiamo bisogno di un caffè, o almeno di un bicchiere d'acqua dove sciogliere l'antidolorifico. La fortuna è che il cameriere parla un po' di inglese, la sfortuna che non ha caffè. E, a dire il vero, neppure acqua corrente. A quanto pare hanno avuto un problema con le condutture e sono senza acqua . La visita al bagno lo conferma. Guardiamo la piccola stradina di fronte a noi dove auto e camion serpeggiano verso la cima alla spossante velocità di 20 km/h. Siamo ormai piuttosto lontani da Ruma, dove abbiamo abbandonato l'autostrada per Belgrado, e non vogliamo tornare indietro senza aver visto il parco di Fruska Gora. Chiediamo informazioni su come arrivare alla casa del parco ma il cameriere dice che non ne esiste nessuna, nessun info-point. Poi ci pensa un po' sù e ci dice che potremmo andare in una casina dove si trova un vecchio, bussare alla sua porta e provare a chiedere. Lui dovrebbe poterci aiutare.
La strada è un disastro. Letteralmente. Crateri, voragini scavate in una strada bianca di ghiaia e sassi. Dopo un certo numero di curve troviamo una casa tra gli alberi. Il signore anziano che sta seduto all'ingresso non parla inglese, e chiama il nipote. In uno stentato tentativo di comunicare ci mostra la pianta del parco, che se vogliamo possiamo comprare, ma di informazioni rispetto a sentieri e punti dove accampare riesce a darcene ben poche. Risaliamo in macchina pronti ad addentrarci nella selva e conquistarci i primi chilometri di natura balcanica.
Inaspettatamente dal fogliame emerge una svettante torre delle telecomunicazioni, una scultura in cemento alta quasi duecento metri. Ciò che colpisce è la grande voragine che sventra il corpo sferico che si trova a metà della torre. Solai divelti, armature come tessuti rappresi ad annaspare nell'aria, scale monche, infissi esangui come scheletri sciacallati dal tempo, intonaci sbucciati dall'incuria e dalle intemperie.
Ecco qualcosa che si avvicina a quello che desideravamo incontrare. Le tracce del dramma dei Balcani.

in transito - giorno 1



- Solo per una notte, sì.
Sandra sfoggia il suo sorriso e ci precede. Magra e dinoccolata, sguscia al di fuori della porta, attraversa il ballatoio e ci mostra la nostra stanza. La doccia dietro un paravento, il water sul ballatoio.
Affrontiamo la nostra cena frugale a base di tupperware e chiacchieriamo un po' con i ragazzi di passaggio per la sala. Chi va a Belgrado, chi viene di lì, chi è in viaggio per l'Europa da tempo. Riposano le loro membra per qualche minuto, chiamando temporaneamente casa questo divano. Tutti stranieri, tutti nomadi, tutti momentaneamente immigranti.
Ulica Ivana Tkalčića è piena di vita. Due file di basse case tradizionali, di chiaro stampo montano, si fronteggiano lungo una via che serpeggia verso l'alto. Ogni piano terra è un bar, un pub, un ristorante. Ognuno con la sua terrazza a colonizzare e rendere fertile la strada, il suo gruppo musicale a trattenere i turisti. Ci sediamo mentre il fresco della notte comincia ad entrarci dentro, assaporiamo le nostre bollicine e ci godiamo alcune ottime cover dal vivo.

martedì 10 settembre 2013

a un palmo di naso dalla tua pelle




Come un gruppo Metal
In un locale vuoto
Con due vecchi al bancone
Ti sentirai
Come un cecchino
Senza le munizioni
Al suo primo lavoro
Ti sentirai
Animale da ghiaccio ai tropici
Vegetariano costretto a tritare carne
Per campare…

Come quando
Sono a un palmo di naso
Dalla tua pelle
E non riesco a sfiorati
Non riesco a sfiorarti

