La strada
esce dal Parco puntando verso la piana e ricompaiono le scene di un'epoca ormai
scomparsa. Strade dai cigli polverosi, senza segnaletica, case scorticate, coi
mattoni forati e le strutture in cemento armato in vista. Di fronte ad ogni abitazione
carri parcheggiati su cui sono esposte casse di frutta e verdura pronte ad
essere vendute. Uomini e donne di tutte le età siedono, solitari, su logore
sedie arenate a pochi passi dai carri, presidi umani di una povertà antica. Tu
ti fermi e contratti, senza possibilità di dialogo, un chilo di pesche.
Poco dopo
fermiamo la macchina sul ciglio della strada ed entriamo in un piccolo locale
che annuncia menù per i camionisti di passaggio. Carne, carne e ancora carne. Varchiamo
la porta, sperando di trovare qualcosa di tipico e a prezzi popolari. Il locale
in realtà è poco più che una baracca agghindata apparentemente a caso: pareti
in boiserie scura vagamente orientaleggianti, spolverini, reti da pesca appese
al soffitto, paraventi , foto del ventennio precedente, radiatori da montagna. Tutto
ciò a fare da cornice ad una decina di tavoli, apparecchiati con tovaglie di
cotone spesso, montanare. Seduto ad uno dei tavoli sta un uomo, l'unico,
intento a terminare il suo pranzo. Solleva un ciglio lanciandoci una breve
occhiata, e poi torna al suo pasto. Il padrone del locale smette di giocare con
una bambina di poco più di dieci anni, si alza dalla sedia e ci viene incontro,
perplesso. Cerchiamo di farci capire, domandando se è ancora possibile
mangiare. L'uomo, titubante, risponde di sì, seminando qua e là qualche parola
in inglese.
Il menù è,
ovviamente, rigorosamente in serbo. Ci guardiamo, sorridiamo, e scegliamo
pietanze a caso indicando col dito nomi impronunciabili dal listino. Mentre aspettiamo
studiamo la cartina ed il percorso dei prossimi giorni, ci raccontiamo quel che
ci aspettiamo, quel che ci piacerebbe vedere.
L'uomo
rientra nella sala e porta in tavola un vassoio straripante, una montagna di
cipolla sepolta sotto spiedini, braciole, patate, verdure. Tutto ottimo e più
che abbondante. Tu cerchi di complimentarti, alzando il pollice per dire
"buono", ma non sono sicuro che il padrone-cameriere-barista-cuoco
del locale abbia capito. E in fatti, qualche minuto dopo, rientra con un'altra
insalata. "Uno" gli avevi indicato con il pollice al cielo, ed
un'altra insalata ti ha portato. A quanto pare, il linguaggio dei gesti è
tutt'altro che universale. Mentre beviamo i nostri caffè turchi, tentando di
riprenderci dal cibo, raccontiamo all'uomo del viaggio che stiamo
intraprendendo. Lui ci sorride, col sorriso di chi guarda una vita ormai troppo
lontana dalla sua. Con un misto di compiacimento e rassegnazione.
Infialiamo la
porta e ci ritroviamo sotto un violento acquazzone estivo che spazza la strada.
Corriamo rapidi verso la macchina e puntiamo verso sud. È ora di lasciare la
periferia del Paese e puntare sulla capitale.
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