mercoledì 25 settembre 2013

prima di irig - giorno 3



La strada esce dal Parco puntando verso la piana e ricompaiono le scene di un'epoca ormai scomparsa. Strade dai cigli polverosi, senza segnaletica, case scorticate, coi mattoni forati e le strutture in cemento armato in vista. Di fronte ad ogni abitazione carri parcheggiati su cui sono esposte casse di frutta e verdura pronte ad essere vendute. Uomini e donne di tutte le età siedono, solitari, su logore sedie arenate a pochi passi dai carri, presidi umani di una povertà antica. Tu ti fermi e contratti, senza possibilità di dialogo, un chilo di pesche.
Poco dopo fermiamo la macchina sul ciglio della strada ed entriamo in un piccolo locale che annuncia menù per i camionisti di passaggio. Carne, carne e ancora carne. Varchiamo la porta, sperando di trovare qualcosa di tipico e a prezzi popolari. Il locale in realtà è poco più che una baracca agghindata apparentemente a caso: pareti in boiserie scura vagamente orientaleggianti, spolverini, reti da pesca appese al soffitto, paraventi , foto del ventennio precedente, radiatori da montagna. Tutto ciò a fare da cornice ad una decina di tavoli, apparecchiati con tovaglie di cotone spesso, montanare. Seduto ad uno dei tavoli sta un uomo, l'unico, intento a terminare il suo pranzo. Solleva un ciglio lanciandoci una breve occhiata, e poi torna al suo pasto. Il padrone del locale smette di giocare con una bambina di poco più di dieci anni, si alza dalla sedia e ci viene incontro, perplesso. Cerchiamo di farci capire, domandando se è ancora possibile mangiare. L'uomo, titubante, risponde di sì, seminando qua e là qualche parola in inglese.
Il menù è, ovviamente, rigorosamente in serbo. Ci guardiamo, sorridiamo, e scegliamo pietanze a caso indicando col dito nomi impronunciabili dal listino. Mentre aspettiamo studiamo la cartina ed il percorso dei prossimi giorni, ci raccontiamo quel che ci aspettiamo, quel che ci piacerebbe vedere.
L'uomo rientra nella sala e porta in tavola un vassoio straripante, una montagna di cipolla sepolta sotto spiedini, braciole, patate, verdure. Tutto ottimo e più che abbondante. Tu cerchi di complimentarti, alzando il pollice per dire "buono", ma non sono sicuro che il padrone-cameriere-barista-cuoco del locale abbia capito. E in fatti, qualche minuto dopo, rientra con un'altra insalata. "Uno" gli avevi indicato con il pollice al cielo, ed un'altra insalata ti ha portato. A quanto pare, il linguaggio dei gesti è tutt'altro che universale. Mentre beviamo i nostri caffè turchi, tentando di riprenderci dal cibo, raccontiamo all'uomo del viaggio che stiamo intraprendendo. Lui ci sorride, col sorriso di chi guarda una vita ormai troppo lontana dalla sua. Con un misto di compiacimento e rassegnazione.
Infialiamo la porta e ci ritroviamo sotto un violento acquazzone estivo che spazza la strada. Corriamo rapidi verso la macchina e puntiamo verso sud. È ora di lasciare la periferia del Paese e puntare sulla capitale.

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