Naufrago leghista
Salvato da un rumeno
Residente a Milano
Aspira polvere nel deserto
Un nuovo sospettato
In un caso già chiuso

Come quando
Sono a un palmo di naso
Dalla tua pelle
E non riesco a sfiorati
Non riesco a sfiorarti

La distruzione di un amore - Colapesce

lubiana - giorno 1



Alziamo gli occhi, passeggiando per il centro di Lubiana - asburgico oltre ogni nostra previsione, tetti spioventi a costeggiare il corso, strade ordinate ed intonaci come nuovi - locali ispirati all'Italia, al Messico, gallerie d'arte seminate lungo la salita che porta al castello, sù, in cima alla collina - giardini e parchi a trapuntare la trama cittadina, stretta tra la collina della fortezza e lo sterminato parco Tivoli - un fiume che scorre placido tra le sponde murate e le balaustre pompose, influenzato anch'esso dal rigore dell'antico Impero - l'impressione che tutto sia fin troppo preciso e ordinato, la sensazione di stare dentro una di quelle sfere di cristallo in cui città in miniatura sono racchiuse, splendide e senza macchia, folcloristiche fino all'eccesso, in attesa che qualcuno le scuota e che, finalmente, nevichi.
Alziamo gli occhi, passeggiando per il centro, e gioiamo per il grappolo di scarpe appese ai cavi della luce. Proprio quello che desideravamo. Un abbozzo di neve ad agosto.

lunedì 9 settembre 2013

tutt.uno



Mi faccio trasportare dal tempo, inerte ed ebete come polline al vento, tutto osservando e nulla dicendo. Il mondo passa attraverso gli occhi come un film muto, come il paesaggio dai finestrini del treno. I suoni mi sciacquano i timpani, la pelle a gioire della brezza. Ed il palato sedotto dai mille sapori di questa terra.
La libidine di una cascata d'acqua domestica a lavarmi il capo, dei fichi che si sciolgono in bocca, della pastella fritta, delle verdure del campo. Della genuinità di una terra ancora viva. Della massività che ci accoglie tra le sue braccia di pietra.

mercoledì 4 settembre 2013

sinapsi di pietra



Mura possenti ci circondano. Pareti come madri ci abbracciano, massicce, tonde, morbide. È nel ventre della terra, in stanze quadrate, sotto coni che allattano il nostro spirito; tra nicchie che nascondono l'inessenziale, sulla pelle di intonaci illuminati dall'ultimo sole, è qui che ritroviamo noi stessi, egoisti schizofrenici dalle manie esistenziali.
È qui, su pavimenti lisciati dai decenni, circondati da campi a perdita d'occhio, da alberi che danno ombra e frutti, da qui fino al lungo orizzonte; è qui, nel tempo che è antico ed il clima è amico, che noi ritroviamo, finalmente, noi stessi.

martedì 3 settembre 2013

di paese



Si agita, euforico. Salta e volteggia come fosse in preda a qualche strano spirito -oltre a quello alcolico, si intende. Solleva ritmicamente il cappello da cowboy  rivelando una calvizie avanzata che a nessuno interessa. I vestiti (la giacca color panna, il panciotto, la camicia chiara) stentano a contenerne l'entusiasmo e ci trascinano nelle feste di paese di tanti anni fa, le feste che conosciamo solo dai racconti altrui e da qualche foto seppiata. La banda, uscita direttamente dalle sagre di un'Italia ormai scomparsa, fa cerchio intorno a lui raccogliendone l'allegria e trasformandola in melodie.
Attorno una folla festante di tutte le età si accalca in ogni dove. Gradini, lampioni, balaustre, terrazzi, tetti, mura. Il borgo di Ceglie Messapica viene assaltato per una notte dall'orgoglio di essere paese e di sapere ancora gioire dei piccoli piaceri. E a ricordarlo è un Vinicio particolarmente sbronzo inquadrato da una cupola di stelle.